“Devi smetterla di occuparti dei figli degli altri”. La minaccia è scritta accanto a una croce su un pezzo di carta nascosto in un fascicolo nell’ufficio di Claudia Caramanna. La procuratrice capo del tribunale dei minori di Palermo ha ricevuto questo biglietto intorno alla metà di agosto, e non è stato il primo di questo tipo. “Era già arrivata direttamente al mio indirizzo privato una lettera anonima con minacce di morte. Era il 29 agosto del 2022”, ricorda. Il modo di agire e la natura del suo lavoro non lasciano spazio a dubbi: dietro le minacce c’è la criminalità organizzata. Perché Caramanna si occupa dei figli nati dalle famiglie mafiose e, nei casi più estremi, ordina che ne siano allontanati.
La procuratrice ne parla volentieri. Ma non subito. Le nuove minacce ancora la preoccupano. Propone di fare l’intervista “all’inizio dell’autunno”. Alla fine di settembre la sentiamo di nuovo. “Mi scusi, ma sono molto occupata”, risponde. “Possiamo organizzarci per ottobre?”. Sembra tenerci molto all’intervista, che poi riusciremo a fissare, ma al telefono. La sua segretaria ci informa però che non può concederci più di mezz’ora.
È un privilegio, a giudicare da quanto è piena la sua agenda. Palermitana, 57 anni, non è solo procuratrice capo ma segue anche alcuni casi particolari, come quello di un’adolescente condannata a vent’anni di carcere per l’omicidio di sua madre. La storia non ha niente a che fare con la mafia, ma Caramanna sembra ancora molto scossa. Paradossalmente è più colpita da quella vicenda che dalle ultime minacce di morte. Almeno stando al tono della sua voce. Le intimidazioni sembrano ormai far parte della sua quotidianità.
La prima è stata “la più dura”, ricorda. “Ho trovato una busta nella cassetta delle lettere, nel palazzo dove abito. Erano entrati, mi sono sentita violata nell’intimo”.
Madre di tre figli, Caramanna ha dovuto rinunciare a qualsiasi forma di vita privata. Dal 2022 è sotto scorta, e la scorsa estate le autorità hanno aumentato il suo livello di protezione. Oggi è costantemente accompagnata da quattro agenti e da due vetture blindate. “Devo stare sempre con loro, anche per le cose più semplici come trascorrere del tempo con i miei figli o andare a fare la spesa. Non ho più una vita”, dice.
Nonostante ciò ama il suo lavoro, “con passione”. E assicura di non essersi pentita di nessuna delle scelte che l’hanno portata all’incarico attuale, che riassume in poche semplici parole: “Proteggere i minorenni e metterli al riparo da ogni forma di pregiudizio, violenza e maltrattamento”. Lo fa, però, in un territorio caratterizzato “dalla presenza persistente e asfissiante di cosa nostra”, che un tempo era l’organizzazione mafiosa più potente del mondo.
Usati per eludere la legge
Interessandosi ai figli, la magistrata prende di mira l’intera famiglia mafiosa: “Appartenere al nucleo familiare di un componente della mafia, o comunque avere un legame di parentela con uno di loro, implica di sicuro una legittimazione più diretta dell’appartenenza mafiosa”. Detto più esplicitamente: il figlio di un mafioso diventerà a sua volta un mafioso.
Il padrino dei padrini, Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio 2023 dopo decenni di latitanza e morto in carcere otto mesi dopo, era figlio di un famoso boss del trapanese.
Caramanna ha visto “minori di dieci o dodici anni nascondere la droga nei giocattoli per aiutare i genitori, spacciare per strada sostanze illecite, fare piccole rapine o estorsioni”. Gli adulti li usano per eludere la legge, dato che i minori di 14 anni non sono perseguibili penalmente. Essendo nati e cresciuti in un contesto mafioso, “sono assolutamente inconsapevoli del valore dei loro comportamenti”, spiega la magistrata.
Cosa si può fare per tirarli fuori da questo ambiente? La procuratrice parla prima di tutto alla madre, “per capire se condivide con il compagno o il marito, spesso in carcere, lo stesso sistema di valori e se la pensa allo stesso modo. Se vuole offrire al figlio un’alternativa o se preferisce lasciarlo sul sentiero che lo porterà in carcere sulle orme del padre”. La maggior parte delle madri nega l’evidenza.
Caramanna a questo punto deve prendere la decisione più difficile: allontanare il figlio dai genitori, per affidarlo a un parente che sia estraneo alla mafia o affidarlo a una comunità.
Liberi di scegliere
Questa scelta segue la scia del lavoro pionieristico avviato più di dieci anni fa dal suo collega Roberto Di Bella, all’epoca presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, dove la società civile e la chiesa erano contrarie a questa procedura. Stanco di doversi occupare dei figli di uomini e donne che aveva giudicato qualche decennio prima, Di Bella voleva spezzare i legami di sangue di queste famiglie mafiose.
Di Bella tratta i figli minorenni delle persone che appartengono alla criminalità organizzata allo stesso modo dei figli che vivono con genitori violenti o tossicodipendenti: li allontana da loro. Lo aiuta Libera, l’associazione contro le mafie, che gli dà anche una mano per trovare le famiglie affidatarie.
Il lavoro di Di Bella comincia a riscuotere successo, al punto che alcuni genitori lo contattano per essere aiutati ad allontanare i figli da un contesto criminale. Ha ideato il programma “liberi di scegliere”, che sperava di trasformare in un modello da seguire nella lotta alla mafia.
Quando ha assunto la guida del tribunale dei minori di Palermo, Caramanna ha sottoscritto quel progetto. Poi ne ha redatto uno suo, l’anno scorso, in collaborazione con le autorità giudiziarie palermitane e nazionali, istituzionalizzando sempre di più questa forma di lotta sociale e culturale. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati