Avete sentito? C’è stato un altro omicidio in un hotel della catena White Lotus, stavolta in Thailandia. Arrivata alla terza stagione, la celebrata serie tragicomica della Hbo, creata da Mike White, segue le assurde vicende degli ospiti dei lussuosi alberghi White Lotus, tutti ricchi e quasi tutti bianchi, insieme a quelle dei dipendenti delle strutture. La serie abbonda di satira sociale e momenti drammatici, con l’immancabile delitto in paradiso. La prima stagione era ambientata alle Hawaii, la seconda la serie si era trasferita in Sicilia. Ora la morte è arrivata in Thailandia, sull’isola di Koh Samui. Ho condotto alcune ricerche su come la Thailandia è rappresentata al cinema e in tv ed ero ansioso di scoprire in che modo gli autori avessero affrontato questo aspetto. Purtroppo sono rimasto deluso: anche questa serie mette in primo piano la classica bellezza esotica del paese, condita di misticismo buddista.

Turisti insopportabili

La storia segue quattro gruppi di persone che quasi sempre, per varie ragioni, suscitano repulsione. Cominciamo dalla famiglia Ratliff. Il padre, Timothy (Jason Isaacs), lavora nel mondo della finanza, mentre la madre, Victoria (Parker Posey), è cronicamente afflitta dall’ansia, assume una grande quantità di farmaci e si addormenta di continuo.

Poi ci sono i figli: Piper (Sarah Catherine Hook) studia il buddismo, Lochlan (Sam Nivola) è tutto storto perché passa ore incollato al computer e Saxon (Patrick Schwarzenegger), il maggiore, è ossessionato dal sesso.

Il secondo gruppo è composto da tre donne di mezza età che hanno organizzato una “vacanza tra ragazze” e abbandonano ogni inibizione con il trascorrere degli episodi. Saxon le chiama ripetutamente “cougar”. Segue una coppia bizzarra formata da Chelsea (Aimee Lou Wood) e dal suo compagno più anziano Rick (Walton Goggins), che sembrano avere più di un problema.

L’unica persona gradevole, Belinda (Natasha Rothwell), è un personaggio già incontrato nella prima stagione, quando lavorava nel centro benessere del resort hawaiano. È andata in Thailandia per aggiornarsi sui trattamenti di benessere da riproporre nella sua spa.

Come nelle stagioni precedenti, gli ospiti sono ignoranti e superficiali. Confondono la Thailandia con Taiwan, mentre la madre dice a Piper che non può essere buddista perché non è cinese.

In più di un episodio ricorre lo stereotipo dell’uomo bianco di mezza età, ricco e pelato che si è trasferito in Thailandia con una moglie molto più giovane, ed è definito dall’acronimo lbh (losers back home, perdente in patria).

Attraverso l’ignoranza e l’insensibilità degli ospiti, lo spettatore entra in contatto con i pochi personaggi tailandesi, immancabilmente servili e sorridenti, sempre pronti a “esaudire desideri”.

Dalla serie non traspare alcun senso di disgusto per come i ricchi bianchi sfruttano queste persone. I tailandesi praticamente non hanno voce e sono quasi sempre assenti.

White Lotus 3 - hbo
White Lotus 3 (hbo)

Belinda, l’unico personaggio afroamericano, è anche la sola ad avere una conversazione sensata con un tailandese. L’amore tra la guardia di sicurezza Gaitok (Tayme Thapthimthong) e l’esperta di salute Mook (Lalisa Manobal) è l’unica sottotrama che concede un po’ di spazio a personaggi locali, ma si tratta comunque di una storia marginale.

Nella serie è evidente una spaccatura culturale, economica e razziale che impedisce a qualunque personaggio tailandese di esprimere le proprie critiche agli ospiti o di svilupparsi in modo significativo. L’attenzione è rivolta sempre e comunque ai bianchi. Una costante che è stata sottolineata anche a proposito delle stagioni precedenti.

Tutti questi elementi restituiscono una Thailandia vista attraverso le lenti dell’orientalismo, ovvero la tendenza degli occidentali a considerare il resto del mondo come un luogo di misticismo, erotismo ed esotismo, dove accadono solo cose strane. Questo emerge chiaramente da battute e frasi ricorrenti, come per esempio: “La Thailandia è piena di persone che cercano qualcosa o nascondono qualcosa”. O, ancora peggio: “Quello che accade in Thailandia resta in Thailandia”.

Nella serie scorrono fiumi di alcol e droghe, fin troppo facili da reperire in ogni resort. Nei primi episodi non manca un’allusione all’incesto, quando Lochlan osserva il corpo nudo del fratello.

Sogno orientale

Insomma il paese è ritratto come un parco giochi per bianchi degenerati, dove tutto è ammissibile proprio come in Una notte da leoni II (2011). È un tropo di cui mi sono occupato nelle mie ricerche.

Il legame con l’orientalismo è rafforzato dal fatto che la religione tailandese è descritta come “mistica”. Ogni volta che un personaggio segue una pratica spirituale lo accompagna una musica tintinnante, come se fosse in corso un fenomeno ultraterreno.

Questa distorsione non si limita ai personaggi occidentali. Quando Gaitok presenta un’offerta in un tempio, la scena è al rallentatore e l’atmosfera irreale è sottolineata dalla luce delle candele.

Le prime due stagioni hanno innescato un boom dei viaggi nelle località delle riprese, in Sicilia e alle Hawaii. È molto probabile che lo stesso accadrà anche con la Thailandia.

Il panorama è un punto focale costante che esemplifica la teoria dello “sguardo turistico” proposta dal sociologo britannico John Urry. Le inquadrature si soffermano a lungo sugli scorci suggestivi, dalla giungla di palme all’oceano. Le scimmie sono una presenza continua, insieme ad altre creature “esotiche”.

Si tratta di un aspetto ricorrente nei film hollywoodiani ambientati in Thailandia, da Anna e il re del Siam (1946) a The impossible (2012), in cui il paese è poco più che uno sfondo.

La terza serie di White Lotus usa diversi luoghi turistici come il tempio buddista Wat Pho, dove è ambientata una conversazione. Durante una lussuosa gita in yacht sembra di intravedere le isole Phi Phi, conosciute per le loro spiagge immacolate e le acque cristalline. Purtroppo, anche qui la Thailandia è ridotta a una serie di cartoline.

White Lotus porta avanti un gioco ambiguo. Da un lato la serie critica apertamente i personaggi e il loro stile di vita, mentre dall’altro rafforza antiquati stereo­tipi orientalisti.

E in conclusione non è facile da mandare giù il fatto che una serie impegnata a mostrare i mali di un certo tipo di turismo cada nelle stesse banalità che cerca di ridicolizzare. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati