Quando si ritrovò davanti il presidente sudafricano, il sarto rimase senza parole. Era il 1998 a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, in Africa occidentale. Nelson Mandela indossava una camicia realizzata da lui, di cotone bianco con un motivo a onde blu. Pathé’O si ricorda che non riuscì nemmeno a dirgli bonjour. I capi di stato del continente erano a Ouagadougou per una riunione dell’Organizzazione dell’unità africana (oggi Unione africana). All’epoca Pathé’O, originario di un villaggio burkinabé, era ancora uno sconosciuto ed era stato invitato nella capitale a intrattenere le mogli dei presidenti con una sfilata di moda. Dopo la sfilata un ministro molto agitato venne a cercarlo: doveva andare con lui, Mandela voleva vederlo.
Subito dopo averlo salutato, il presidente sudafricano gli fece una carezza sulla testa. Gli disse quanto fosse importante per l’Africa il suo lavoro di sarto. Alla fine della giornata passeggiarono insieme in un giardino, mano nella mano, “come vecchi amici”. Quel sarto oggi è un importante stilista che con il suo lavoro ha consolidato la consapevolezza africana.
Abidjan si trova in Costa d’Avorio, sull’oceano Atlantico. Una mattina di aprile Pathé’O è in piedi davanti a un bancone da taglio nel suo atelier e accarezza un tessuto di cotone con dei puntini scuri: “Chiamiamo questo motivo moucheté perché sembra cacca di mosca”. Quando ride, scuote la testa. Il suo nome intero è Pathé Ouédraogo, ma dato che lui e il suo marchio sono una cosa sola, tutti lo chiamano solo Pathé’O. Dice di avere circa 72 anni. Non ne è sicuro perché dov’è nato non c’è un registro dell’anagrafe. È alto ed elegante, con un viso gentile. In Africa occidentale è così famoso che ogni volta che mangia al ristorante qualcuno gli chiede di scattare un selfie con lui.
L’incontro con Mandela è stato un punto di svolta nella sua vita, dice. Lì ha capito che quello che stava facendo era più che vestire le persone. Era, ed è tuttora, un atto politico, una lotta contro il potere occidentale interiorizzato nel suo continente: abito e cravatta per gli uomini, il tailleur in stile parigino per le donne. È una lotta per le stoffe e i tagli africani. Una lotta per la decolonizzazione della moda.
Dopo quell’incontro è cambiato anche qualcos’altro. “La gente veniva a cercarmi”, dice ridendo. Si era sparsa la voce che Mandela indossasse abiti di Pathé’O. È così che lo stilista è diventato famoso in Africa. Oggi molti capi di stato africani indossano Pathé’O, come testimoniano le diverse foto incorniciate e appese nel suo atelier e nella sua boutique: il re marocchino Mohammed VI, ma anche Paul Kagame, Roch Marc Christian Kaboré e Alassane Ouattara, rispettivamente presidenti di Ruanda, Burkina Faso e Costa d’Avorio. La politica non gli interessa, dice lo stilista, ma i presidenti sono buoni influencer. Molti di loro li ha fotografati con l’iPad quando sono venuti nella sua boutique di Abidjan per prendere le misure. Pathé’O fa un gesto sdegnato con le mani: “La maggior parte di loro indossa le mie camicie solo nel tempo libero. Per le occasioni importanti mettono il completo occidentale: camicia, cravatta e giacche troppo calde per i tropici”. La lotta insomma non è finita.
L’apripista
Nell’atelier Pathé’O ripiega la stoffa moucheté. Più di trenta macchine da cucire sferragliano, la tv trasmette una partita di calcio, i clienti si accalcano nei corridoi, i ventilatori smuovono l’aria pesante. I suoi 52 dipendenti producono ogni giorno un centinaio di capi. Pathé’O non disegna alta moda, ma collezioni per la borghesia. I suoi abiti non colpiscono per l’originalità, ma per la fattura accurata. Motivi e colori sono piuttosto sobri per l’Africa occidentale. Una camicia costa tra i 60 e i 200 euro, un vestito può arrivare a 400 euro. Il suo fatturato annuo è di qualche milione di euro, ma lui non ne parla.

Ormai ci sono molti stilisti e designer africani che hanno come riferimento la propria cultura, che lavorano con materiali locali e tagli tradizionali: la nigeriana Lisa Folawiyo abbina tessuti con stampe geometriche a perline e paillettes, la sudafricana Laduma Ngxokolo s’ispira alle vesti religiose dell’etnia xhosa. Pathé’O ha fatto da apripista, perché ha cominciato ad attingere alla tradizione quando non andava di moda.
Abidjan è una di quelle metropoli dell’Africa subsahariana cresciute troppo in fretta. Oggi ci vivono circa 4,7 milioni di persone. L’atelier di Pathé’O si trova a Treichville, uno dei quartieri più antichi. Alcune case sono in stile coloniale, i balconi sono fatiscenti e le stradine laterali non sono asfaltate. È un quartiere che non riposa mai: qui si continua a riparare i televisori, a incollare le suole delle scarpe e a vendere pneumatici, anche di notte.
Pathé’O lavora a Treichville da cinquant’anni. All’inizio stava in una stanzetta con una macchina da cucire presa in affitto. Riuscì a comprarne una solo all’inizio degli anni ottanta. Qualche anno dopo, quando aveva già due apprendisti, la celebre cantante sudafricana Miriam Makeba diventò prima sua cliente e poi sua amica. Grazie a lei conobbe Mandela. Un giorno, era il 1994 o 1995, la cantante gli fece una visita a sorpresa nel suo atelier. Ricevere un’artista famosa era già straordinario, ma che quella persona volesse fare acquisti per l’uomo che lo stilista adorava fin da bambino, Nelson Mandela, lo era ancora di più. “Rappresentava tutto il meglio dell’Africa”, spiega. La cantante ordinò cinque camicie, lui ne aggiunse due in regalo. Poche settimane dopo ricevette una lettera di ringraziamento scritta a mano dal presidente.
Quasi quattro anni dopo, alla riunione dei capi di stato, quando Mandela passeggiava con lui nel giardino di una villa, Pathé’O gli chiese di quella lettera. Cosa intendeva con la frase che aveva scritto alla fine: “L’Africa di domani appartiene a coloro che sanno creare benessere”? Mandela spiegò: se dai un pezzo di legno a un falegname, ne farà una sedia. Se dai un pezzo di stoffa a un sarto, cucirà una camicia. Chi ne ha le capacità guida l’Africa verso il futuro.
“L’Africa ha bisogno di una rivoluzione culturale. Dobbiamo smetterla di copiare gli altri”, dice. Ma anche lui ha le sue contraddizioni
Per Pathé’O, Mandela è stato una porta sul mondo: quando si seppe che il presidente sudafricano indossava le sue camicie il sarto fu invitato a Parigi, in India e in Corea del Sud. Fece amicizia con stilisti come Alphadi e Chris Seydou, e vestì la top model Naomi Campbell. Ora gestisce venti boutique sparpagliate in tutto il continente. Ma la Maison Pathé’O è rimasta all’antica, come un tempo: i cataloghi sono di carta, il sito internet non viene aggiornato da anni e non esiste un negozio online. Ecco perché i suoi vestiti non si possono comprare fuori dall’Africa. Quando Pathé’O dice che va un momento nel suo ufficio, scompare in una specie di ripostiglio dove non riesce nemmeno a sedersi per quanto lo stanzino è affollato.
Ha un sottile senso dell’umorismo che traspare nelle sue creazioni. Uno dei suoi capi si chiama couper de route, bandito di strada, e ha 120 tasche. Lo prende dall’attaccapanni, lo tiene davanti a sé e fa finta di cercare delle monete nelle tasche: “Farebbe impazzire qualunque ladro”, dice.
Moda e politica vanno insieme in Africa occidentale, perché qui i tessuti e i motivi decorativi sono più importanti che in Europa. Contengono messaggi: può trattarsi di una confessione, uno scherzo, un avvertimento o anche un insulto. Con della stoffa per esempio puoi dire: “L’onore di mia madre è grande”. Un motivo particolarmente popolare, a righe blu chiaro e scuro, significa “vaffanculo”. L’abito da bandito è stato realizzato in faso dan fani. Si tratta di un tessuto tipico del Burkina Faso, un morbido cotone filato a mano, tessuto e tinto. Pathé’O può parlare a lungo della bellezza di questa stoffa, è il suo vello d’oro. Un tempo con quel tessuto qualcuno voleva fare la rivoluzione.
Arriva Sankara
Thomas Sankara era una specie di Che Guevara. Comunista, nel 1983 diventò presidente del Burkina Faso con la voglia di emancipare il suo paese dall’occidente: la popolazione doveva comprare solo merci locali e indossare abiti realizzati con stoffe nazionali. Ogni mercoledì i suoi ufficiali dovevano andare al lavoro vestiti con gli abiti tradizionali. “Indossare il faso dan fani è un gesto economico, culturale e politico di sfida nei confronti dell’imperialismo”, diceva Sankara. Ma non riuscì a sconfiggere l’imperialismo. E i suoi connazionali cominciarono a odiare quel materiale. Era caro e scomodo. La gente cominciò a chiamare quella stoffa “arriva Sankara”, come il segnale d’allarme che risuonava nei corridoi quando il presidente faceva i suoi giri di controllo e i funzionari dovevano cambiarsi d’abito in tutta fretta. Pathé’O incontrò Sankara una volta, nel 1987. “Era carismatico”, ricorda. Ma, aggiunge, non avrebbe dovuto usare la coercizione. Tuttavia, l’incarico che il presidente gli aveva assegnato gli piaceva: doveva realizzare degli abiti in faso dan fani e mostrarli in una sfilata, per valorizzare il tessuto. Sankara non riuscì a partecipare alla sfilata: fu ucciso due mesi dopo quell’incontro, il 15 ottobre 1987. Ma l’idea sopravvisse. Insieme a filatori e tessitori del Burkina Faso, Pathé’O ha reso popolare quel tessuto.
In un cortile interno, a meno di cento metri dalla Maison Pathé’O, alcune donne posano sul pavimento delle pezze di stoffa bianca e le cospargono di colore scuro. Tingono la stoffa “cacca di mosca” della Mauritania che piace tanto a Pathé’O. Producono anche altri motivi, che si chiamano “insalata”, “tavolo” o “nuvola”. Ci vogliono ore. Sankara è considerato ancora oggi un femminista, perché creò posti di lavoro per le donne nell’industria tessile. Si potrebbe dire lo stesso di Pathé’O, che da più di dieci anni compra all’ingrosso da quelle professioniste. Alle otto e mezza di sera, quando ci sono ancora 25 gradi, la giornata lavorativa è finita. Pathé’O sale sulla sua Toyota Land Cruiser, fa partire della rumba dallo stereo e a gran velocità va a casa attraversando la città buia. Parla di vestiti usati europei che, nonostante le buone intenzioni, danneggiano l’industria locale e di come vorrebbe fare la differenza con abiti sostenibili, l’opposto della moda mordi e fuggi. Resta in silenzio mentre sfreccia su uno dei tanti ponti che tengono insieme la città lagunare.
◆ 1950 Nasce a Guibaré, in Burkina Faso, in una famiglia di agricoltori.
◆ 1969 Si trasferisce in Costa d’Avorio, dove impara il mestiere del sarto.
◆ 1978 Apre il suo primo negozio ad Abidjan.
◆ 1994 La cantante Miriam Makeba, sua amica, compra da lui delle camicie che farà indossare al presidente sudafricano Nelson Mandela. Lo stilista lo incontrerà di persona a Ouagadougou quattro anni dopo.
◆ 2021 Organizza una grande festa per celebrare i cinquant’anni di attività.
Quando il condizionatore comincia a fare effetto, riprende a parlare dei giovani che annegano nel Mediterraneo e della sua esperienza: “Un tempo tutto era più aperto, le frontiere e i cuori”. I suoi genitori erano contadini a Guibaré, un villaggio del Burkina Faso. Abitavano in un’abitazione con il tetto di paglia, senza elettricità né acqua. I ragazzi del suo villaggio che erano andati all’estero riportarono due cose: una bicicletta e una radio. “Volevo poter dare qualcosa del genere anche ai miei genitori”. Così a 14 anni lasciò il villaggio diretto verso l’ignoto. Lungo il percorso si spezzò la schiena nelle piantagioni di caffè e di cacao, nei campi di riso e di patate. La sua Europa fu Abidjan: una terra promessa. Ma quando Pathé’O arrivò lì fu costretto a fare il mendicante. Alla fine un sarto lo prese come apprendista. La formazione durò nove anni e di notte dormiva sul tavolo da cucito. Terminato l’apprendistato, poco più che ventenne, si mise in proprio.
All’epoca quasi tutti i sarti della zona lavoravano con del cotone colorato, per lo più a motivi geometrici. I classici tessuti che gli europei hanno in mente quando pensano all’Africa, quelli che si vendono a ogni angolo di strada nei paesi subsahariani e che qui si chiamano wax. Alcune delle camicie che Pathé’O realizzò per Mandela, e che oggi sono considerate iconiche, erano in wax. Ma oggi considera quella stoffa “troppo dominante”. Preferisce l’artigianato africano.
Eppure nel 2020 è stata una sua camicia in wax ad apparire su Vogue, Harper’s Bazaar ed Elle. Racconta questa storia di domenica, quando è al fianco della moglie nel giardino della loro grande casa. C’è anche Kadré, uno dei suoi tre figli, che sta disegnando un nuovo logo per l’azienda. Pathé’O racconta che due anni fa la stilista italiana Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, gli ha fatto visita. Hanno disegnato una camicia insieme. Pathé’O voleva usare la stoffa “cacca di mosca” , ma per il capo firmato Dior non potevano usare un tessuto fatto a mano, altrimenti sarebbe stato difficile produrlo in grandi quantità. Così hanno chiesto alla Uniwax, un’azienda locale specializzata in tessuti wax, di imitare quel motivo. Tutti sono stati gentili con lui e l’hanno invitato a Parigi, ma la camicia non è mai entrata in commercio. Sul retro c’era il volto di Mandela e l’immagine dell’ex presidente sudafricano non può essere usata per fini commerciali, avrebbero scoperto in seguito. Così Pathé’O ha realizzato un’altra camicia per la collezione Cruise di Dior. È stata “una bella esperienza”, dice. Ma suo figlio alza lo sguardo dal cellulare: “Papà, non vedo cosa ci abbia portato”, dice.
Ritorno a casa
Cosa resta della battaglia per la decolonizzazione della moda? “L’Africa ha bisogno di una rivoluzione culturale. Dobbiamo smetterla di copiare gli altri”, afferma lo stilista. Pathé’O ha già pronunciato frasi simili altre volte, in varie occasioni. Ma anche lui ha le sue contraddizioni. I modelli a cui fa indossare le sue creazioni hanno spesso la pelle chiara. E sulle etichette dei vestiti c’è scritto “Pathé’O: Abidjan – Paris”, anche se lo stilista non ha una boutique a Parigi.
Ora ha di nuovo progetti europei. È stato invitato alla fiera della moda di Francoforte, in Germania, dove le sue camicie potrebbero finire nei negozi di catene come Peek & Cloppenburg. A una domanda sulla questione, cambia argomento. Parla invece di una sfilata che avrebbe dovuto svolgersi in suo onore a Ouagadougou, ma che lui ha preferito spostare nel suo villaggio natale.
Racconta dei designer e degli indossatori che hanno cucinato e dormito all’aria aperta; del campo da calcio del paese che è diventato una passerella; della polvere nei vestiti, degli occhi spalancati degli abitanti. E soprattutto dei commenti delle donne: “Povere ragazze, non si sposeranno mai. Non sanno nemmeno camminare”. Pathé’O ha le lacrime agli occhi dal ridere. Non ha bisogno dell’Europa: il suo posto è l’Africa. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati