Non riesce più a contattare sua sorella, il cognato e i loro due figli da qualche ora. Le comunicazioni si sono interrotte dopo che è finita la carica del telefono. Sono senza acqua e cibo e camminano da tre giorni nel bosco al confine tra Polonia e Bielorussia, nella foresta di Białowieża. Harem Jamil è un curdo iracheno di Sulaymaniyya e ha chiamato i volontari polacchi che aiutano i profughi al confine per chiedere se hanno notizie della sua famiglia. La sua voce è spezzata: “Sono in difficoltà. Aiutateli, vi prego, non hanno più da mangiare”.
Nelle stesse ore, il 12 novembre, i volontari hanno saputo che un gruppo di dieci persone è stato intercettato dalla polizia di frontiera polacca nel bosco vicino a Narewka, un paese a più di tre ore di macchina da Varsavia e a dieci chilometri dal confine bielorusso. Nel gruppo ci sono cinque bambini e una donna. Attraverso le chat dei volontari è stata diramata l’allerta insieme alle coordinate della loro posizione nel bosco, ma non c’è stato modo di mettersi in contatto con loro prima che la polizia li portasse via, per riportarli in Bielorussia a bordo di un blindato.
I medici volontari dell’organizzazione Medycy na granicy (Medici alla frontiera), che sono intervenuti nell’operazione, hanno raccontato che la donna era in cattive condizioni di salute a causa del freddo ed è stata ricoverata in ospedale. Ma degli altri non si sa nulla, non è stato possibile controllare se tra loro ci fossero i familiari di Jamil. “Che ne sarà di loro?”, chiede l’uomo al telefono. “È vero che la Polonia aprirà il confine ai profughi il 15 novembre?”, continua, riportando le voci che girano nell’accampamento informale sorto al di là del confine, probabilmente messe in giro dalle autorità bielorusse.
Da giorni i mezzi d’informazione bielorussi diffondono le immagini di centinaia di profughi nel centro di Minsk o in marcia verso il confine con la Polonia. Ma le immagini non sono verificabili, e neanche i numeri dei migranti presenti nel paese, perché l’accesso per la stampa indipendente in Bielorussia è limitato. Così la guerra “ibrida” tra Minsk e Varsavia è soprattutto una guerra di propaganda: Minsk mostra le foto delle carovane dirette verso la frontiera, Varsavia risponde con le immagini dei soldati schierati dietro il filo spinato.
Sul cellulare di tutti quelli che si trovano nella zona arrivano degli sms inviati direttamente dal governo polacco: “Il confine polacco è chiuso. Le autorità bielorusse vi stanno raccontando delle bugie. Tornate a Minsk e non prendete nessuna pillola dai militari bielorussi”. Sono sms indirizzati ai profughi, ma che arrivano a chiunque si trovi nella zona: parlano di presunte “pillole” distribuite ai migranti dalle autorità bielorusse, di cui tuttavia non c’è nessuna conferma. Per giorni inoltre la polizia polacca ha diffuso con gli altoparlanti sempre lo stesso messaggio in inglese: “Attenzione, attenzione! Attraversare il confine polacco è possibile solo ai valichi di frontiera”.
Ma anche il versante europeo del confine è impossibile da raggiungere: il 2 settembre la Polonia ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha istituito una zona rossa larga tre chilometri, in cui possono entrare solo i militari e i residenti. Così anche le notizie che arrivano dal lato polacco del confine non possono essere verificate: un black out informativo denunciato da molti giornalisti e dalle organizzazioni umanitarie che chiedono che sia subito garantito l’accesso. “Quasi sicuramente la polizia polacca ha respinto in Bielorussia quel gruppo di persone, come avviene nella maggior parte dei casi da mesi”, spiega Jakub Sypiański, uno dei volontari di Grupa granica (Gruppo di confine), una rete di quattordici organizzazioni umanitarie e di singoli cittadini impegnata dalla scorsa estate a soccorrere i migranti – soprattutto iracheni e siriani – che rischiano la vita nei boschi, dopo aver attraversato la recinzione di filo spinato tra i due paesi.
“Un tempo questa frontiera non era neanche presidiata, perché erano i bielorussi a impedire alle persone di raggiungerla”, dice Sypiański. Ora sta succedendo il contrario: sono i bielorussi a spingere i migranti ad attraversarla. Tra il 12 e il 13 novembre le guardie bielorusse hanno usato laser e torce elettriche per accecare quelle polacche. Secondo Varsavia, inoltre, i bielorussi hanno dato ai migranti dei gas lacrimogeni da lanciare conto le guardie mentre provavano ad attraversare il confine.
Nessuno sa a cosa porterà questa escalation, ma è certo che migliaia di persone ne stanno pagando il prezzo. “Dalla metà di ottobre abbiamo soccorso almeno tremila persone rimaste intrappolate nella foresta. Dall’inizio di novembre ne abbiamo aiutate novecento, tra cui cento bambini, in 113 interventi”, racconta Iwo Łoś, un ricercatore in sociologia che ha sospeso gli studi per diventare il portavoce dei volontari polacchi. “Rimandare queste persone in Bielorussia, un paese che non rispetta i diritti fondamentali, è disumano, indegno di un paese democratico e contrario alle leggi internazionali”.
Da mesi la Polonia accusa il presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukašenko, di aver provocato una nuova crisi dei rifugiati in Europa, organizzando l’arrivo di migliaia di migranti dal Medio Oriente attraverso delle agenzie pubbliche e indirizzandoli verso la Polonia per fare pressione su Bruxelles. Lukašenko vuole convincere l’Unione europea a sospendere le sanzioni economiche imposte al suo paese dopo il giro di vite contro l’opposizione che dall’agosto del 2020 contesta la sua sesta vittoria alle elezioni presidenziali. Secondo alcuni rapporti nelle carceri bielorusse sono imprigionati ottocento oppositori politici.
Dalla val di Susa a Białowieża
La situazione al confine è esplosa quando un gruppo di profughi, scortato dai militari bielorussi, ha tagliato il filo spinato vicino al valico della città polacca di Kuźnica, l’8 novembre. Il governo polacco ha schierato ventimila uomini lungo i quattrocento chilometri di confine e ha chiesto alla Nato, alle Nazioni Unite e all’Unione europea d’intervenire. Dall’inizio di settembre è vietato alle ong e alle organizzazioni umanitarie entrare nella zona rossa, ma un gruppo di circa duecento attivisti polacchi continua a monitorare quello che succede nell’area con l’aiuto dei residenti, operando al limite della legalità.
Piotr Witczak (un nome di fantasia), 38 anni, è uno dei volontari e passa vari giorni al mese al confine. Insegna antropologia all’università di Varsavia e insieme ad alcuni dei suoi studenti ha deciso di dare una mano. È arrivato dalla capitale in auto con il suo cane, ed è ospite di un abitante della zona che ha messo la casa a disposizione degli attivisti. Ci sono diverse case rifugio nel bosco, vecchie abitazioni o capanne di legno abbandonate, usate come base dai volontari che preparano tè caldo, coperte, scarpe, abiti pesanti, acqua e viveri da distribuire ai migranti nella foresta.
“Ogni giorno le squadre di volontari pattugliano la frontiera alla ricerca di migranti in difficoltà. Quando qualcuno viene trovato o telefona ai numeri verdi dei volontari, si richiede l’intervento della squadra più vicina”, racconta l’uomo, che parla molto bene l’italiano perché ha vissuto in Piemonte e si è occupato anche dei migranti che attraversano le Alpi a piedi per raggiungere la Francia. “Nella foresta di Białowieża, come in val di Susa, una rete che era nata per proteggere l’ambiente si è trasformata in una realtà attiva nell’accoglienza dei migranti”, continua Witczak.
Molti di quelli che oggi sono in prima linea nella distribuzione degli aiuti ai profughi si sono conosciuti nel 2017, quando il governo polacco voleva finanziare un progetto che avrebbe portato al disboscamento dell’area, uno degli ultimi tratti della foresta primigenia che un tempo ricopriva l’intera Europa orientale. Un ecosistema tra i più ricchi e delicati del mondo: duecentomila ettari di faggi, frassini, querce e abeti rossi, tra cui alberi plurisecolari che raggiungono i quaranta metri di altezza. Qui vivono gli ultimi esemplari di bisonte europeo. All’epoca i residenti si erano mobilitati per impedire che questo patrimonio di biodiversità fosse distrutto. Le stesse persone oggi sono coinvolte nell’accoglienza dei rifugiati.
“Ogni profugo racconta di essere stato rimandato indietro dalle otto alle venti volte”, spiega Jakub Sypiański. Ma né la stampa né gli attivisti possono verificare cosa succede all’interno della cosiddetta zona rossa. I volontari denunciano decine di respingimenti e accusano le autorità di non prestare soccorso a chi rischia di morire d’ipotermia. Recentemente il parlamento polacco ha approvato una riforma del diritto d’asilo che consente i respingimenti operati dalla polizia di frontiera, contrari al diritto internazionale. Il 14 ottobre Varsavia ha deciso di finanziare una barriera al confine, stanziando 368 milioni di euro.
“Noi siamo un movimento spontaneo, non un’organizzazione umanitaria vera e propria. Non abbiamo i mezzi per offrire un sostegno reale a queste persone”, continua Sypiański, che si è trasferito nella cittadina di Hajnówka da un mese. “Nonostante la stanchezza, non riesco a tornare a casa, mi sembra troppo importante essere qui”, confessa in uno dei rari momenti di pausa. È un ricercatore e un traduttore dall’arabo e già nel 2015 si era interessato alla situazione dei rifugiati in Europa. “Avevo fatto il volontario nel campo di Idomeni al confine tra Grecia e Macedonia. E poi lungo la rotta balcanica”.
Vetri rotti
Il telefono di Sypiański non smette di squillare: in questa situazione provare a salvare la vita ai migranti è diventato pericoloso anche per i volontari. Le autorità non vedono di buon occhio la loro attività, e aggressioni e minacce si fanno più frequenti. “Giorni fa sono stato avvicinato da un uomo che mi ha detto di andarmene, mi ha insultato dicendomi cose irripetibili”, racconta Sypiański. Il 14 novembre è stata aperta un’inchiesta dopo che qualcuno ha rotto tutti i vetri delle auto dei volontari dell’organizzazione Medycy na granicy. Pochi giorni prima erano state bucate le gomme della loro ambulanza. Il 12 novembre c’è stato il primo attacco documentato contro i profughi: nella cittadina di Hajnówka una donna siriana è stata picchiata e derubata insieme al marito e a un iracheno, secondo quanto riportato dagli attivisti di Grupa granica. “Ci sono gruppi nazionalisti che organizzano ronde contro i profughi, definendole ‘cacce al negro’”, racconta Kasia Wappa, un’insegnante d’inglese di Hajnówka che insieme a sua sorella sta dando una mano agli attivisti. Il governo conservatore della Polonia, guidato dal primo ministro Mateusz Morawiecki del partito Diritto e giustizia (Pis), ha sempre avuto posizioni contrarie all’immigrazione e ha tollerato il proliferare di gruppi neofascisti e nazionalisti che fanno una propaganda molto aggressiva contro gli stranieri. “Si tratta spesso di ragazzi molto giovani, ultras delle squadre di calcio. A Białystok sono molto attivi, ma altri vengono dalle zone vicine”, racconta Wappa nella casa di legno costruita dai suoi antenati.
La donna spiega che in Polonia orientale convivono, non sempre pacificamente, diverse religioni e minoranze: ebrei, musulmani, cattolici, ortodossi, ucraini, tedeschi, russi, bielorussi, rom e tatari. Ogni cambiamento perciò rischia di riaccendere vecchi conflitti e riaprire ferite non del tutto rimarginate sulla “vera identità” polacca. “Io per esempio faccio parte della minoranza bielorussa, parlo un dialetto molto diverso dal polacco e sono di religione ortodossa. La minoranza a cui appartengo è sempre stata discriminata dai polacchi di religione cattolica, soprattutto dopo che la Polonia ha ottenuto l’indipendenza nel 1918”, racconta Wappa. Questo spiega perché molti hanno aperto le porte ai rifugiati, mentre altri si sono sentiti minacciati dal loro arrivo.
È il caso di Nadja, una contadina di 87 anni che vive da sola a Teremiski, un piccolo paese di contadini vicino alla frontiera. Nadjia è convinta che i migranti “non vogliano lavorare”, che siano arrivati in Polonia non per necessità, ma “per approfittarsi di noi”. “I neri”, li chiama. “Li ho visti che attraversavano il paese in maniche corte e ciabatte: noi abbiamo sempre faticato per portare un pezzo di pane in tavola e ora non siamo disposti ad accogliere chi non vuole lavorare”, afferma la donna, che ha vissuto per tutta la vita nel suo piccolo paese, da cui in molti sono partiti dagli anni novanta per cercare fortuna in Europa occidentale e in altri paesi del mondo.
Secondo la bibliotecaria Joanna Łapińska, che vive a Białowieża, una cittadina all’interno della zona rossa, il problema è la militarizzazione del territorio, unita a una paura naturale per ciò che non si conosce. “In un paese di mille persone come il mio, in questo momento ci sono mille soldati e 25 migranti somali”, racconta. “È uno shock: questa è una località turistica e al momento tutti gli hotel sono pieni di militari in assetto di guerra, pronti ad andare a caccia di migranti anche di notte con droni ed elicotteri. L’atmosfera è spaventosa”.
Łapińska ha aderito all’iniziativa lanciata dall’avvocato Kamil Syller, che ha chiesto di accendere una luce verde alla finestra per segnalare che si è favorevoli all’accoglienza dei migranti: “Non sono un’attivista, ma quello che sta facendo il governo mi fa arrabbiare. Non avevo mai vissuto un’esperienza così forte come quando ho soccorso nove persone nel bosco. Non riesco a dimenticarla. Chiunque incontri un essere umano sperduto nella foresta, con gli abiti fradici, non può dimenticarlo. Persone che per giorni hanno bevuto solo l’acqua delle paludi. Fa male. È inconcepibile che nel nostro secolo succedano cose simili. Chi non l’ha visto con i suoi occhi probabilmente non ci crede”.
Nelle ultime settimane la situazione è cambiata: i tentativi di varcare il filo spinato hanno portato all’intensificazione dei controlli, e per i migranti è ancora più difficile evitare di essere intercettati dalle forze dell’ordine.
“Si nascondono nel bosco per giorni, aspettando che un trafficante venga a prenderli. Li chiamano taxi”, spiega Łapińska. Ma è più probabile che siano fermati e riportati dall’altra parte del confine. Ci sono già stati dei morti: almeno undici, secondo le autorità polacche. Ma potrebbero essere molti di più. Secondo i volontari di Grupa granica quaranta persone risultano disperse. L’ultima vittima è un ragazzo siriano di vent’anni, morto di freddo e trovato da un taglialegna nella foresta vicino a Wolka Terechowska il 12 novembre.
Anche Sehna, cinquantenne di Daara, in Siria, ha temuto di non farcela. Per giorni non ha potuto prendere le sue medicine per il diabete, e a forza di camminare i piedi le si sono riempiti di piaghe. “Quando la polizia polacca ci ha trovato avevo ormai perso i sensi. Mi hanno portato in ospedale e sono rimasta attaccata alla flebo per una settimana”, racconta la donna, che ora si trova in un centro di accoglienza gestito dalla Caritas a Białystok. Spera di raggiungere i figli a Stoccarda, in Germania, dove sono arrivati nel 2015 attraverso la rotta balcanica. Quando le è stato proposto un volo diretto da Damasco a Minsk pensava che raggiungere l’Europa sarebbe stato semplice. Ha pagato il biglietto duemila dollari, poi ha raggiunto la frontiera in taxi. Non immaginava che avrebbe dovuto affrontare un viaggio così pericoloso. “Ci dicevano che in dieci minuti saremmo arrivati in Polonia, invece abbiamo camminato senza meta per giorni”.
Anche Ismail Mohammed pensava che sarebbe stato un viaggio facile. È partito con la moglie Anin, incinta di nove mesi, e i tre figli Benin, Zehra e Malek, di nove, sei e quattro anni. Si è rivolto a un’agenzia che per diecimila dollari gli ha offerto un volo per Minsk con scalo a Dubai. Nel pacchetto era incluso anche il soggiorno in un hotel della capitale bielorussa, dove la famiglia, originaria del Kurdistan iracheno, ha passato cinque giorni prima di essere trasferita con un pullman alla frontiera.
È un sistema ormai rodato, che ha portato nel paese migliaia di persone negli ultimi mesi e che ora la diplomazia internazionale vorrebbe fermare. La Turchia ha annunciato che sospenderà i collegamenti diretti con Minsk e l’Iraq ha detto che rimpatrierà i suoi cittadini dalla Bielorussia con dei voli speciali.
Zona rossa
Ma per molti è troppo tardi: il 13 novembre presso il valico di frontiera di Starzyna, parecchi chilometri a sud di Kuźnica, dove c’era stato il primo assalto, un gruppo di cinquanta migranti è stato spinto verso le recinzioni dalle guardie bielorusse, che hanno tagliato il filo spinato e gli hanno gridato in inglese “go!”, andate. Venti di loro sono stati subito fermati dalla polizia di frontiera polacca, gli altri hanno cominciato a vagare nei boschi. Nella chat dei volontari è stata diramata un’allerta per una famiglia di siriani dispersa nella foresta all’interno della zona rossa, cinque adulti e quattro bambini. Decidiamo di provare a cercarli, violando il divieto imposto anche ai giornalisti: superiamo diversi posti di blocco sulla strada tra Hajnówka e Starzyna. I poliziotti fermano tutte le auto, ispezionano il bagagliaio, controllano i documenti.
◆ Il 2 settembre 2021 la Polonia ha dichiarato lo stato d’emergenza nelle aree al confine con la Bielorussia a causa del passaggio dei migranti. Il provvedimento dovrebbe scadere il 1 dicembre, ma alcune restrizioni potrebbero restare in vigore. A ottobre il parlamento polacco ha approvato una riforma del diritto d’asilo che consente alla polizia di frontiera di respingere i profughi, violando il diritto internazionale. ◆Il 7 ottobre i ministri dell’interno di dodici paesi dell’Unione europea (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno chiesto a Bruxelles di finanziare con fondi europei la costruzione di muri alle frontiere esterne. La commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson ha escluso questa possibilità. Il 14 ottobre il parlamento polacco ha autorizzato il finanziamento di una barriera contro i migranti al confine bielorusso. Anche Lettonia e Lituania hanno annunciato la costruzione di recinzioni. ◆Il 15 novembre l’Unione europea ha deciso di espandere le sanzioni contro la Bielorussia. Lo stesso giorno la cancelliera tedesca Angela Merkel ha avuto un colloquio telefonico con il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko. ◆Il governo iracheno ha annunciato che il 18 novembre ci sarà il primo volo di rimpatrio volontario da Minsk. ◆Il 16 novembre la guardia di frontiera polacca ha usato gli idranti contro i profughi accampati oltre il confine, accusandoli di aver lanciato pietre contro gli agenti. ◆Secondo le autorità polacche da agosto ci sono stati 17mila tentativi di attraversare il confine dalla Bielorussia.
Reuters
A Dubicze Cerkiewne c’è uno dei campi dei militari: a pochi metri dalla strada sono state montate decine di tende, i soldati escono per pattugliare il confine con il fucile al collo. Il campo è circondato da filo spinato e i militari si rifiutano di parlare con la stampa. Proseguiamo per Wojnówka, costeggiando la foresta di faggi. Sul bordo della strada, vicino a un campo di granturco, ci sono le tracce lasciate da un gruppo di migranti: giacche a vento, guanti, il cappello di lana di un bambino, cibo liofilizzato con scritte in bielorusso, caricabatteria, un pacchetto di sigarette.
Pochi chilometri dopo comincia la zona rossa: c’è solo un cartello in polacco a segnalarla. Entriamo nell’area interdetta e ci addentriamo nella boscaglia, tra binari abbandonati e sentieri sterrati: di migranti e soldati nemmeno l’ombra. A un certo punto si apre una radura e appare il confine: metri di filo spinato sorvegliato dai militari polacchi, che hanno acceso dei fuochi per riscaldarsi. È in questo punto che i migranti hanno attraversato qualche ora prima, ma ora tutto sembra tranquillo.
Appena i militari ci vedono corrono verso di noi con i fucili spianati e ci intimano di non muoverci. Quando sono a qualche metro da noi si fermano e chiamano rinforzi. Seguiamo le loro indicazioni alla lettera: rimaniamo immobili, senza parlare. Nelle stesse ore due giornalisti dell’edizione francese di Russia Today sono stati arrestati a Usnarz Górny, quindi immaginiamo che stiano chiamando la polizia di frontiera per portarci in questura. Invece dopo una ventina di minuti ci lasciano andare, indirizzandoci verso un posto di blocco più a valle.
Due militari, uno più anziano e uno più giovane, ci bloccano pochi metri più avanti. Sono gentili e sorridenti: ci controllano i documenti, poi ci chiedono perché abbiamo violato il divieto. “Sono settimane che siamo qui, siamo tutti molto nervosi”, dice il più giovane, quasi a giustificare l’aggressività dei colleghi. Sembrano più interessati a noi che a quello che succede al confine. Il più giovane dice che la foresta non gli piace: l’aria non è buona. “Non sarebbe meglio farle passare queste tremila persone? Di migranti non se ne vedono”, lo provoco.
“Ci sono eccome, è una guerra”, risponde lui da dietro il passamontagna. Poco dopo il più vecchio ci restituisce i documenti e ci lascia andare. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati