Al terzo tentativo ce l’ha fatta: è riuscito a lasciarsi alle spalle Irpin, camminando su un’asse di legno traballante che attraversava il fiume, sotto al ponte distrutto. “L’inferno”, lo chiama. Per giorni con la sua famiglia – i genitori, la moglie e i due figli – ha vissuto nei sotterranei della cittadina ucraina a nordovest di Kiev senza elettricità, senza riscaldamento, senza collegamento a internet, con pochi viveri e la paura di morire. “Il suono della guerra è la cosa peggiore che ho sentito in vita mia, non c’è niente di più spaventoso del rumore delle bombe”, racconta.
Dmytro Shevchenko è un medico di 45 anni. Il 24 febbraio, quando all’alba le prime bombe erano cadute su Kiev, aveva deciso di trasferirsi nella casa dei suoi a Irpin con la moglie Helen e i due bambini di tredici e due anni. “Abbiamo pensato che fosse un posto tranquillo perché non c’erano obiettivi militari nelle vicinanze”, dice. E invece si è ritrovato in una trappola: l’esercito ucraino ha fatto saltare i ponti sul fiume per fermare o almeno rallentare l’avanzata da nordovest dei russi sulla capitale, e la città di quarantamila abitanti è rimasta isolata sotto i bombardamenti. “Avevamo informazioni solo attraverso la radio, non era possibile comunicare in nessun altro modo: solo il passaparola e la radio. C’era molta confusione”, ricorda Ševčenko una volta in salvo. Ha lasciato alle sue spalle una città divisa: “Da una parte ci sono i russi, dall’altra ci sono bombardamenti continui. In mezzo passa la ferrovia”.
Una tecnica di guerra
L’8 marzo il sindaco di Irpin Oleksandr Markušyn ha comunicato via Telegram di aver ricevuto dai russi la richiesta di arrendersi. Il giorno precedente il sindaco aveva confermato che alcune aree della città erano sotto il controllo dei russi. “Sono sorpreso che non abbiano ancora capito: Irpin non si arrende”, ha scritto Markušyn.
Dal 6 marzo diecimila persone hanno lasciato la città, approfittando dei cessate il fuoco concordati per permettere ai civili di abbandonare le aree sotto assedio. La moglie di Ševčenko, Helen, con i figli Gleb ed Erik, è riuscita a scappare il primo giorno di tregua.
“Abbiamo aspettato due ore. Prima siamo andati alla stazione ferroviaria di Irpin, ma non c’erano treni. Quindi abbiamo raggiunto il ponte in macchina e poi lo abbiamo attraversato a piedi”, racconta la donna, mentre ha in braccio il figlio più piccolo, un bambino biondo e cicciottello che non ha nemmeno due anni. “Sentivo degli spari dietro di me, ma non capivo da dove venissero”. Tra il 6 e il 7 marzo le autorità ucraine hanno sconsigliato ai civili di attraversare quel ponte a piedi perché rischiavano di essere uccisi. “I russi sparavano su chi scappava”, racconta Ševčenko. La mattina del 7 marzo un’intera famiglia, due adulti e due bambini, è stata uccisa da colpi di artiglieria russa proprio in quel punto.
L’evacuazione è ripresa la mattina dell’8 marzo e anche Shevchenko con gli anziani genitori è riuscito ad andarsene, lasciandosi le macerie alle spalle, e a raggiungere Kiev insieme a centinaia di altre persone. C’erano dei pullman ad aspettarli per portarli in città percorrendo i 26 chilometri che separano la capitale ucraina dalla linea del fronte. “Rimarremo a Kiev per ora”, afferma l’uomo, che non riesce ancora a credere a quello che gli è successo negli ultimi dodici giorni. “Mi sembra di vivere in un film”, continua, pensando a come ora Kiev gli appaia sicura rispetto a quello che ha lasciato a Irpin. “I russi non stanno combattendo contro l’esercito ucraino, stanno combattendo contro tutti noi”, conclude.
Molti analisti, dopo gli attacchi degli ultimi giorni contro obiettivi civili e la difficoltà a sgomberare le zone sotto assedio, hanno accusato il presidente russo Vladimir Putin di usare i corridoi umanitari “come armi di guerra”, di voler terrorizzare la popolazione, per spingerla a scappare in vista di un attacco imponente contro le città ucraine. Sono convinti inoltre che Putin stia sfruttando la tregua per prendere tempo, riposizionare i mezzi militari in campo e aumentare il suo potere negoziale: una tecnica adottata in Cecenia nel 1994 e nel 1999, oltre che nel conflitto siriano, quando la Russia è intervenuta a fianco di Bashar al Assad nel 2016.
Ancora più uniti
Le sirene suonano ogni mezz’ora: quasi tutti hanno installato l’allarme sui cellulari che cominciano a squillare qualche minuto prima che il rumore delle sirene diventi insopportabile, spingendo chi è per strada a correre verso il rifugio antiaereo più vicino. “La nostra vita è cambiata in un attimo”, racconta Serž Koznolesko in uno dei rifugi, la cantina di un palazzo, da cui sale un odore di fogna e umidità. Qualcuno ha portato una televisione e delle sedie, ma nessuno si siede, tutti sperano che l’allarme finisca presto per tornare alle loro attività. Koznolesko ha combattuto nel Donbass nel 2014 ma non si aspettava che la guerra sarebbe arrivata nella sua città: “Abbiamo mandato via i bambini e le donne”, dice.
Molti profughi da Kiev e Irpin sono arrivati a Žytomyr, una città di 270mila abitanti a ovest della capitale, e sono stati alloggiati negli asili e nelle scuole. Ma da queste parti nessuno si sente al sicuro: il confine con la Bielorussia è a settanta chilometri e la città è già stata colpita da diversi attacchi. Nell’ultima settimana la metà degli abitanti è scappata, soprattutto le donne, i bambini e gli anziani. Chi è rimasto dice che “è pronto a combattere”.
Il 4 marzo la scuola della città è stata colpita da un razzo russo ed è stata parzialmente distrutta, mentre il 1 marzo l’aviazione russa aveva sganciato delle bombe che avevano danneggiato le case e l’ospedale pediatrico, uccidendo otto persone. “Vogliono mettere paura ai civili, vogliono terrorizzarci, ma l’effetto che stanno ottenendo è farci sentire ancora più uniti”, spiega Serhii Sukhomlyn, il sindaco della città, mentre mostra un frammento di una bomba. “Dopo l’esplosione nei sotterranei dell’ospedale sono nati due bambini”, racconta con un’aria apparentemente impassibile.
◆ Nel pomeriggio del 9 marzo 2022 un raid aereo dell’aviazione russa ha colpito un ospedale pediatrico con reparto maternità nella città portuale di Mariupol, sotto assedio da giorni, nell’Ucraina meridionale. Il vicesindaco, Serhii Orlov, ha spiegato che la struttura è stata distrutta. I morti sono numerosi e molti bambini sono rimasti sotto le macerie. “Non capiamo come sia possibile nel mondo moderno bombardare un ospedale pediatrico”, ha detto Orlov. Poche ore prima Russia e Ucraina avevano stabilito una tregua di dodici ore per permettere ai civili di lasciare sei città colpite dall’offensiva di Mosca. Tra queste c’era anche Mariupol. Dopo la strage il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj è tornato a chiedere a Stati Uniti ed Europa l’istituzione di una no fly zone sull’Ucraina. Bbc
Sulla parete del suo ufficio, dietro la scrivania, troneggia la foto in bianco e nero di Gandhi, un’immagine in contrasto con la concitazione dei funzionari del municipio che si aggirano per le stanze indossando abiti militari e imbracciando mitragliette e fucili. “L’abbiamo appesa molto tempo fa, prima della guerra”, taglia corto il sindaco.
La battaglia di Kiev
Nell’area di Žytomyr colpita dalle bombe, le scavatrici stanno portando via le macerie. Ci sono pezzi di vita sparsi tra i calcinacci: qualche vestito, delle scarpe. Un’auto è rimasta accartocciata, non si coglie più nemmeno il perimetro delle case. “Abbiamo sentito la sirena e poi un’esplosione molto vicina”, racconta Ludmyla Trubnicova, un’infermiera dell’ospedale pediatrico lì vicino, che è stato danneggiato. “Erano le dieci di sera, eravamo in sala parto, siamo scappati nei sotterranei”, continua. Poi ci sono state altre esplosioni. “Abbiamo continuato a fare il nostro lavoro anche sotto le bombe e la mattina alle otto è nata una bambina”, ricorda la donna.
L’ospedale è stato chiuso a causa dei danni subiti e tutti i pazienti sono stati trasferiti in un altro edificio. “Stiamo facendo tutto il possibile per aprire presto”, assicura Ljudmyla Astaškina, l’anziana direttrice della struttura sanitaria. “C’ero quando posarono la prima pietra di questo ospedale negli anni ottanta. Può immaginare cosa significhi per me ora vederlo bombardato”, dice tra le lacrime. “Ma non ci arrendiamo, rimaniamo ai nostri posti, a fare il nostro lavoro e presto riapriremo”. Non smette di piangere Astaškina, mentre assicura che i suoi figli e i suoi nipoti non hanno nessuna intenzione di andarsene.
La sirena antiaerea ricomincia a suonare, riprendono le corse verso i sotterranei. I corridoi dell’ospedale sono a malapena illuminati, divani e barelle sono ammassati lungo le pareti. Dopo dodici giorni di guerra, il gesto di correre per mettersi in salvo è diventato una routine. Via chat arriva la notizia che a Malyn, una città a sessanta chilometri da dove ci troviamo, un bombardamento ha distrutto sette abitazioni e ucciso cinque persone, mentre a nordovest di Kiev continuano i combattimenti. “Stanno puntando su Kiev, ma non ce la faranno a prenderla”, dice Ludmyla Astaškina con un’espressione dura, poi rimane in silenzio. Tutti sanno che presto la capitale ucraina si trasformerà in un campo di battaglia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati