Il 4 marzo 2024 la rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti, Pramila Patten, ha tenuto una conferenza stampa per dare informazioni ai giornalisti sugli attacchi condotti il 7 ottobre 2023 dal gruppo islamista palestinese Hamas in Israele. Un’équipe del suo ufficio aveva trascorso due settimane in Israele e in Cisgiordania, su invito del governo di Tel Aviv, per esaminare cos’era successo quel giorno, ma ci si aspettava che Patten rilasciasse, al massimo, una breve dichiarazione. Il suo ufficio non aveva il compito di svolgere indagini sul campo e non aveva mai fatto prima una missione simile.
Diverse fonti interne all’Onu mi hanno riferito che il suo viaggio è stato oggetto di feroci polemiche nell’organizzazione. Molti temevano che avrebbe potuto vedere ben poco e che, senza un resoconto basato su prove solide, il suo rapporto sarebbe parso come una convalida dell’Onu alle storie piene di inesattezze che circolavano sui mezzi d’informazione. Il governo israeliano voleva dimostrare che le violenze sessuali del 7 ottobre erano state sistematiche e diffuse non solo per documentare i crimini di Hamas, ma anche per giustificare il proseguimento della guerra, che al momento della conferenza stampa di Patten aveva già provocato più di 30mila morti palestinesi e distrutto gran parte della Striscia di Gaza, facendo sfollare quasi tutta la popolazione. Hamas, invece, negava che i suoi combattenti avessero commesso degli stupri; sosteneva che erano disciplinati, devoti ai valori islamici e che avevano ricevuto l’ordine di colpire obiettivi militari e di “arrestare” i soldati.
Invece della breve dichiarazione prevista, Patten ha presentato un rapporto di ventidue pagine. Ha dedicato i primi dieci minuti della conferenza stampa a circoscrivere l’ambito limitato della sua missione. La sua squadra, ha detto, ha “raccolto informazioni”, “non prove”. Ha cercato fatti verificabili, che non ha valutato secondo gli standard previsti dalla legge. Poiché non aveva un mandato investigativo e non poteva fare stime ufficiali o analizzare la condotta dei militari, la squadra non ha potuto farsi un’idea sulle due domande a cui molti cercavano risposte: quali violenze erano state commesse il 7 ottobre e chi erano gli autori.
Un problema più grande
Quando Patten ha tenuto la sua conferenza stampa, a cinque mesi dall’inizio della guerra, era chiaro che le donne israeliane erano state aggredite sessualmente durante gli attacchi, che queste aggressioni erano state disumane e che costituivano crimini di guerra. Non era chiaro invece se la violenza sessuale era stata parte della strategia di Hamas, se i responsabili stavano eseguendo degli ordini (vari gruppi armati hanno partecipato agli attacchi) e quante donne erano state colpite. Patten ha ammesso di non poter fare luce su questi temi. Ha però trovato “ragionevoli motivi” per credere che violenze sessuali fossero avvenute in vari luoghi e comprendessero “stupri e stupri di gruppo”, descrivendo tre casi che la sua squadra aveva ritenuto “attendibili” e “verificati”; almeno altri due, basati su testimonianze convincenti, riguardavano lo stupro di cadaveri. Il rapporto è formulato con cautela e chiarisce che il limitato numero di casi che soddisfano gli standard di prova della missione non significa che siano gli unici. Le “prove indiziarie disponibili”, tra cui il ritrovamento di vittime femminili senza reggiseno o nude, potrebbero indicare l’esistenza di altri casi. Per quanto riguarda le donne prese in ostaggio, Patten ha affermato che c’erano “informazioni chiare e convincenti” sul fatto che alcune di loro hanno subìto violenze sessuali e trattamenti degradanti, compreso lo stupro, durante la prigionia.
I giornalisti le hanno chiesto di spiegare come dovevano interpretare le sue conclusioni. Le dovevano considerare come un insieme di tanti episodi da cui trarre deduzioni più ampie? E in che modo, in questo caso, il suo rapporto era diverso dalle notizie infondate sugli stupri di massa sistematici? Come potevano comprendere il senso della sua missione, quando lei stessa ne evidenziava i limiti?
Le domande giravano intorno a un problema più grande: qual era lo scopo di questa indagine dal momento che i fatti importanti erano fuori dalla sua portata? O, per dirla in altro modo, quale descrizione dei fatti poteva essere confermata se la disinformazione dilagava e Israele controllava l’accesso all’informazione – ai siti, ai rapporti, ai sopravvissuti – e favoriva i peggiori sospetti della stampa. “La nebbia della guerra spesso nasconde i crimini di violenza sessuale”, ha detto Patten. “Ma nella storia dei conflitti abbiamo anche visto casi in cui la violenza sessuale può essere usata come arma”.
Senza fondamento
È già abbastanza difficile accertare gli episodi di violenza sessuale in guerra; lo è ancora di più quando vendicare la violenza sessuale diventa un pretesto per continuare la guerra. Poco dopo la conferenza stampa, il rappresentante di Israele alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha insistito sul fatto che le conclusioni di Patten confermavano il diritto di Israele di continuare ad assediare Gaza. Il rapporto, ha scritto Erdan su Twitter, “finalmente riconosce i crimini sessuali commessi durante il massacro di Hamas. Questo vi darà una svegliata? Lo capirete che un cessate il fuoco significa abbandonare le donne israeliane in ostaggio a Gaza ai continui abusi sessuali di Hamas?”.
Le notizie sulle violenze sessuali hanno cominciato a circolare subito dopo l’attacco di Hamas. I volontari di primo soccorso hanno accompagnato i giornalisti nei luoghi degli attacchi e hanno descritto quelli che ritenevano essere casi di stupro, in base alla posizione e alle condizioni dei corpi delle vittime. Le immagini di donne con biancheria intima insanguinata e corpi piegati in determinate posizioni sono state esibite come prova che in tante erano state violentate. Molte accuse formulate in quel momento, notava il rapporto di Patten, non potevano essere verificate. Alla fine di novembre, i sostenitori della guerra a Gaza facevano affermazioni infondate sulla natura e sul numero delle violazioni.
Secondo Cochav Elkayam-Levy, presidente di un’ong israeliana che indaga sugli abusi, “la tortura sulle donne è stata usata come arma per distruggere le comunità, distruggere un popolo, distruggere una nazione”. Michal Herzog, moglie del presidente israeliano Isaac Herzog, ha scritto un articolo su Newsweek sostenendo che “lo stupro di massa era una parte premeditata del piano di Hamas”.
Israele e i suoi sostenitori si sono affrettati a dipingere chiunque mettesse in dubbio queste affermazioni come complice della violenza sessuale. In una conferenza stampa a dicembre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato le femministe di antisemitismo: “Dico alle organizzazioni per i diritti delle donne, ai gruppi per la difesa dei diritti umani, avete sentito parlare dello stupro delle donne israeliane?”. Anche Erdan ha insistito sul fatto che Hamas “aveva un piano premeditato” per usare lo stupro come arma di guerra. Non riconoscerlo, ha affermato, significava che le Nazioni Unite stavano “apertamente discriminando le donne israeliane”.
Nelle settimane successive al 7 ottobre, le immagini e i resoconti non verificati e non confermati in circolazione includevano le dichiarazioni di quattro testimoni insieme a fotografie e video che mostravano corpi più o meno svestiti, in posizioni sessualmente allusive, con sangue e ferite che potevano indicare una violenza sessuale o forse un trattamento disumanizzante dei cadaveri. Alcuni commentatori online, sia nel mondo arabo sia in alcuni gruppi politici estremisti in occidente, si sono rifiutati di credere alle accuse di stupro. I giornalisti del sito Grayzone Max Blumenthal e Aaron Maté hanno accusato il rapporto Patten di “riciclare” la “bufala dello stupro di massa di Hamas”. I loro commenti hanno provocato la reazione dei difensori di Israele. L’editorialista del New York Times Bret Stephens ha parlato di “negazionismo dello stupro” promosso dai progressisti. “Con quanta rapidità”, ha scritto, “l’estrema sinistra passa da ‘credere alle donne’ a ‘credere ad Hamas’ quando cambia l’identità della vittima”.
Figure meno polemiche, come la femminista araba Lina AbiRafeh, hanno replicato che i fatti sono importanti e che non c’era nulla d’immorale nel cercare di stabilire esattamente cosa fosse successo; anzi, era eticamente necessario. I rapporti sulle atrocità sono e sono stati spesso usati come pretesto per la guerra e per altre atrocità. In una lettera aperta ai “governi d’Israele e degli Stati Uniti e ad altri che strumentalizzano la questione dello stupro”, decine di femministe studiose di diritto ed ebree antisioniste hanno condannato “la manipolazione opportunistica della questione della violenza sessuale da parte di chi commette crimini di guerra”. La storia, hanno osservato, “è piena di esempi di accuse di stupro usate per rendere il ‘nemico’ più mostruoso, e quindi meritevole di forme sempre più immorali di violenza militarizzata”. Quello che serviva era dare la possibilità a esperti imparziali di condurre indagini adeguate.
La verità offuscata
Ho visto le terribili violenze commesse sulle donne in ogni conflitto di cui mi sono occupata come giornalista dalla fine degli anni novanta. In Afghanistan, Iraq, Siria, Nigeria e Ucraina la guerra si è incisa nelle donne attraverso torture sessuali, uccisioni, sparizioni e mutilazioni di bambine, abusi e sfruttamento sessuale, schiavitù sessuale e, naturalmente, stupro, anche se questo non è sempre il crimine più diffuso o quello che colpisce di più le donne.
In ogni guerra la verità su quello che è stato fatto alle donne, e da chi, è offuscata dalla propaganda: chi ha cominciato per primo a fare del male alle donne dell’altra parte; quale parte si è comportata peggio; chi ha colpito per ideologia e chi per opportunismo. In molte guerre le donne sono state complici nell’incoraggiare la violenza o si sono rifiutate di credere che la propria parte potesse commetterla; sono state coinvolte nell’attuazione e nella negazione dello stupro, oltre che esserne vittime. Può essere difficile fare una stima affidabile del numero di donne colpite in questi conflitti, per non parlare della verifica delle singole testimonianze.
È innegabile che ci siano stati episodi di violenza sessuale durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Il rapporto Patten interpreta la “violenza sessuale legata ai conflitti” secondo i termini dello statuto di Roma della Corte penale internazionale. Questo comprende lo stupro penetrativo, insieme alla schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, il matrimonio forzato, la gravidanza forzata e “ogni altra forma di violenza sessuale di analoga gravità”. Il rapporto classifica come violenza sessuale anche la tortura di tipo sessuale e i trattamenti crudeli, disumani e degradanti.
Quello che non era chiaro è se lo stupro rientrava nel piano di battaglia di Hamas e se gli stupri erano stati commessi da miliziani del gruppo, da combattenti che si erano uniti a loro da altre organizzazioni, come la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, o dai civili che si erano riversati nel sud di Israele sulla scia degli attacchi. Era stata sia un’operazione militare rigidamente pianificata sia una sommossa, caotica e mortale: determinare il numero preciso di casi, la loro esatta natura, l’identità dei responsabili e se gli atti siano stati sistematici o casuali si è rivelato finora estremamente difficile. Questo si deve in parte ai problemi tipici delle scene del crimine e al modo in cui sono state gestite le prove, ma anche al fatto che Israele ha negato l’accesso agli organismi indipendenti dell’Onu con la capacità giuridica di investigare e con un mandato per farlo.
Le scene del crimine
Non ci sono superstiti alla violenza sessuale noti agli esperti indipendenti e ci sono solo quattro testimoni oculari, uno dei quali non è più considerato attendibile. Nel suo rapporto, Patten afferma di essere stata “messa a conoscenza di un piccolo numero di sopravvissute” alla violenza sessuale, ma che sono in cura per il trauma, non hanno rilasciato dichiarazioni e non hanno potuto incontrare la sua squadra. Per quanto riguarda il numero di donne interessate, sia il rapporto di Patten sia un rapporto di Human rights watch (Hrw) pubblicato a luglio hanno accertato diversi casi che soddisfano i loro standard di prova.
In assenza di un’indagine di un organismo dell’Onu legalmente autorizzato, il rapporto Patten rappresenta il punto di riferimento per comprendere la violenza sessuale del 7 ottobre. Nel suo incontro con la stampa, Patten ha dato un’indicazione di cosa sia possibile accertare: “Non ho cifre. Un caso è più che sufficiente e non sono andata lì a fare un esercizio di contabilità. Le prime lettere che ho ricevuto dal governo israeliano parlavano di centinaia, se non migliaia di casi, e io non ho riscontrato nulla del genere”.
L’esercito ha inviato il gruppo di primo soccorso Zaka a raccogliere i corpi, come fa sempre dopo i bombardamenti o gli attacchi di questo tipo
Il principale organismo indipendente che ha la capacità giuridica di indagare sulle questioni dell’entità e delle intenzioni è stato tenuto fuori dal caso. La commissione d’inchiesta internazionale indipendente sui Territori palestinesi occupati e Israele, incaricata dal consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, è stata descritta da Erdan come “sostenitrice del terrorismo” e intrisa di “odio per gli ebrei”. Due organizzazioni israeliane hanno riferito sull’accaduto: Physicians for human rights Israel e Association of rape crisis centres. In entrambi i casi ci sono state difficoltà dovute alle condizioni dei corpi e i rilevamenti sono incompleti.
Gli attacchi del 7 ottobre hanno avuto luogo in diverse località: le città e i kibbutz intorno alla Striscia di Gaza, il rave Nova, un avamposto militare e due autostrade. I miliziani di Hamas, insieme a combattenti di altre fazioni palestinesi, sono dilagati oltre la barriera con il territorio israeliano. Hanno ucciso 375 soldati e quasi ottocento civili, tra cui donne, bambini, lavoratori migranti e beduini, e hanno preso 253 ostaggi, tra cui un centinaio donne e ragazze. Le famiglie sono state uccise nelle loro case e i cadaveri sono stati profanati e mutilati. Molti corpi erano carbonizzati. I miliziani hanno appiccato incendi nelle case e sparato granate contro gli edifici; l’esercito israeliano ha risposto al fuoco dagli elicotteri e dai carri armati. Gran parte delle uccisioni è stata ripresa con le bodycam e alcune immagini sono state diffuse da Hamas e da altri combattenti. Tra queste e i video ripresi dai telefoni dei superstiti c’è una straordinaria quantità di immagini che documentano gli attacchi mentre erano in corso. Alcune mostrano un trattamento disumano dei cadaveri, ma nessuna uno stupro.
L’entità del massacro è stata sconvolgente. L’esercito ha inviato il gruppo di primo soccorso Zaka a raccogliere i corpi, come fa sempre dopo bombardamenti o attacchi di questo tipo. Zaka è un gruppo di volontari ultraortodossi il cui principale interesse è religioso: ha l’obiettivo di localizzare i corpi e restituirli alle famiglie il prima possibile per la sepoltura rituale. I componenti dello Zaka non hanno una formazione forense e non documentano quello che fanno. A mano a mano che diventava chiara la portata degli attacchi, il personale militare addestrato alla raccolta e all’identificazione dei resti umani mostrava una crescente frustrazione per il fatto di essere lasciato da parte. I volontari dello Zaka hanno setacciato l’area, raccogliendo resti di corpi alla rinfusa. A Shura, una base militare convertita in centro di identificazione, gli ufficiali hanno ricevuto sacchi su sacchi di resti disordinati. C’erano “sacchi con due teste, sacchi con due mani, e non c’era modo di capire a chi appartenesse cosa”, ha raccontato un volontario al quotidiano israeliano Haaretz.
Dichiarazioni raccapriccianti – poi screditate – come la scoperta dei neonati decapitati, sono riconducibili allo Zaka. Yossi Landau, che coordina il gruppo nella regione meridionale, ha descritto il suo metodo per determinare cosa è successo alle vittime: “Quando entriamo in una casa usiamo la nostra immaginazione. I corpi ci raccontano quello che gli è successo”. In un video pubblicato dal ministero degli esteri israeliano una volontaria dello Zaka afferma: “I muri, la pietra, gridavano: ‘Sono stata violentata’”. Come mi ha detto un ricercatore, “Lo Zaka ha distrutto le scene del crimine. È assurdo che sia stato mandato sul campo. A posteriori, è stata la decisione peggiore che abbiano preso”.
Quando i corpi sono arrivati alla polizia, il modo inesperto in cui erano stati raccolti, le gravi ferite riportate dalle vittime, insieme ai ritardi e alla carenza di patologi forensi, hanno reso difficile fare le analisi medico-legali per accertare gli stupri. Haaretz ha dichiarato a novembre che i test condotti non hanno rilevato prove di violenze sessuali. La raccolta non documentata, insieme al numero delle vittime, ha reso il compito di associare i corpi ai luoghi estremamente difficile, il che significa che le prove materiali non potevano essere usate per confermare i racconti dei testimoni.
Le madri di Gaza
Allo stesso tempo, anche se se ne parla molto meno, l’attacco israeliano contro Gaza e contro i palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est ha esposto le donne a danni sessuali e riproduttivi su larga scala. Centinaia di donne palestinesi sono state detenute in Israele dal 7 ottobre e alcune hanno subìto abusi di tipo sessuale (tra cui torture sessuali, percosse da nude e colpi ai genitali, posizioni faticose e degradanti, minacce di stupro e, in due casi accertati, lo stupro stesso). Si stima che cinquantamila donne di Gaza fossero incinte quando è scoppiata la guerra: da allora, molte di loro hanno abortito o i figli sono nati morti. Dato che non esiste un’assistenza medica adeguata, le donne spesso entrano in travaglio nel buio di un accampamento, con l’aiuto delle torce dei cellulari, o sono sottoposte a cesarei senza anestesia.
Anche prima che la campagna israeliana di riduzione alla fame arrivasse ai livelli di carestia, l’insufficiente apporto calorico e i continui bombardamenti rendevano difficile per le donne allattare. Un team delle Nazioni Unite ha riscontrato che a Gaza non nascono più bambini con un peso normale. Molti bambini, ha dichiarato a marzo l’Organizzazione mondiale della sanità, stanno “semplicemente morendo”. In uno studio sulla violenza ostetrica pubblicato a febbraio, la giurista ed ex relatrice speciale dell’Onu Fionnuala Ní Aoláin scrive che “l’eccessiva attenzione sulla violenza sessuale penetrativa (stupro) distoglie l’attenzione da altri gravi danni basati sul genere che le donne subiscono durante i conflitti. È fondamentale valutare come la gravità e il costo di questa violenza, spesso invisibile, infligga la stessa crudeltà, o una perfino maggiore, sul corpo e sulla vita delle donne”.
La protezione delle madri resta una “priorità bassa o vicina allo zero”, aggiunge Ní Aoláin, “ai margini del dibattito politico globale”. È significativo, a questo proposito, che la violenza ostetrica sulle donne palestinesi sia stata denunciata dal Sudafrica nel suo appello alla Corte internazionale di giustizia, anche se il passaggio della convenzione di Ginevra chiamato in causa riguarda gli attacchi alla popolazione piuttosto che i pericoli per le donne: punisce le “misure che mirano a impedire le nascite all’interno di un gruppo”.
Israele può definire i cittadini di Gaza “combattenti illegali”, una categoria creata dagli Stati Uniti durante la guerra al terrorismo che priva le persone dei loro diritti. Per le donne palestinesi di Gaza questo significa avere un accesso rallentato o limitato agli avvocati o all’assistenza legale e rischiare di sparire nei siti militari e nei centri di detenzione che non possono essere visitati da osservatori esterni. Milena Ansari, ricercatrice di Human rights watch, mi ha detto che gli abusi di tipo sessuale sulle donne palestinesi durante gli interrogatori nelle carceri israeliane sono noti da decenni. Ora, come ha detto un soldato a una donna detenuta e bendata alla fine di ottobre, secondo un rapporto della commissione indipendente per i diritti umani in Palestina, “c’è la guerra e possiamo farti quello che vogliamo. Sei una prigioniera di guerra”.
In una lettera al governo israeliano in cui si chiedeva di poter visitare il paese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per la violenza contro le donne Reem Alsalem ha espresso serie preoccupazioni per i resoconti attendibili di violenze e aggressioni sessuali minacciate e messe in atto, tra cui due stupri, contro donne e ragazze palestinesi detenute a Gaza e in Cisgiordania dal 7 ottobre. Mi ha spiegato che la discrepanza nelle reazioni dei governi occidentali alle denunce di violenza sessuale contro le donne israeliane rispetto a quelle contro le palestinesi sta vanificando anni di attività a sostegno della protezione delle donne nei conflitti. “Avere livelli diversi di indignazione non aiuta”, ha detto. “Compromette la legittimità del dibattito”.
Costringere al silenzio
Secondo Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per Israele e i Territori palestinesi occupati, l’aumento del numero di donne palestinesi detenute da Israele dal 7 ottobre è stato accompagnato da un’intensificazione delle aggressioni e degli abusi sessuali in carcere. Almeno duecento donne sono state arrestate nella Striscia di Gaza e i gruppi per la difesa dei diritti umani stimano che Israele abbia in custodia 147 donne e 245 bambini e adolescenti di entrambi i sessi in Cisgiordania. “Ci arriva solo un frammento di quello che sta succedendo sul terreno”, ha detto Albanese. “Il fatto che emergano numeri così grandi ci fa capire che questi schemi di abuso sono diventati sistematici”.
Le recenti relazioni di tre importanti gruppi israeliani per i diritti umani – Public committee against torture in Israel, Physicians for human rights Israel e B’Tselem – descrivono gli abusi come una caratteristica della detenzione israeliana, in quella che, secondo loro, è una violazione dei divieti internazionali di tortura e di altri trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Un rapporto di febbraio del Women’s centre for legal aid and counselling (Centro delle donne per l’assistenza e la consulenza legale) di Gerusalemme afferma che tutte le palestinesi che hanno contattato il centro hanno ricevuto telefonate minatorie di funzionari israeliani dopo il loro rilascio. Le “avvertivano che sarebbero state riportate in prigione o che sarebbe stato fatto del male ai loro familiari reclusi se avessero parlato delle loro esperienze”. Le pressioni a rimanere in silenzio vengono anche dai palestinesi. Si è diffuso il timore che la denuncia, la condivisione o il riconoscimento ufficiale delle violenze sessuali sulle donne palestinesi possa spingere Israele a cacciare la popolazione di Gaza.
Il trattamento disumano subìto dalle palestinesi prigioniere in Israele è stato sottolineato anche dai rapporti di altri gruppi per i diritti umani israeliani, israelo-palestinesi e palestinesi. L’attivista Ahed Tamimi ha riferito di essere stata spogliata e picchiata su tutto il corpo mentre giaceva sul pavimento di un bagno. Hanan Barghouti, rilasciata a novembre in uno scambio con gli ostaggi israeliani, ha detto di aver visto altre due carcerate picchiate sui genitali. Lei stessa è stata palpeggiata e aggredita mentre era bendata. In un documento congiunto presentato all’Onu da gruppi per i diritti umani israeliani e palestinesi molte donne descrivono perquisizioni invasive, con prigioniere tenute nude per lunghi periodi, costrette ad aprire le gambe e ad assumere posizioni degradanti, mentre gli uomini di guardia osservano, si toccano o minacciano di stuprarle. Le donne hanno riferito di essere state costrette a spogliarsi e a stare nude in piedi davanti a una bandiera israeliana. Hanno aggiunto che i soldati hanno scattato foto umilianti e le hanno condivise online. Queste foto sono una forma di ricatto. Una donna ha raccontato che i soldati le hanno detto: “Nessuno ti sposerà, nessuno ti toccherà dopo aver visto quello che ti abbiamo fatto”.
Alla fine di ottobre il ministro della sicurezza israeliano, Itamar Ben Gvir, andava in giro a distribuire armi ai civili
Dal 7 ottobre, le carceri e i centri di detenzione israeliani hanno chiuso i loro spacci, l’unico posto dove le detenute palestinesi possono comprare gli assorbenti (a Gaza ormai è quasi impossibile trovarli). In Cisgiordania, le mestruazioni sono usate come strumento di pressione durante gli interrogatori. I soldati vietano alle donne di andare in bagno finché non firmano una confessione. La strumentalizzazione dell’“onore” e dei tabù sul corpo delle donne palestinesi fa parte della strategia israeliana da decenni. L’esercito usa questa tattica anche contro i palestinesi lgbt+, in particolare contro gli uomini gay, che quasi sempre tengono segreta la loro sessualità.
La violenza sessuale contro le donne palestinesi è stata spesso occultata da uno schema di negazione, perpetuato non solo dai difensori di Israele, ma anche da alcuni dei suoi critici, compresi i palestinesi che sono riluttanti, per motivi di fede, politica o comunità, a parlare della violazione delle donne.
Negli ultimi trent’anni ci sono stati sforzi congiunti nel diritto penale internazionale per affrontare lo stupro di guerra, creando un nuovo linguaggio giuridico e introducendo disposizioni per perseguirlo (e, idealmente, prevenirlo). Questo ha avuto l’effetto involontario, come scrive Ní Aoláin, di distogliere “l’attenzione da altri gravi danni basati sul genere” che le donne subiscono nei conflitti. Con l’impegno dell’Onu e quote considerevoli di fondi per l’assistenza umanitaria ora dedicate alla prevenzione o alle indagini sugli stupri, le guerre in cui le donne subiscono altre forme di danni sessuali e agli organi riproduttivi sono considerate meno degne di attenzione dai governi occidentali. Inevitabilmente, i mezzi d’informazione si concentrano sulle donne prese di mira dai nemici degli Stati Uniti e chiudono un occhio sulle violenze sessuali commesse dalle milizie e dalle forze antiterrorismo alleate di Washington. Alcuni scontri recenti in cui lo stupro ha avuto un ruolo significativo, come nel Tigrai in Etiopia, sono stati ignorati, perché i responsabili hanno poca rilevanza geopolitica.
Per molte donne palestinesi, soprattutto giovani e attiviste, gli abusi sessuali facevano parte della vita sotto l’occupazione molto prima del 7 ottobre: essere insultate e perquisite ai posti di blocco mentre vanno al lavoro o a scuola; essere tirate giù dal letto e trascinate in strada scalze, in pigiama e senza velo; essere trattenute a un posto di blocco mentre sono incinte o costrette a partorire dietro il muro di un checkpoint; essere sottoposte a perquisizioni invasive e degradanti durante la detenzione; subire il ricatto sessuale dell’isqat, “la rovina”, in cui le immagini o i video che le mostrano svestite o in posizioni degradanti sono usati per estorcere confessioni o collaborazione.
La minaccia della violenza sessuale, fisica e psicologica, incombe sul conflitto arabo-israeliano fin dall’inizio. Nell’aprile 1948 le milizie sioniste attaccarono il villaggio palestinese di Deir Yassin, uccidendo più di cento civili. Le storie di quello che successe quel giorno, in particolare i racconti di abusi sessuali e stupri, si diffusero tra le centinaia di migliaia di palestinesi i cui villaggi e città affrontavano lo stesso imminente pericolo. Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 cominciò a diffondersi lo slogan “la terra prima dell’onore”. Secondo la studiosa palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian, questo suggeriva alle donne che “non dovevano temere i dilaganti abusi sessuali dei militari sotto l’occupazione israeliana, perché la liberazione nazionale era e resta più importante dell’‘onore’ delle donne o della vittimizzazione che segue l’abuso sessuale”.
La sfera domestica
Anche all’interno di Israele diversi pericoli minacciano le donne di una società in guerra. Secondo Ruchama Marton, fondatrice di Physicians for human rights Israel, c’è stato “un aumento della violenza contro le donne sia nella sfera domestica sia in quella sociale”. L’Osservatorio israeliano sul femminicidio indica che la violenza domestica è aumentata all’indomani del 7 ottobre. Alla fine di ottobre il ministro della sicurezza israeliano, Itamar Ben Gvir, andava in giro a distribuire armi ai civili. Il suo ministero ha allentato le regole sul possesso privato di armi, rendendo più facile comprarle per i cittadini israeliani, anche quelli con precedenti di violenza domestica. Il possesso di armi si è impennato. Varie ricerche mostrano la correlazione tra abusi domestici e accesso alle armi in contesti di conflitto. Nel libro del 2018 Conflict-related violence against women, Aisling Swaine descrive le “continuità della violenza” tra la sfera pubblica e quella privata in un paese in guerra, dal fronte alla casa e viceversa. L’autrice sottolinea inoltre che il diritto di guerra, che riconosce lo stupro ma non, per esempio, l’aumento della violenza coniugale, non contempla adeguatamente l’esperienza delle donne nei paesi in conflitto, dove la violenza è una “forza sempre presente, dipendente dal contesto e altalenante” nella loro vita.
All’inizio di febbraio, in occasione di un’audizione del parlamento israeliano sulla condizione delle donne e l’uguaglianza di genere, la polizia ha dichiarato che stava indagando su diversi casi di stupro e violenza domestica negli alberghi dove sono ospitate le decine di migliaia di donne e bambini sfollati dopo il 7 ottobre. Sono stati segnalati quaranta casi di violenza domestica, “alcuni” estremamente gravi, tra cui episodi di stupro e aggressione sessuale. Una linea telefonica diretta per le palestinesi in Israele ha riferito di aver ricevuto centinaia di chiamate da donne che hanno subìto abusi in casa, licenziamenti ingiusti o violazioni dei loro diritti sul lavoro, e che non si sentivano sicure a chiamare la polizia israeliana.
A Gaza e in Cisgiordania, secondo Lina AbiRafeh, la violenza domestica è quasi certamente aumentata, ma il contesto politico e culturale – l’idea che sia ingiusto lamentarsi dei problemi delle donne in un momento di lotta nazionale – rende impossibile un resoconto accurato. Anche il desiderio di non alimentare la disumanizzazione degli uomini palestinesi impedisce di parlare di una crescita della violenza domestica. “È una parte importante della narrazione israeliana presentarsi come un baluardo dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani, un paese dove le donne possono servire nell’esercito, uno spazio sicuro per le persone lgbt+, mentre l’altra parte è descritta come primitiva, anzi bestiale, nel trattare le donne”, mi ha detto AbiRafeh. “È una falsa narrazione che serve ad alimentare il genocidio”.
Come è successo in Ucraina e altrove, anche in Israele lo spettro dello stupro di massa e dell’uccisione indiscriminata di civili ha contribuito a rafforzare il consenso intorno alla guerra. Ha pure influenzato il comportamento dell’esercito israeliano a Gaza. È emerso un filone di selfie di conquista che mostrano i soldati israeliani tenere in mano la biancheria intima delle palestinesi o appenderla sui carri armati. Un soldato ha pubblicato un’immagine simile su un sito di incontri (l’esercito ha da sempre problemi di molestie e aggressioni sessuali nei suoi ranghi; secondo il quotidiano Jerusalem Post, nel 2020 ci sono state 1.552 denunce che hanno prodotto solo 31 condanne). Le palestinesi detenute hanno raccontato che durante gli interrogatori gli israeliani parlavano degli “stupri di Hamas” e minacciavano di fargli “quello che hanno fatto alle nostre donne”.
Un funzionario della difesa occidentale con cui ho parlato ha descritto la diffusione della narrazione degli stupri di massa come una “strategia di comunicazione militare” destinata a mantenere alto il morale dell’esercito, soprattutto tra i riservisti. “Devono provare una rabbia profonda, considerare i civili non umani e il 7 ottobre come la cosa peggiore dopo la Shoah. Hanno bisogno di queste storie”. Marton ha fatto un ragionamento simile: “Cercano di usare le storie di stupro, vere e false, per ottenere qualcosa. E non è il benessere delle donne”. L’“eccessiva attenzione” sullo stupro, come dice Marton, è stata usata per orientare l’opinione pubblica contro il cessate il fuoco: “È dura doverlo dire, ma alimenta la vendetta e l’odio, che ora vanno di pari passo. Convincere l’esercito e l’opinione pubblica che Hamas ha contaminato le nostre donne e che la vendetta è necessaria. Questo è il sentimento principale, il clima attuale in Israele. È una guerra di vendetta, di odio, e in questa atmosfera lo stupro delle donne è fondamentale. È un paese dominato dagli uomini e questo è esattamente il linguaggio che capiscono. Alimenta la macchina della guerra”.
Qualcosa di inedito
A metà di novembre Israele dedicava le sue energie diplomatiche alle Nazioni Unite per bloccare il cessate il fuoco e attaccare UN women, l’agenzia dell’Onu per l’uguaglianza di genere, accusata di non aver condannato Hamas per l’uso della violenza sessuale.
Attivisti e gruppi di donne si sono uniti alla campagna, insieme a improvvisate esperte di violenza sessuale. Sono nate campagne sui social media che hanno preso di mira l’agenzia e altre figure di spicco – Angelina Jolie, Oprah Winfrey, Malala Yousafzai – per il loro “silenzio” (tutte e tre avevano apertamente solidarizzato con le donne di entrambe le parti).
Alcuni dei sostenitori statunitensi di Israele hanno descritto UN women come un insensibile ammasso di burocrati, incaricati di proteggere le donne ma incapaci di riconoscere il male che era stato inflitto alle israeliane. Una funzionaria dell’agenzia, Sarah Hendriks, è apparsa sulla Cnn. “C’è un motivo per cui non riuscite a criticare pubblicamente Hamas?”, ha chiesto la conduttrice. Hendriks ha spiegato che “all’interno delle Nazioni Unite queste indagini sono condotte dall’ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani” e che la sua agenzia non ha la competenza giuridica di determinare la colpevolezza. Due giorni dopo, Kayleigh McEnany, conduttrice di Fox News ed ex collaboratrice di Donald Trump, ha risposto: “Per favore, non raccontatemi stronzate. E quando la Russia ha invaso l’Ucraina? UN women è stata in grado di parlare di stupro e altre forme di abuso. Non avete avuto bisogno di un’indagine indipendente. Vi serve solo quando sono le donne ebree a essere violentate”.
“Siamo in una fase storica di crisi e decadenza”, ha detto Soliman, “che mette in mostra il vero volto di tutti i sostenitori dei diritti umani”
Non è vero. UN women non si è scagliata contro le violenze sessuali legate ai conflitti in Yemen, Afghanistan, Somalia, Libia, Colombia o Mali, e le sue condanne degli stupri nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Siria e in Iraq sono arrivate anni dopo i fatti. Ha risposto più tempestivamente (nel giro di mesi) in luoghi dove le Nazioni Unite avevano squadre sul campo a indagare e documentare gli abusi, o in seguito ad appelli dell’Onu. UN women non ha mai nominato un gruppo o un responsabile specifico. Seguendo i suoi protocolli, si è espressa sul 7 ottobre – otto volte nei primi due mesi – attraverso dichiarazioni, post sui social network e sessioni.
Quello che gli è stato chiesto era qualcosa di inedito: andare oltre il suo mandato e nominare e condannare i presunti responsabili di violenza sessuale prima che fosse stata condotta un’indagine adeguata e senza coordinarsi con gli organi dell’Onu incaricati di svolgere questo lavoro. Se l’avesse fatto, avrebbe danneggiato il suo rapporto con i molti collettivi di donne che considerano UN women come l’ultimo posto in cui hanno ancora voce la società civile e i gruppi femminili del sud globale. La richiesta di condannare Hamas “era una trappola, come quella tesa ai presidi delle università”, mi ha detto un funzionario dell’Onu.
Il 1 dicembre UN women ha rilasciato una dichiarazione che puntava a conciliare queste richieste contrastanti. Ha attentamente e “inequivocabilmente” condannato i “brutali attacchi di Hamas contro Israele” e ha chiesto che “tutti i casi di violenza di genere siano debitamente indagati e perseguiti”. Non ha accontentato nessuno.
Una scelta difficile
A dicembre il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta di Jeffrey Gettleman, intitolata “Urla senza parole: in che modo Hamas ha usato la violenza sessuale come un’arma il 7 ottobre”, in cui ha parlato di sistematici schemi di stupro, basandosi soprattutto sulle dichiarazioni di funzionari israeliani.
Gettleman si descrive come uno “specialista della disperazione” e un giornalista “dedicato a generare empatia”, il cui compito è “non solo informare, ma anche commuovere”. Il giornale ha assunto due persone per lavorare con lui alla storia, nessuna delle quali con una seria esperienza giornalistica. Uno era Adam Sella, da poco laureato ad Harvard; l’altra era Anat Schwartz, compagna dello zio di Sella e documentarista. Sui social media, Schwartz aveva sostenuto l’idea di trasformare Gaza “in un mattatoio”.
Le principali critiche alla storia riguardano il ricorso di Gettleman a fonti che sono state screditate o i cui resoconti sono così incoerenti da non essere attendibili, e l’uso fatto dai suoi collaboratori di pressioni e false dichiarazioni per ottenere l’accesso alle fonti. Alcune affermazioni contenute nel pezzo sono state successivamente smentite. Schwartz, secondo quanto riportato dal sito d’informazione The Intercept, è un’ex funzionaria dell’intelligence militare israeliana.
Molti altri giornali hanno pubblicato articoli con affermazioni simili a quelle del New York Times. Ma nessuno ha la stessa influenza sull’opinione pubblica statunitense o sulle leadership europee. Dopo la pubblicazione dell’articolo, una ministra francese ha minacciato di tagliare i fondi alle associazioni di donne che avessero mostrato la “minima ambiguità” sull’uso della violenza sessuale fatto da Hamas. Il governo tedesco, generoso sostenitore di gruppi di donne nel sud del mondo, ha chiarito che il suo supporto sarebbe stato subordinato alla tacita accettazione dell’aggressione israeliana.
All’inizio di novembre l’ambasciata tedesca al Cairo ha tagliato i fondi al Centro per l’assistenza legale alle donne egiziane, un gruppo che lavora per prevenire la tratta e sostenere i diritti delle donne. Il motivo era che la direttrice Azza Soliman aveva firmato una lettera (insieme ai responsabili di duecentocinquanta ong) che chiedeva un cessate il fuoco e sosteneva il movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) contro l’occupazione israeliana. Soliman si trova ora nell’inedita situazione di essere condannata sia dalle autorità tedesche sia da quelle egiziane. “Siamo in una fase storica di crisi e decadenza”, ha dichiarato a un giornale egiziano, “che mette in mostra il vero volto di tutti i sostenitori dei diritti umani”.
I gruppi di donne del sud del mondo si trovano di fronte a una scelta difficile. Se si esprimono contro la violenza di Israele a Gaza e in Cisgiordania, rischiano di perdere i finanziamenti, ma se non lo fanno compromettono la loro legittimità. Sussan Tahmasebi, responsabile di Femena, mi ha detto che la vera crisi è la perdita della legittimità su cui i gruppi di donne fanno affidamento e che costituisce il fondamento etico e legale del loro lavoro. A mano a mano che i governi occidentali perdono credibilità agli occhi dell’opinione pubblica del sud globale, succede lo stesso ai gruppi che sono schierati con loro.
Nella prima settimana di marzo, quando Patten ha pubblicato il suo rapporto, novemila donne palestinesi erano state uccise dalle bombe e dai proiettili israeliani. Molte altre non sono ancora state conteggiate: i loro corpi sono sepolti sotto le macerie. Su richiesta di Israele, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha convocato una sessione speciale per discutere il rapporto. Patten ha insistito sul fatto che le sue conclusioni costituivano un imperativo morale per il cessate il fuoco e ha ammonito che la violenza sessuale non dovrebbe mai essere usata come strumento per “legittimare ulteriori violenze nella regione” o “per servire fini politici o militari più ampi”.
L’indifferenza verso i suoi resoconti sulla sofferenza delle donne palestinesi detenute e ai posti di blocco è stata, ha aggiunto, una grande delusione. La guerra ha messo in evidenza che si fanno differenze tra i corpi delle donne, attribuendogli un valore relativo, in base al gruppo di appartenenza; si presta attenzione alle sofferenze di un gruppo, mentre quelle dell’altro sono messe a tacere o negate. Questo è un problema che nessun lavoro di “giornalismo”, nessuna “missione d’inchiesta” può risolvere. ◆ svb
Azadeh Moaveni è una giornalista e scrittrice statunitense di origine iraniana.
Il suo ultimo libro è Guest house for young widows (Random House Audio 2019).
In Italia ha pubblicato Viaggio di nozzea Teheran (Newton Compton 2009), Lipstick jihad (Pisani 2006) e Il mio Iran (Sperling&Kupfer 2006), scritto con l’avvocata e premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. È stata corrispondente dal Medio Oriente per Time e per il Los Angeles Times, e collabora con il New York Times e il Guardian. Dirige il progetto Genere e conflitto dell’International crisis group e insegna giornalismo alla New York University.
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati