Nel febbraio 2022 il ministro della cultura beninese Jean-Michel Abimbola ha partecipato alla conferenza stampa di presentazione di una mostra di opere d’arte restituite dalla Francia al suo paese. Un giornalista gli ha chiesto cosa pensava dell’idea diffusa secondo cui i musei europei sanno prendersi cura meglio di quelli africani dei reperti provenienti dall’Africa. Abimbola ha dato una risposta secca: “Non credo si possa continuare a sostenerlo quando si parla del Benin. Sarebbe come chiedere se i neri hanno un’anima, e preferirei non dover rispondere a domande del genere”.
Sono state parole forti che hanno sottolineato l’importanza della mostra che ha celebrato il ritorno a casa di 26 opere rubate al regno del Dahomey dall’esercito coloniale francese nel 1892. Fino a pochi anni fa i musei europei che custodivano reperti culturali, religiosi o storici trafugati nelle ex colonie non avevano mai preso sul serio l’idea di restituirli. Quando i governi africani lo chiedevano, le loro domande erano ignorate ed eluse, oppure incontravano rifiuti categorici. Per i musei di Francia, Regno Unito, Germania e altri paesi le opere d’arte erano trofei acquisiti a pieno diritto: bottini di guerra.
Dire che i governi africani non hanno le infrastrutture necessarie per prendersi cura dei reperti è stata una delle tante strategie usate per evitare di restituirli. Alcune istituzioni europee hanno offerto prestiti temporanei ai musei africani, altre hanno rinviato in modo strategico i negoziati, pretendendo che i paesi africani compissero studi approfonditi per accertare la provenienza delle opere. Il British museum di Londra, per esempio, ha sempre ignorato le richieste nigeriane riguardanti i noti bronzi del Benin (centinaia di manufatti, in gran parte di metallo, che adornavano il palazzo reale del regno del Benin, nell’attuale Nigeria) e ha sempre sostenuto di non poter disporre di quegli oggetti. Tuttavia, ne ha venduti una trentina sul mercato libero dell’arte a dei compratori nigeriani.
Nel novembre 2018 è uscito un rapporto commissionato dal presidente francese Emmanuel Macron allo studioso senegalese Felwine Sarr e alla storica dell’arte francese Bénédicte Savoy. Il documento ha fatto molto discutere perché raccomandava la restituzione incondizionata e irrevocabile dei reperti africani. Chiedeva al governo francese di escluderli dalla legge sull’inalienabilità, cioè la normativa secondo cui il patrimonio artistico dev’essere considerato una proprietà dello stato non trasferibile. I due autori chiedevano più trasparenza ai musei del loro paese, in particolare sui reperti inclusi nelle loro collezioni.
“Se pensiamo a quanto sono cambiate le cose nel frattempo, è difficile credere che siano passati solo tre anni dalla pubblicazione del rapporto Sarr-Savoy”, osserva Dan Hicks, autore del libro The brutish museums (Pluto press 2020) e curatore della sezione archeologia del mondo al museo Pitt Rivers di Oxford, nel Regno Unito. “Molti argomenti usati contro le restituzioni prima sembravano incrollabili, oggi si stanno sgretolando”.
Missione possibile
Il rapporto Sarr-Savoy ha avuto ripercussioni tra le istituzioni artistiche pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti. A Washington la Smithsonian institution ha annunciato la restituzione di gran parte dei bronzi del Benin in suo possesso. L’Africa museum di Bruxelles, in Belgio, ha realizzato un inventario completo delle sue opere africane e ha inviato la lista al governo della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). La Francia è riuscita ad approvare una legge che ha escluso i 26 tesori reali in mostra a Cotonou dalla legge sull’inalienabilità.
Dire che i governi africani non hanno le infrastrutture per prendersi cura dei reperti è stata una strategia per evitare di restituirli
Savoy non aveva previsto tutto questo. “Pensavamo fosse una missione impossibile. In Francia l’inalienabilità sembrava un dogma incrollabile. E invece è caduto”, ha detto. “Dopo la mostra di Cotonou è evidente che la ‘missione impossibile’ è diventata una ‘missione compiuta’”.
I successi nelle restituzioni sono ancora altalenanti. Le campagne lanciate in Nigeria, Senegal, Benin, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo hanno fatto progressi, ma il Camerun, secondo il quale solo nei musei tedeschi ci sono quarantamila suoi reperti, ha ottenuto ancora poco. Dal 2018 alcuni paesi africani – tra cui Senegal, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo, Benin, Nigeria ed Etiopia – hanno raggiunto risultati significativi, o almeno sono riusciti a smuovere le acque.
Dopo la Nigeria, il Benin è stato tra i paesi più efficaci. La campagna condotta dal suo governo ha stabilito un precedente e ora, sostiene Savoy, altri paesi, come la Costa d’Avorio e le Seychelles, seguiranno il suo esempio. Inizialmente il governo beninese aveva genericamente chiesto alla Francia di restituire un numero imprecisato di reperti. Quando questo tentativo ha incontrato degli ostacoli, i beninesi hanno cambiato tattica, concentrandosi su un gruppo specifico di opere: quelle saccheggiate nel 1892 nel palazzo reale di Abomey (ai tempi capitale del regno del Dahomey). La strategia ha funzionato: nel novembre 2020 il senato francese ha approvato una legge per escludere quelle opere dal patrimonio culturale nazionale. “Sarebbe stato meglio approvarne una che valesse per tutti i beni culturali provenienti dalle ex colonie”, dice Savoy. “Ma è un primo passo. E non si torna indietro”. La strada da percorrere è però lastricata di scetticismo francese. In un’intervista all’Agence France-Presse, l’allora ministra della cultura francese Roselyne Bachelot ha detto che la legge sulle opere beninesi “non mette in discussione il principio dell’inalienabilità”. La restituzione “non è stata un atto di pentimento, ma di amicizia e fiducia”, ha detto Bachelot. E il Benin conta parecchio su quell’amicizia. Il suo governo ha legato la restituzione delle opere ai suoi obiettivi di sviluppo, che comprendono forti investimenti nel turismo. Questi programmi sono stati finanziati in parte dall’agenzia francese per lo sviluppo, che ha offerto prestiti a “tassi inferiori a quelli di mercato”.
“Il nostro governo vuole rendere la restituzione, la condivisione e la circolazione dei beni culturali un elemento della lotta alla povertà e per la creazione di posti di lavoro e di ricchezza, cioè uno strumento di sviluppo socioeconomico”, ha detto Abimbola, aggiungendo che il Benin investirà 670 miliardi di franchi cfa, poco più di un miliardo di euro, in turismo, cultura e arte. Questi fondi serviranno a ristrutturare antichi palazzi e a costruire quattro nuovi musei entro il 2025: uno internazionale della memoria e della schiavitù a Ouidah, che fu un porto importante nella tratta degli schiavi; uno dedicato all’epopea delle amazzoni e dei re di Abomey; uno internazionale della cultura vodun (vudù) a Porto-Novo e uno di arte contemporanea a Cotonou. L’obiettivo è attirare turisti, soprattutto afroamericani e latinoamericani di origini africane, che hanno un legame ancestrale con gli schiavi, e si sentono fuori posto o delusi nei loro paesi.
Una tendenza che si sta affermando in questo periodo è quella degli africani della diaspora che vogliono riconnettersi con la madrepatria. Gli statunitensi in particolare si trasferiscono in Africa per sfuggire al razzismo e alla discriminazione. Il Ghana ha approfittato di questa situazione nel 2019, quando ha lanciato la campagna “Anno del ritorno”, che invitava la “famiglia africana mondiale” a visitare il paese. In questo modo ha guadagnato 1,9 miliardi di dollari. Il Benin spera di ripetere l’impresa e di migliorare le prospettive economiche della sua popolazione.
La Nigeria ha ambizioni simili. Ha rinnovato gli sforzi per chiedere il ritorno dei bronzi del Benin. È una lotta che va avanti da decenni, condotta dai discendenti dei sovrani del regno di Benin, dal governo federale di Abuja e da quello locale dello stato di Edo. Nel 2007 queste autorità hanno creato un gruppo di dialogo, incaricato di coordinare gli sforzi per la restituzione dei reperti che si trovano all’estero.
Nel marzo 2022 la Smithsonian institution di Washington e l’Humboldt forum di Berlino hanno accettato di restituire i bronzi in loro possesso. Nel giugno 2021 il Metropolitan museum of art di New York ha ridato indietro due targhe di ottone. Anche musei meno conosciuti, come quello dell’università di Aberdeen e il Jesus college dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, hanno restituito manufatti alla Nigeria. “Non sarebbe stato giusto conservare un oggetto di così grande significato culturale, acquisito in circostanze così vergognose”, ha scritto George Boyne, dell’università di Aberdeen, in un comunicato. Nel 1957 l’università aveva comprato all’asta una scultura della testa di un oba (re), proveniente da un saccheggio.
Non tutte le opere sono materialmente restituite. Anche se la Nigeria ha insistito su una “restituzione incondizionata”, Enotie Ogbebor, che fa parte del gruppo di dialogo nigeriano, spiega che alcune iniziative prevedono il prestito delle opere alle istituzioni occidentali. Se si raggiungesse un’intesa, i reperti apparterrebbero formalmente alla Nigeria, ma resterebbero fisicamente nei musei europei. Un’altra cattiva notizia è la rigidità del British museum di Londra, che si rifiuta di restituire qualsiasi reperto, nonostante custodisca quella che è probabilmente la collezione più grande di bronzi del Benin, in gran parte frutto di una “spedizione punitiva” dell’esercito coloniale britannico nel 1897. Le prime richieste di restituzione di quei bronzi risalgono a prima dell’indipendenza della Nigeria. Oggi il museo ha accettato di “prendere in considerazione” l’invio nel paese africano di quei manufatti, ma solo in prestito.
Tanti altri oggetti artistici furono rubati durante spedizioni militari meno note e molti sono ancora in bella mostra nelle teche dei musei o nelle collezioni private di tutta Europa. “Sarà uno dei prossimi oggetti di dibattito”, sostiene Hicks. “Non c’è stata un’unica spedizione”. Il saccheggio era una “tattica militare, finalizzata all’espropriazione culturale, con cui si cercava di distruggere la sovranità di quei popoli e le loro tradizioni religiose”. Sotto questo aspetto, i musei europei non furono solo beneficiari indiretti dei saccheggi, ma strumenti di conquista.
Con l’appoggio della chiesa
Mentre in Nigeria e in Benin sono stati i governi a prendere l’iniziativa, l’Etiopia si è appoggiata a fondazioni private, a diplomatici e alla chiesa ortodossa etiope. “Dal nostro punto di vista è molto importante che organizzazioni senza fini politici lavorino per unire culture, stati e sistemi politici. Come organizzazione non governativa, cerchiamo di tenere alta l’attenzione e far andare avanti le restituzioni”, afferma Tahir Shah, fondatore della Scheherazade foundation, un ente senza scopo di lucro coinvolto negli sforzi per far tornare i reperti etiopi nel paese d’origine. Nel 2021 la fondazione ha contribuito a identificare e a riscattare oggetti sacri sottratti dall’esercito britannico durante l’invasione del 1868 dell’Abissinia (l’attuale Etiopia), nota anche come la battaglia di Maqdala.
La chiesa ortodossa etiope nel frattempo si è messa alla guida di una campagna per la restituzione di tabot “sacri” – repliche delle tavole dei dieci comandamenti –, anch’essi trafugati durante la battaglia di Maqdala e ora conservati al British museum. “Per i cristiani etiopi i _tabot _sono la dimora di dio in terra” e sono talmente sacri da non poter essere mostrati in pubblico. Non dovrebbero essere fotografati, ritratti o studiati, nemmeno dal personale del British museum.
La chiesa, il governo e la Scheherazade foundation fanno pressioni su rappresentanti del governo e del settore dei beni culturali britannici. In un dibattito alla camera dei lord di Londra, il vescovo anglicano John Inge ha fatto notare che quegli oggetti sono “legati a una religione ancora praticata” e ha chiesto se non fosse il caso di “restituirli a chi li riconosce come oggetti sacri e li tratterà come tali”. La decisione finale, però, spetta al consiglio d’amministrazione del British museum, i cui componenti devono rendere conto al parlamento, ma hanno la facoltà di agire in maniera indipendente.
Una delle raccomandazioni del rapporto Sarr-Savoy riguarda la necessità che i musei occidentali siano più trasparenti sui contenuti delle loro collezioni, per fare in modo che si possano individuare i reperti posseduti ed eventualmente chiederne la restituzione. La trasparenza dovrebbe essere alla base di nuove opportunità di collaborazione con accademici e curatori africani, per rielaborare il contesto in cui le opere sono esposte e fornire informazioni più accurate sul modo in cui sono arrivate in quei musei.
Questo aspetto, però, non ha mai davvero preso piede. La trasparenza è stata usata dai musei come pretesto per ritardare o evitare i negoziati sulla restituzione dei reperti. “Le cose non cambieranno di punto in bianco perché la trascuratezza con cui sono state gestite le collezioni è un’altra forma di violenza coloniale”, sostiene Hicks. Comportamenti apparentemente innocui o passivi, come per esempio, “nascondere la storia di un oggetto, esporre solo una minima parte delle collezioni o non fornire informazioni sugli interventi standard di conservazione” sono parte integrante della cancellazione sistematica che secondo Hicks è la norma nelle pratiche museali.
◆ All’inizio di giugno del 2022, in occasione della visita del re Filippo nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), il Belgio ha restituito una grande maschera dell’etnia suku chiamata Kakuungu, che sarà conservata al museo nazionale congolese di Kinshasa, dopo essere rimasta settant’anni all’Africa museum di Bruxelles. La maschera è tornata nell’Rdc come “prestito a tempo indeterminato”. Ma la restituzione più attesa è stata quella di una reliquia (un dente) dell’ex premier Patrice Lumumba, figura chiave dell’indipendenza, ucciso nel 1961. La reliquia è stata consegnata ai familiari di Lumumba il 20 giugno a Bruxelles e portata nell’Rdc per una sepoltura con tutti gli onori. Actualité.cd
Una reale restituzione, prosegue lo studioso, dovrebbe andare oltre il rientro materiale dei reperti e ampliare le conoscenze su queste collezioni africane sia tra gli africani sia tra gli europei. Secondo Savoy, gli europei capiscono che è stato sbagliato impadronirsi di questi reperti con la conquista militare, ma non si rendono conto che molti oggetti avevano un valore religioso e furono rubati a dei fedeli; altri furono comprati in condizioni di grave squilibrio di potere e in base ad accordi poco equi. Savoy ci vede un “blocco psicologico” nascosto, che ci impedisce di considerare anche quelle azioni come forme di violenza.
Spesso nei paesi africani la restituzione è considerata una preoccupazione delle élite, nonostante molti reperti siano stati realizzati da semplici artigiani e fossero usati nella vita di tutti i giorni. Per questo sono una parte indelebile della storia culturale africana. “La restituzione deve diventare una questione d’interesse generale e fare in modo che siano le comunità ad appropriarsene. Altrimenti questi sforzi resteranno solo una questione tra stati”, ha detto Ibrahima Niang, poeta e responsabile delle iniziative per l’Africa occidentale della Open society.
Arte per tutti
Alcune organizzazioni locali lavorano in questa direzione. In Nigeria, durante il festival di fotografia di Lagos del 2020, la African artists foundation ha lanciato un progetto in cui invitava le persone a fotografare e condividere le immagini di oggetti che avevano in casa e che secondo loro erano sacri e meritavano di essere visti da tutti. Il progetto voleva dimostrare la rilevanza delle restituzioni per il grande pubblico. Grazie al successo che ha avuto, ha messo la restituzione al centro di un dibattito ampio, che supera i confini dell’accademia e della politica.
Alcuni governi hanno fatto la loro parte. Quello del Benin ha pubblicizzato in ogni modo possibile la mostra al palazzo presidenziale di Cotonou. Le strade da Ouidah a Kandi erano piene di manifesti e non si poteva accendere la radio o aprire un giornale senza imbattersi in un annuncio che ricordava l’imminente ritorno a casa dei portali del palazzo reale di Abomey e delle statue antropozoomorfiche degli antichi re Glélé e Béhanzin realizzate dallo scultore Sossa Dede.
Da febbraio più di trentatremila persone sono andate a vedere i reperti, compresi studenti e funzionari civili, sacerdoti _vodun _e discendenti della famiglia reale del Benin. Anch’io ci sono andato. La mostra era molto curata e metteva abilmente in relazione le origini dell’arte in Benin con opere contemporanee, come quelle degli artisti Julien Sinzogan e Sènami Donoumassou che richiamavano la mistica e la maestosità di quelle antiche. Le guide della mostra erano prese d’assalto da vivaci visitatori affamati di notizie.
È esattamente la risposta che si augurava il ministro Abimbola, una prova che dovrebbe incoraggiare il governo del Benin a continuare a investire sulla cultura. “Le persone sono felici di ammirare oggetti che per cent’anni qui nessuno aveva potuto vedere”, ha detto Abibou Philibert, un conduttore radiofonico di Cotonou in visita alla mostra. “E questo cambierà le cose”. ◆ gim
Ayodeji Rotinwa è un giornalista e critico d’arte nigeriano che collabora con vari mezzi d’informazione internazionali.
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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati