La prima cosa che ho scoperto una volta arrivato in Liechtenstein, il piccolo principato stretto tra la Svizzera e l’Austria, è che ne avevo sempre pronunciato male il nome. Anche se è il tedesco la lingua ufficiale, il ch della parola Liechtenstein non corrisponde al suono duro e germanico simile a una k, e nemmeno a quello svizzero, molto più vellutato, di chalet, che ho avuto l’opportunità di ascoltare all’aeroporto di Zurigo. È un suono più complesso, simile allo stridore aspirato della parola ebraica chutzpah: Lihhtenshtain.
La seconda cosa che ho scoperto è che la crema solare che avevo portato per la mia escursione di tre giorni nel Liechtenstein Trail – un percorso di 75 chilometri che attraversa tutte gli undici comuni dello stato, dal confine svizzero a sudovest fino a quello austriaco, a nordest – sarebbe stata inutile. Le previsioni, infatti, annunciavano pioggia. Molta pioggia. Ogni giorno. Alla vigilia della partenza dalla capitale Vaduz ho incontrato un gruppo di escursionisti di Filadelfia, negli Stati Uniti. Erano esausti. Mi hanno raccontato che le condizioni meteorologiche avevano reso il percorso molto più difficile del previsto e mi hanno messo in guardia sui pericoli delle discese nel fango.
Ma nel mio primo giorno di cammino le discese non sarebbero state certo un problema: gli undici chilometri iniziali del percorso, che comincia appena fuori il centro di Balzers, sono infatti piuttosto pianeggianti. Quando mi sono caricato in spalla lo zaino e mi sono messo a camminare sotto una pioggerella sottile ero sicuro che sarei stato all’altezza della sfida. Certo, ho 53 anni e da decenni non partecipavo a un’escursione più lunga di cinque o sei chilometri. Inoltre, nella fitta nebbia, riuscivo a malapena a scorgere il luogo dove avrei trascorso la notte: il villaggio di Triesenberg, situato circa cinquecento metri più in alto, in cima a quella che mi sembrava una parete verticale. Ma non avevo nessuna intenzione di permettere a un po’ di pioggia di rovinare un’avventura che sognavo da anni. Soprattutto, dovevo considerare il fatto che la mia valigia era già a Triesenberg. In un modo o nell’altro avrei dovuto domare quel pendio.
Un’altra avventura
Il mio amore per i viaggi in solitaria non ebbe un inizio incoraggiante. A diciannove anni avevo avuto la fortuna di fare una vacanza-studio a Parigi. La prima sera, a causa di un errore di prenotazione, ero finito in un alberghetto economico dalle parti della Rive Gauche. Anche se ero entusiasta per il mio primo viaggio in Europa, quella notte piansi fino ad addormentarmi. Non avevo nostalgia di casa né mi sentivo solo. Era una sorta di solitudine esistenziale, l’improvvisa consapevolezza di quanto fosse grande il mondo e piccolo il posto che io occupavo.
Passai gli anni tra i venti e i trenta viaggiando in posti che nessuno dei miei conoscenti aveva mai visitato, usando i miei miseri risparmi per “imprese” solitarie in Belize, Messico, India, Nepal, Bolivia. A 28 anni misi in vendita tutto quello che possedevo e mi trasferii a Cuzco, in Perù, dove avrei vissuto per gran parte dei due anni successivi. In quel periodo imparai a gestire, e perfino ad apprezzare, lo shock iniziale prodotto dalla lontananza, la sensazione di fluttuare nello spazio, scollegato da tutte le cose e le persone che conoscevo. Ma imparai anche ad apprezzare la fatica di orientarmi e la soddisfazione di capire come muovermi in luoghi sconosciuti, fino al momento in cui mi svegliavo e non mi sentivo più smarrito.
Quando tornai negli Stati Uniti ero sicuro che in tutto il pianeta non esistesse posto che non potessi visitare da solo. Ma dopo i trent’anni ottenni il primo lavoro a tempo pieno come professore, e dopo i quaranta arrivò il matrimonio, con i figli e la casa di proprietà. I giorni in cui potevo mollare tutto e salire su un aereo mi sembravano persi per sempre. Per questo, quando ho scoperto l’esistenza del Liechtenstein Trail, inaugurato nel 2019, ho cominciato a sviluppare una specie di ossessione.
Mi sembrava che ci fosse qualcosa di irreale nel Liechtenstein, il sesto paese più piccolo del mondo, con una superficie di appena 160 chilometri quadrati e 39mila abitanti, più o meno il numero di studenti dell’università in cui insegno, in Colorado. Era una specie di Brigadoon, il villaggio immaginario del vecchio film di Vincente Minnelli. Mi vedevo mentre salivo su un autobus svizzero al confine, attraversavo passi montani innevati e bevevo schnapps in compagnia di liechtensteiniani alti e con i capelli rossastri. Il problema era che il protagonista di quei vaneggiamenti aveva vent’anni in meno di quelli che ho io nella realtà. Ce l’avrei fatta?
Lungo il sentiero
Balzers è sulla riva del Reno, di fronte alla città svizzera di Sargans. Il monumento principale è il castello di Gutenberg. Costruito nel tredicesimo secolo, svetta come un bastione bianco su una rocca alta una settantina di metri. Nelle giornate di bel tempo è visibile anche da Vaduz, otto chilometri più a nord.
Dall’inizio del sentiero ho camminato di buon passo lungo il confine svizzero, fermandomi di tanto in tanto per controllare il percorso su LIstory, un’applicazione creata per accompagnare gli escursionisti, che illustra i 147 “punti d’interesse” lungo la rotta: una sorta di storia dell’Europa centrale dal medioevo a oggi. In meno di un’ora ho raggiunto il castello di Gutenberg, dove mi sono fermato per riposare all’interno del cortile, circondato da montagne che salivano fino a bucare le nuvole più basse.
Il castello, che è appartenuto agli Asburgo per secoli, prima di cadere in rovina nel settecento, può essere visitato solo su appuntamento. Ho pensato che non fosse un problema, perché LIstory prometteva un tour virtuale delle sale interne. Quello che l’app non poteva garantire, però, era un segnale telefonico affidabile, e LIstory “sblocca” un punto d’interesse solo se il telefono è lì vicino e prende. Per dieci, frustranti minuti mi sono aggirato intorno al castello, salendo in piedi sulle panchine e agitando il mio smartphone verso il cielo, nel vano tentativo di connettermi. Quando una nuova scarica di pioggia mi ha sorpreso, ho deciso di lasciar perdere. Ho ingurgitato una barretta energetica e mi sono avviato per la mia strada.
Il resto della mattinata è stato più un piacevole vagabondaggio che una vera escursione. L’aria fredda mi ha spinto oltre un mulino del nono secolo e fino a un santuario dedicato alle centinaia di donne accusate di stregoneria e giustiziate nel seicento. Mi sono fermato per pranzare tra i fiori di campo della riserva naturale di Matilaberg, aspettandomi che da un momento all’altro Julie Andrews scendesse piroettando dalle colline. Fino a quel momento avevo mantenuto un buon ritmo, ma sentivo incombere la salita. Avvolta da nuvole scure, Triesenberg non si vedeva più. Più mi allontanavo dal fiume e più l’area circostante mi sembrava remota. Dopo un po’ ho incrociato un anziano equipaggiato con bastoncini da escursione che procedeva in direzione opposta. Mi ha salutato in tedesco. Era il primo incontro che facevo da quando ero sceso dall’autobus proveniente da Vaduz, la mattina presto. Secondo l’app sarei dovuto salire per circa due ore. Ma in realtà l’app non aveva idea di dove fossi.
Così, con le migliori intenzioni, mi sono messo in marcia nel punto in cui si trova la cappella di San Mamertus, una piccola e austera chiesa con affreschi del trecento e del quattrocento. La vera pioggia è arrivata dieci minuti dopo.
La strada lastricata e i piccoli vigneti hanno subito lasciato il posto a ripidi pascoli. Improvvisamente sotto di me si trovava la valle del Reno, di un verde invitante sotto quel cielo di nuvole nere. Mi sono fermato per indossare un impermeabile leggero e mi sono catapultato verso la foresta pregando che le gambe e i polmoni mi portassero fino alla fine del percorso, fangoso e sempre più stretto. Le grosse radici degli alberi offrivano un appiglio fondamentale per i piedi.
Dopo quaranta faticosi minuti sono uscito dal bosco e mi sono trovato davanti una decina di lama perplessi. Erano di alcuni allevatori locali che offrivano escursioni e pasti a base di fonduta. A quel punto ero bagnato fradicio e tremavo dal freddo, ma secondo l’applicazione – che m’indicava con un puntino rosso che continuava a lampeggiare vivacemente – ero ad appena un chilometro e mezzo dalla meta.
Poco prima delle cinque del pomeriggio ho finalmente raggiunto Triesenberg, un paese di 2.600 persone. Dopo aver indossato rapidamente dei vestiti asciutti, ho cenato in una terrazza coperta, osservando il tramonto sulla valle bagnata dalla pioggia. Poi mi sono disteso sul piccolo letto della mia stanza d’albergo congratulandomi con me stesso per aver completato la prima giornata. Ho controllato le previsioni del tempo: altra pioggia in arrivo. Triesenberg era completamente silenzioso. Mentre mi assopivo, ho pensato che in tutto il mondo solo pochissime persone sapevano dove mi trovassi. Ero da solo in uno dei luoghi più remoti che avessi mai visto. E mi piaceva.
Per pochi fortunati
“Il Liechtenstein non è, e probabilmente non lo sarà mai, un paese adatto al turismo di massa. E comunque un gran traffico di persone lungo il Trail non avrebbe senso”, mi ha spiegato Nicole Thöny, dirigente della Liechtenstein Marketing, l’agenzia che ha progettato il Liechtenstein Trail. Nel 2017 – in vista dei trecento anni del principato, che si sono celebrati nel 2019 – la sua azienda ha tracciato un percorso che avrebbe collegato alcuni segmenti di una rete di sentieri lunga complessivamente 400 chilometri. L’obiettivo era mostrare la bellezza e la cultura del paese. Il piano originario prevedeva una distanza di 42 chilometri, pari a quella della maratona, ma i funzionari comunali e gli storici locali avevano altri progetti. “‘Il percorso deve assolutamente toccare questa chiesa, e anche questa collina, e poi quell’altro luogo…’, dicevano. Così si è allungato fino a 75 chilometri”, mi ha spiegato Thöny.
Quando è scoppiata la pandemia, l’iniziativa, che era stata ideata per attirare i turisti, si è rivelata in qualche modo lungimirante. All’epoca il percorso era aperto da meno di un anno, e per la gente del Liechtenstein (ma anche per gli svizzeri e i tedeschi) era una delle poche opportunità di svago, e consentiva agli alberghi e ai ristoranti di continuare a lavorare. Poi, dall’estate del 2020, il turismo ha ricominciato a crescere. Come ci ha spiegato Martin Knöpfler, a capo della squadra che ha progettato il percorso, oggi i turisti sono il 30 per cento in più rispetto al periodo precedente all’apertura del Trail.
Considerato che l’accesso è gratuito e non richiede una registrazione, non si può sapere quante persone abbiano percorso i sentieri (Liechtenstein Marketing vende pacchetti che includono soggiorni in albergo, pasti e trasferimenti di bagagli, ma i suoi clienti sono solo una piccola parte delle persone che fanno il trekking). Nel centro per il turismo di Vaduz c’è un libro che gli escursionisti possono firmare. I nomi dei miei amici di Filadelfia occupavano le caselle dalla 259 alla 262, un numero irrisorio considerato che il percorso esiste da quattro anni.
Il Liechtenstein non è, e probabilmente non sarà mai, un paese per il turismo di massa
Alle sei del mattino le campane di Triesenberg hanno cominciato a suonare all’impazzata. I rintocchi non sono stati sei, e nemmeno sessanta, ma una raffica durata almeno dieci minuti. Disorientato ed esausto, mi sono avvicinato alla finestra e ho osservato un panorama che somigliava a una zuppa di patate, da cui emergeva solo il profilo del campanile. Mi sono chiesto se il mondo stesse per finire.
Qualche ora dopo sono uscito dal villaggio attraversando banchi di nebbia fitta e un silenzio rotto solo dai sonagli a vento e dai campanacci delle capre. Triesenberg è stata fondata nel trecento da coloni del popolo walser, la cui presenza è ancora percepibile nel bosco, dove sculture in legno a grandezza naturale si annidano tra gli alberi e capanne abbandonate popolano i prati isolati.
La pioggia non cadeva: sembrava colare. Attraverso gli alberi potevo cogliere qualche scorcio della vallata, mentre la nebbia si sfilacciava come zucchero filato. A metà mattina mi sono fermato per esplorare le rovine del Wildschloss, una fortezza del dodicesimo secolo affacciata sulla vallata. Poi ho proseguito la discesa fino al castello di Vaduz e alla capitale.
Anche se la costruzione del castello risale al duecento, gli esponenti del casato di Liechtenstein lo trasformarono nella loro dimora solo a metà del novecento, dopo che l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li aveva costretti ad abbandonare la storica residenza di Vienna. Il castello è situato a metà di un pendìo ai margini dell’abitato. Si vide da Vaduz, ma è difficile da raggiungere ed è chiuso al pubblico. I visitatori possono ammirarlo attraverso un altro tour virtuale su LIstory, oppure aspettare il 15 agosto, la giornata nazionale del Liechtenstein, in cui il principe Giovanni Adamo II invita la popolazione nel roseto reale.
Più a valle, buona parte del circuito che attraversa Vaduz è dedicata al principe e alla sua famiglia. In città è possibile visitare un museo che ospita molte opere della collezione della corona; la cattedrale di San Florino, con una cripta in cui sono sepolti diversi reali; e il Vigneto del principe, che comprende dieci acri di vitigni di pinot nero e chardonnay, un ristorante di lusso e una sala per le degustazioni.
Prima d’intraprendere il Trail, avevo trascorso tre giorni a Vaduz. Così, scendendo dal castello, ho provato un certo orgoglio: conoscevo la città, ne avevo percorso le strade, avevo usato i suoi trasporti pubblici e visitato le sue bellezze. Non ero più un turista. Ich bin ein Liechtensteiner! Ma avevo ancora tredici chilometri da percorrere, così mi sono incamminato di buona lena per le austere strade della città, superando antichi fienili e case con facciate stuccate e persiane verdi coperte di edera. Poi sono tornato a immergermi nel bosco.
A metà pomeriggio il sole ha fatto finalmente capolino. Il sentiero aveva ripreso a inerpicarsi lungo una salita di trecento metri fino al villaggio di Planken. A un certo punto l’applicazione ha di nuovo perso il collegamento, e dopo un paio d’incroci non segnalati ero completamente smarrito, in una strada sterrata che ho percorso per mezz’ora prima di decidere di tornare indietro. La vivacità con cui avevo coperto i primi trentacinque chilometri stava svanendo. Ero impaziente di arrivare a Nendeln, dove avrei trascorso la notte. Ho superato, senza fermarmi, il sito dove nel 1939 alcuni simpatizzanti della Germania nazista organizzarono un tentativo di golpe, un crinale in cui gli svizzeri tesero un’imboscata alle truppe asburgiche nel 1499 e un convento costruito dalle Suore adoratrici del sangue di Cristo. Secondo l’app, per raggiungere Nendeln avrei dovuto camminare per circa tre chilometri. Ero abbastanza vicino da poter fantasticare sulla birra che mi aspettava in albergo.
È a Planken che ho visto i panorami più spettacolari. Il cielo era di un blu sottile e lattiginoso, mentre la vallata, con i suoi campi verdi e immacolati, correva verso il fiume e le alpi svizzere, sul versante opposto.
La pioggia aveva trasformato i sentieri in fiumi di fango, spostando le rocce che permettevano agli escursionisti di attraversare i torrenti. In alcuni punti in cui il pendio era particolarmente ripido c’erano corde fissate agli alberi per fornire un’appiglio, ma spesso con i piedi non riuscivo ad aderire a terra, così mi ritrovavo a roteare le braccia in cerca della corda mentre scivolavo pericolosamente a valle. A 23 anni avrei trovato l’esperienza esaltante, avrei riso di gusto sprofondando fino al ginocchio in un torrente e sarei stato orgoglioso di arrivare a Nendeln, un’ora e mezzo dopo, con i vestiti coperti di fango. Ma a 53 anni ero semplicemente felice di aver completato la discesa senza farmi male e sognavo la doccia calda che mi aspettava in albergo. E poi c’era la birra.
Due anni fa, vista la crescente popolarità delle biciclette elettriche, Knöpfler e la sua squadra hanno cominciato a progettare una pista ciclabile, per cui servivano una nuova segnaletica e una nuova versione dell’app. La linea rende il percorso accessibile ai turisti anziani o meno in forma, ma anche a chi non ha molto tempo. “Però sono convinto che vivrai un’esperienza più profonda andando a piedi”, mi ha detto Knöpfler.
Tuttavia, con più di 32 chilometri ancora da percorrere, ero sicuro che non sarei riuscito ad arrivare in tempo. Così l’ultima mattina ho affittato una bici elettrica nel villaggio di Eschen e ho pedalato. Il cielo era ancora scuro, ma l’aria cominciava a riscaldarmi. Ho superato le colline di Güediga, dove nel medioevo i conti di Vaduz allestivano le forche per le condanne a morte, con inebriante facilità. Nei primi due giorni di cammino avevo trovato un mio ritmo e ora – mentre sfrecciavo attraverso i villaggi di Bendern e Ruggell, le paludi di torba e l’erba scura del Ruggeller Riet – provavo già nostalgia delle lente passeggiate nei boschi, che mi davano la possibilità di osservare tutto con calma e di riflettere. Ho capito che dovevo rallentare e fermarmi spesso per assorbire quello che vedevo.
Fino alla fine
A causa dell’assenza di pendii, la gente del Liechtenstein chiama Unterland (pianura) il nord del paese. In ampi tratti del percorso lungo la riva del Reno e la collina di Schellenberg il terreno è agevole, così ho deciso di ridurre la velocità per godermi la brezza e il profumo dei fiori. Ma quando è cominciata la lunga salita verso l’Obere Burg (il Castello superiore), quattro chilometri di strada con un dislivello di trecento metri, ho inserito la modalità turbo, completando in venti minuti un percorso che avrebbe richiesto novanta minuti di camminata.
L’Obere Burg, costruito nel duecento dai signori di Schellenberg, è il pezzo forte dell’ultima parte del percorso: una fortezza in rovina sulla cima rocciosa di una collina, con vista sulla valle e sull’Austria. Il monumento è facilmente raggiungibile in auto, per questo ho trovato una famiglia che faceva un picnic e un gruppo di turisti che vagavano all’interno delle mura facendosi dei selfie. Erano più persone di quelle che avevo visto nei tre giorni precedenti. Abituato alla solitudine, ho avuto la tentazione di abbandonarmi al fastidio, ma il tempo era diventato incantevole. Mentre uno strato di nuvole aleggiava sulla vallata, mi sono seduto su un muro vecchio di otto secoli, ho sgranocchiato l’ultima barretta energetica e ho chiuso l’app.
Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite, il Liechtenstein è uno dei paesi meno visitati al mondo. Nemmeno ottantamila turisti all’anno. Io ero uno di loro. Avevo attraversato tutto il suo territorio, da sud a nord, fermandomi in 147 punti d’interesse (forse quasi tutti…) e sfidando la pioggia, il fango e le bizze dell’app LIstory fino a raggiungere quella fortezza medievale nel cuore nascosto dell’Europa. Ero felice che il percorso non fosse stato troppo comodo, perché gli imprevisti mi avevano costretto ad affidarmi all’istinto, a commettere errori e a ritrovare le abitudini che avevo a vent’anni, quando non esistevano gli smartphone e il gps. Avevo dimostrato qualcosa a me stesso. E anche se non vedevo l’ora di tornare a casa e dalla mia famiglia, una parte di me era ansiosa di andare alla ricerca di un’altra avventura.
La giornata stava per finire. L’ultima nebbia abbandonava il pendio. Mi restava da compiere la discesa finale, gli ultimi otto chilometri. Quando si è alzato il vento e il sole è scivolato dietro una nuvola, sono salito in sella alla bici e mi sono avviato verso Lauren, e da lì fino a Schaanwald, il solitario valico di frontiera dove finisce il percorso. E anche il Liechtenstein. ◆ as
Andrew Altschul è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo romanzo è The Gringa (New York 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1536 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati