A un certo punto Edna Adan si è stancata di dover sempre spiegare da dove viene, dov’è quel paese di cui molti non hanno mai sentito parlare. Così, sul retro dei biglietti da visita, ha fatto stampare una mappa con una scritta in piccolo: “Dove si trova il Somaliland nel mondo?”. Sulla mappa si vede l’Africa e in un riquadro un ingrandimento del Corno d’Africa, con i confini del Somaliland: gli 800 chilometri di costa sul golfo di Aden, le verdi pianure alle spalle del porto di Berbera e la regione arida alla frontiera con la Somalia.

Il paese di Edna Adan viene sempre scambiato con la Somalia ma, sotto molti aspetti, è completamente diverso. “Il semplice fatto che lei sia seduto qui è di per sé una dimostrazione di quanta strada abbiamo fatto”, mi dice Adan quando vado a trovarla nel suo ufficio all’università. In Somalia nessun visitatore europeo può muoversi senza scorta. I jihadisti di Al Shabaab seminano il terrore. Attentati e rapimenti sono all’ordine del giorno.

Edna Adan, 83 anni, è incredibilmente in forma. Dirige l’università a lei intitolata e una clinica ad Hargeisa, la capitale dello stato autoproclamato del Somaliland. Nella città non ci sono baraccopoli né mendicanti, ma casette dai muri bianchi e bougainvillee rosse. In centro moderni complessi di uffici si alternano alle numerose gelaterie. Al mercato le donne vendono gioielli d’oro senza adottare particolari misure di sicurezza. Le ragazze frequentano le palestre a loro riservate, giocano a pallacanestro e vanno a correre. C’è anche un centro culturale, dove si tiene uno degli eventi letterari più importanti dell’Africa, che attira decine di migliaia di visitatori ogni anno.

Ignorati

Alle pareti del piccolo ufficio di Edna Adan sono appese decine di foto che la ritraggono in compagnia di capi di stato e celebrità, come l’ex presidente statunitense Bill Clinton e l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. È stata una delle prime donne del Corno d’Africa a ottenere il diploma da ostetrica, e ha formato a sua volta altre ostetriche. Ha lavorato ai vertici regionali dell’Organizzazione mondiale della sanità. Suo marito, Mohamed Haji Ibrahim Egal, è stato presidente del Somaliland dal 1993 al 2002 e lei è stata ministra degli esteri dal 2003 al 2006. In un piccolo paese, quando si ha la volontà, si possono fare molte cose.

In un angolo del suo ufficio ci sono dei vasetti con delle piantine che spuntano dalla terra. Edna Adan vuole vedere cosa può crescere in Somaliland, cosa si può coltivare in futuro. Come molti suoi connazionali, non ha paura di sperimentare.

La maggior parte delle celebrità ritratte nelle foto non ha mai visitato il Somaliland. “Il mondo ha scelto di ignorarci”, osserva lei. Probabilmente la maggior parte degli abitanti della Terra non ha mai sentito parlare del Somaliland, oppure pensa alla Somalia, tre volte più grande. Ma non sarà anche questa una prova del successo del Somaliland?

Il 31 maggio in Somaliland si sono svolte le elezioni legislative e amministrative, e tutto è filato liscio. In Somalia il presidente Mohamed Abdullahi, detto Farmaajo, ha prolungato arbitrariamente di due anni il suo mandato scatenando una grave crisi politica, e solo dopo settimane di forti tensioni ha abbandonato questo piano e ha incaricato il primo ministro di trovare un accordo con l’opposizione.

Hargeisa, che ha circa un milione di abitanti, è una delle città più sicure dell’Africa. Nella capitale somala Mogadiscio, invece, i miliziani jihadisti terrorizzano la popolazione. In Somaliland vivono cinque milioni di persone, che con la vicina Somalia non vogliono più avere a che fare.

Il 18 maggio 2021 il Somaliland ha celebrato il trentennale della dichiarazione d’indipendenza dalla Somalia. È stata un’occasione per raccontare al resto del mondo una storia a lieto fine, e in Africa capita molto di rado. La storia parla di un paese tra i più poveri del continente, ma anche uno dei più sicuri e pacifici. Un posto che non è controllato da milizie o da politici corrotti, e dove le donne hanno la possibilità di studiare, dove si costruiscono centri commerciali, alberghi e strade.

Il Somaliland è anche un grande esperimento. A differenza di molti altri paesi africani, è stato ignorato. Non solo dai
leader ritratti nelle foto di Edna Adan, ma anche dalle organizzazioni e dalle agenzie internazionali per lo sviluppo. Nel corso degli ultimi decenni non ha ricevuto praticamente nessun sostegno finanziario esterno. Viene da chiedersi: questo stato autoproclamato va bene nonostante siano mancati gli aiuti o proprio per via di questa mancanza?

Hargeisa, Somaliland, 2017 - sven torfinn, panos/luz
Hargeisa, Somaliland, 2017 (sven torfinn, panos/luz)

Per il mondo la repubblica del Somaliland non esiste, anche se ha i suoi confini e la sua moneta, lo scellino. La riconoscono solo Taiwan e la Coca-Cola: la prima – che a sua volta è isolata sulla scena internazionale – ha aperto una rappresentanza diplomatica ad Hargeisa, la seconda un impianto d’imbottigliamento. Il Somaliland può importare tutti i prodotti che vuole, purché paghi. Invece esportare è più difficile, perché deve osservare le regole negoziate a livello internazionale per la Somalia. Per esempio, non può vendere il suo pesce come originario del Somaliland, ma solo con la denominazione d’origine del paese da cui si è staccato.

Nel 2005 il paese ha fatto domanda per entrare nell’Unione africana, ma la richiesta è stata respinta con la motivazione che a quel punto avrebbe potuto entrare chiunque. Molti stati che si sono opposti hanno al loro interno regioni che rivendicano l’indipendenza. Ma di fatto, da nessuna parte la separazione è così forte come in Somaliland.

In tutto il mondo c’è una manciata di questi “non-stati”, che si considerano territori indipendenti benché il resto del mondo li consideri parte di altri paesi. Non possono emettere passaporti né stipulare accordi commerciali. Non possono entrare nell’organizzazione delle Nazioni Unite né partecipare alle Olimpiadi. Il Somaliland vanta belle spiagge e pitture rupestri, ma i turisti non ci vanno perché i governi britannico e statunitense lo considerano alla stregua della Somalia, dov’è fortemente sconsigliato viaggiare.

Senza interferenze

“Qui, come donna, posso muovermi liberamente e in sicurezza, guidare un’auto, dormire con la porta aperta, parlare in pubblico e partecipare a conferenze. Ho un’università con 1.500 iscritti, e il 70 per cento sono ragazze”. Quello che Edna Adan cerca di spiegarmi è che il Somaliland risponde a tutti i requisiti richiesti dall’Unione europea e dall’Onu.

Edna Adan viaggia da decenni in tutto il mondo per sollecitare il riconoscimento del suo paese, ma viene puntualmente delusa. Il rifiuto le fa male

Edna Adan viaggia da decenni in tutto il mondo per sollecitare il riconoscimento del suo paese, ma viene puntualmente delusa. Da una parte questo rifiuto le fa male, dall’altra riconosce che in fondo è stato anche un’opportunità: “Abbiamo potuto svilupparci come volevamo, senza interferenze esterne”.

Da decenni si discute su cosa renda uno stato prospero e stabile. Finora, nel nord del mondo, tutti hanno pensato che le nazioni fragili andassero aiutate con interventi militari, prestiti per miliardi di dollari e aiuti allo sviluppo, e che in cambio i loro governi dovessero indire elezioni democratiche e stipulare accordi commerciali. In Somaliland non è successo niente di tutto ciò.

Atterrando ad Hargeisa, si vedono chilometri di appezzamenti di terreno delimitati da paletti perché sono destinati ad alcuni investitori: un segnale di fiducia nel futuro. All’arrivo in città ci si accorge subito che manca qualcosa: le insegne delle grandi multinazionali. Gli abitanti di qui hanno dovuto creare le proprie stazioni di servizio, banche e marchi di gelato. Hanno reso le mandrie di capre e pecore prodotti destinati all’esportazione di massa: ogni anno vendono ai paesi arabi quasi cinque milioni di capi di bestiame. La rete di telefonia mobile è veloce ed economica, a volte più che in Europa.

Questo paese in via di sviluppo senza aiuti allo sviluppo è diventato un oggetto di studio. Sono anni che si discute dell’utilità degli aiuti occidentali. Nel suo best-seller La carità che uccide (Rizzoli 2010) l’economista zambiana Dambisa Moyo ha scritto: “Gli aiuti sono stati e continuano a essere un disastro politico, economico e umanitario per la maggior parte del mondo in via di sviluppo. Essi portano alla corruzione e al conflitto e ostacolano l’imprenditoria”. Per Moyo gli aiuti allo sviluppo rendono le persone pigre e non le stimolano a prendere l’ini­ziativa.

Molti studi hanno cercato di capire come potrebbero essere i paesi se si sviluppassero economicamente senza aiuti. Come scrive la studiosa statunitense Sarah G. Phillips nel suo libro uscito l’anno scorso _When there was no aid: war and
peace in Somaliland _(Quando non c’erano gli aiuti: guerra e pace in Somaliland), tra il 1991 e il 1997 Hargeisa ha ricevuto appena centomila dollari di aiuti internazionali. Nello stesso periodo la Somalia ne ha ricevuti per miliardi di dollari, senza tenere conto di quanto sono costati gli interventi militari, le missioni di pace, i piani di sviluppo e l’organizzazione delle elezioni. Questo non ha impedito che in Somalia tra il 1997 e il 2018 più di 25mila persone morissero a causa del terrorismo e dei conflitti tra clan. In Somaliland le vittime sono state solo trecento.

“Il nostro è il paese di cui nessuno ha mai sentito parlare”, dice Mustafa Ismail, 65 anni, ex ambasciatore del Somaliland in Germania. Attualmente è in visita ad Hargeisa. In altri paesi africani, diplomatici e operatori umanitari se ne stanno a bordo piscina negli alberghi di lusso. Ma l’hotel Maansoor non ha la piscina. È stato costruito in un’epoca in cui andavano ancora le vetrate e le travi dipinte color oro. Davanti all’albergo la pavimentazione in cemento è interrotta da spalliere per rampicanti e le sedie di plastica sono usate tutti i giorni dagli stessi ospiti, esclusivamente uomini. Mustafa Ismail di solito si mette all’ombra.

Da giovane ha studiato a Gottinga, in Germania, e ora in perfetto tedesco mi rimprovera di non indossare una camicia stirata. Me ne fa portare una dalla sua camera. Ad Hargeisa gli uomini devono avere la camicia stirata: le lavanderie sono numerose quasi quanto le gelaterie.

E allora, gli chiedo, come spiega il successo del Somaliland? “Con il fatto che all’epoca”, risponde, “ci lasciarono in pace”. Ma per capire cosa intende con “all’epoca”, bisogna ripassare la storia fin dal periodo coloniale. Quando nacque Ismail, nel 1956, gli imperi coloniali in Africa stavano tramontando. Le zone di insediamento della popolazione di etnia somala andavano dall’Etiopia, dove Ismail è nato, all’allora colonia francese di Gibuti, al Somaliland britannico e alla Somalia italiana. Dopo l’indipendenza, la Somalia italiana e il Somaliland si unirono all’insegna del sogno pansomalo, che però diventò ben presto un incubo. Da Mogadiscio il dittatore Siad Barre fece bombardare le postazioni del Movimento nazionale somalo, che guidava la ribellione indipendentista del Somaliland. Morirono decine di migliaia di persone e altre centinaia di migliaia fuggirono all’estero. I ribelli continuarono a combattere e nel 1991 proclamarono l’indipendenza del loro territorio dalla Somalia.

Non bisogna farsi illusioni: molti problemi sono meno urgenti che nei paesi vicini, ma questo non significa che sono stati risolti

In Africa non mancano gli esempi di movimenti di liberazione che ottengono la vittoria. Ce ne sono a decine. Ma molto spesso dopo la vittoria nascono nuovi movimenti oppressivi, con gli ex ribelli che, una volta conquistato il potere, non sono più disposti a cederlo e ci si attaccano in ogni modo, anche ricorrendo alla corruzione. Gli abitanti di paesi come lo Zimbabwe, l’Uganda e l’Angola aspettano ancora la libertà che gli era stata promessa. In Somaliland “il movimento di liberazione si dissolse”, risponde Mustafa Ismail. L’ex ambasciatore fa una faccia soddisfatta e prosegue: “Gli aiuti allo sviluppo andarono tutti alla Somalia per rivitalizzare lo stato. Ma i soldi per la ricostruzione li presero i signori della guerra”. E al Somaliland non rimase nulla da spartirsi.

Democrazia imperfetta

Mentre l’Onu proponeva a Mogadiscio i suoi piani di democratizzazione, il Somaliland sceglieva la strada della tradizione per muoversi verso il futuro. Fu organizzata, racconta l’ex ambasciatore, una classica conferenza di pace, a cui furono invitati tutti gli anziani dei diversi clan. Nel 1991 si riunirono in una piccola località vicino ad Hargeisa, senza prefiggersi delle scadenze inderogabili, ma decisi a risolvere tutti i conflitti. Non c’erano donatori né organismi internazionali a dettare una costituzione o elezioni democratiche. Non c’erano neanche tavoli e sedie, quindi si sedettero per terra e discussero fino a trovare una soluzione.

Il Somaliland non è ancora una democrazia, perché una delle camere del parlamento non è eletta ma nominata dagli anziani dei clan. A differenza della caotica Somalia, però, il paese ha un efficiente sistema di bilanciamento degli interessi. Il presidente e i rappresentanti dell’altra camera sono eletti dai cittadini.

Quando Ismail fu inviato come ambasciatore in Germania, aveva il compito di incontrare i membri della commissione per gli affari esteri tedesca e sollecitare il riconoscimento del suo paese. Ma soprattutto doveva pensare alla diaspora. Ventimila suoi connazionali vivono in Germania. Altre centinaia di migliaia nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Il Somaliland non è solo nei pensieri di queste persone, osserva Ismail: è una preoccupazione costante.

Il sostegno finanziario che il Somaliland non ha ricevuto dalle organizzazioni internazionali l’ha ottenuto dai milioni di connazionali scappati all’estero prima della guerra. Dato che il paese è escluso dal sistema bancario internazionale, uno di loro ha inventato un servizio per il trasferimenti di denaro, Worldremit. Oggi l’azienda ha più di mille dipendenti ed è una delle più grandi del suo settore.

“Qui un uomo d’affari è un vero uomo d’affari, uno che fa investimenti che rendono, e non solo uno bravo a farsi aiutare dagli stranieri”, dice Ismail. “Anche i soldi per la costruzione di quest’albergo sono venuti dalla diaspora, non dall’Onu. Così si crea un rapporto tutto diverso con i progetti”, dice Ismail. La mancanza del senso di responsabilità, di essere parte in causa in un progetto, è uno dei problemi centrali degli aiuti allo sviluppo. Un tipico esempio, che si vede dappertutto in Africa, è il trattore arrugginito abbandonato in un fosso. Generalmente è stato pagato con fondi provenienti dall’Europa, ma poi nessuno se n’è preso cura finché non si è rotto. Il motivo è che quel trattore non apparteneva a nessuno. In Somaliland si può affittare un trattore per dieci dollari al giorno da piccoli imprenditori che hanno lanciato quest’attività.

Gli ultimi trent’anni sono stati un successo, dice Ismail. Il paese ha istituzioni funzionanti e un sistema di tassazione che, anche nel 2020, nonostante la pandemia, ha consentito un aumento delle entrate grazie ai dazi doganali e all’imposta sul valore aggiunto.

Tuttavia, osserva, la diaspora si sta allontanando. Le rimesse sono in calo perché i giovani, nati all’estero, non s’identificano più con la patria dei loro antenati e con l’arretratezza di alcuni somalilandesi che in alcuni casi, per esempio, praticano ancora le mutilazioni genitali. Al paese comincia a mancare il denaro che in tutti questi anni gli ha permesso di tirare avanti. Un terzo del pil è legato alle rimesse dall’estero, che nel 2020 hanno raggiunto gli 800 milioni di dollari. Chi interverrà quando questa fonte di entrate si prosciugherà? Come andrà a finire questo esperimento sorprendente?

Non bisogna farsi illusioni: molti problemi sono meno urgenti che nei paesi vicini, ma questo non significa che sono stati risolti. “Lo stato è debole e difficilmente può intraprendere programmi di sviluppo”, dice Ismail. Il prodotto interno lordo, pur essendo aumentato dagli 1,8 miliardi di dollari del 2012 ai 2,2 miliardi del 2018, è tra i più bassi del mondo. Il Somaliland resta un paese povero e ripetutamente colpito da siccità devastanti. Nel 2018 il pil pro capite era di soli 566 dollari, e per il 2021 il bilancio dello stato ammonta ad appena 332 milioni di dollari, meno di quello di Ulm, una città di 125mila abitanti nel sud della Germania.

Un cambiavalute ad Hargeisa, 2018 - tommy trenchard, panos/luz
Un cambiavalute ad Hargeisa, 2018 (tommy trenchard, panos/luz)

Un esempio: ad Hargeisa operano una decina di aziende elettriche, che non hanno infrastrutture in comune. Ognuna attacca i suoi cavi ai tralicci della corrente, che rischiano di crollare sotto il carico eccessivo. Di recente i gestori hanno accettato di collaborare e hanno sostituito con pannelli solari i generatori diesel che si sentono ronzare in tutta la città. “Da noi l’elettricità ha il prezzo più alto del mondo”, dice Ismail. Molte aziende manifatturiere hanno chiuso perché la corrente costa troppo. E sono venuti a mancare posti di lavoro.

“Abbiamo bisogno di lavorare”, dicono i giovani che s’incontrano ovunque nelle gelaterie e nei nuovi bar. La loro generazione non ha vissuto la guerra o non se la ricorda. La disoccupazione giovanile è al 70 per cento, in parte perché i ragazzi non vogliono più lavorare nei campi. Non pensano a come vivevano i loro genitori o a come se la passano in Somalia, ma guardano ad altre parti del mondo. Vogliono studiare e nel migliore dei casi ottengono borse di studio per l’estero. Ma non possono spostarsi facilmente perché non hanno il passaporto. Se vogliono andare in Germania o negli Stati Uniti, devono procurarsi un passaporto somalo. Vogliono uscire da questo laboratorio, da questa specie di isola. Tutti quelli che incontri in Somaliland ti dicono che prima o poi il loro paese dovrà essere più collegato al resto del mondo, e solo così potrà crescere. Resta da capire come.

Gli annunci sui cartelli

In realtà un po’ di denaro nel paese sta arrivando: finalmente vengono versati degli aiuti allo sviluppo. E come ne beneficiano i somalilandesi? Nel 2019 la Svezia, gli Stati Uniti, la Germania e altri paesi hanno donato 222 milioni di dollari (il 10 per cento circa degli 1,9 miliardi arrivati in Somalia). E dovrebbero aumentare, ora che la Danimarca e la Norvegia hanno annunciato di voler costruire strade e ponti.

Uscendo da Hargeisa in direzione delle campagne si vedono ovunque i cartelli di organizzazioni come la Società tedesca per la cooperazione internazionale (Giz) o il Norwegian refugee council. Dai rapporti risulta che in una piccola scuola del villaggio di Salahlay quattro organizzazioni umanitarie hanno costruito due aule. “Ogni volta che installano un pannello solare mettono un cartello”, commenta un abitante del posto. Intanto la serra costruita dalla Giz e il muretto davanti all’ospedale, anche questo finanziato dalla Germania, sono già crollati. Dietro la scuola, con i pali dei cartelli hanno costruito una specie di cucina da campo. Ma si sente anche parlare di ong che costruiscono pozzi e insegnano ai contadini nuovi metodi di coltivazione, cosa che lo stato non ha ancora fatto, e forse non farà mai. La popolazione spera che questi aiuti continuino ad arrivare. Forse il punto non è se siano utili, ma di che genere di aiuti si tratta.

Il direttore della Fiera internazionale del libro di Hargeisa si chiama Jama Musse Jama e ha 53 anni. Ci racconta di quando dagli Stati Uniti è arrivato un container pieno di donazioni, tra cui 52 copie di una guida per affrontare l’alcolismo. Nel Somaliland, che è un paese arido e musulmano, il problema è quasi inesistente. È una dimostrazione di come sia ancora il nord del mondo a decidere cosa serve all’Africa, proprio come ai tempi del colonialismo. “Ci offrono cose di cui non abbiamo bisogno”, dice Jama. “Ma noi vorremmo decidere da soli cosa ricevere”.

Elezioni
Il voto ai quindicenni

Il 31 maggio 2021, dopo sedici anni, 1,1 milioni di abitanti del Somaliland sono stati chiamati alle urne per eleggere gli 82 deputati di una delle camere del parlamento (l’altra, il Guurti, è composta da delegati dei clan) e i consigli municipali. Dopo la pubblicazione dei risultati i due partiti all’opposizione, Wadani e Ucid, hanno annunciato che si sarebbero alleati, rompendo il dominio del Kulmiye, la formazione al potere. La costituzione del Somaliland limita a tre il numero dei partiti politici.

Il voto si è svolto nella calma, con fiducia e partecipazione, raccontano gli osservatori del centro studi sudafricano The Brenthurst foundation in un articolo sul Daily Maverick, in cui elencano debolezze e punti di forza del sistema politico locale. “Alcuni fanno notare che la democrazia in Somaliland è facilitata dal dominio di un singolo clan, quello degli Isaaq, una situazione molto diversa da quella della Somalia dove i clan che competono per il potere sono almeno quattro. Ma questa considerazione non tiene conto delle divergenze tra i sottoclan e trascura la violenza che ha accompagnato il processo di nascita della nazione e l’enorme sforzo fatto per lasciarsela alle spalle. Il Somaliland deve affrontare i problemi legati al consolidamento della democrazia: alcuni eletti sono rimasti in carica ben oltre il loro mandato a causa del rinvio delle legislative, mentre i giornalisti non sono liberi e subiscono le pressioni delle autorità. I clan più piccoli sono emarginati politicamente ed economicamente, mentre la violenza contro le donne è ancora un problema serio in una società patriarcale”.

Al voto del 31 maggio hanno partecipato tutti i cittadini maggiori di quindici anni: “Permettere a ragazzi così giovani di votare può sembrare un modo cinico per rubare voti, ma in realtà è un modo per coinvolgere e tenere lontano dalla radicalizzazione una fetta ampia della popolazione: in Somaliland il 70 per cento dei cinque milioni di abitanti ha meno di trent’anni. E per questi giovani la democrazia è uno strumento per diluire il dominio dei clan sulla società”. ◆


Decidere da soli significa anche poter sempre scegliere l’offerta migliore, osserva Saleebaan Yuusuf Cali Koore, ministro dell’informazione. Siede sul divano del suo ufficio e indossa un completo rosso brillante. Porta il titolo aggiuntivo di responsabile della “direzione nazionale” ma non sembra preoccuparsi troppo di questo compito. “Siamo in una posizione strategica: ci sono paesi che hanno bisogno di noi”. Davvero? Da Hargeisa sono passate molte delegazioni provenienti dalla Cina e dai paesi arabi. La sua idea è che il paese potrebbe scegliere tra le offerte dell’occidente e quelle dell’oriente: “Non vogliamo elemosine. Vogliamo condizioni eque”.

Se il Somaliland fosse un paese come gli altri, potrebbe stipulare accordi commerciali, aprire le porte alle banche internazionali, ottenere credito dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. Se non ha debiti, è perché nessuno gli ha mai concesso un prestito. Ma nessun paese può compiere un grande balzo in avanti senza prendere in prestito i soldi necessari a finanziare i suoi progetti. Quindi anche il Somaliland ha bisogno di investimenti dall’estero.

La strada per Berbera esce dalla capitale e punta verso il territorio dei nomadi, che vivono in semplici capanne fatte di telai di legno intrecciato e lasciano le greggi di pecore e capre libere di brucare la terra arida. Questo percorso che costeggia il mare era chiamato “strada degli elefanti”, perché prima dell’arrivo dei colonizzatori britannici ce n’erano tanti. Ma la caccia incontrollata ha finito per farli sparire da questa parte dell’Africa.

Oggi l’ex residenza estiva del governatore di Berbera ospita un istituto professionale di edilizia ed elettrotecnica, che l’ambasciatore Ismail ha fondato grazie agli aiuti della Germania. Durante la guerra fredda il porto di Berbera era una base navale sovietica; poi è passato agli Stati Uniti. Oggi, grazie agli investimenti degli Emirati Arabi Uniti, pari a quasi mezzo miliardo di dollari, si sta trasformando in un terminal ultramoderno. Proprio nei giorni della nostra visita era arrivata dalla Cina l’ultima consegna di gru per container.

Si lavora per costruire una strada che colleghi il porto di Berbera alla vicina Etiopia, un paese di cento milioni di abitanti che non ha sbocchi sul mare. Un investimento che incontra il consenso di molte persone del posto. “L’accordo è equo: il porto tornerà al Somaliland fra trent’anni”, spiega il direttore del porto, Said Hassan Abdillahi, 45 anni, che gira con gli occhiali da sole sempre indosso.

Abdillahi ci porta a fare il giro delle infrastrutture portuali, con i nuovi bacini realizzati per le acque profonde e le gru giganti. Quando tutto sarà pronto, ogni giorno 1.300 camion percorreranno la nuova strada che porta in Etiopia. Già oggi il porto contribuisce al 60 per cento del bilancio del Somaliland, e ci si aspetta che in futuro questa percentuale aumenti. E comunque, dice Abdillahi, il nuovo terminal di Berbera è soprattutto un simbolo. Mostra a tutti che il Somaliland è collegato al resto del mondo. Che lo si voglia o no. ◆ ma

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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati