Il presidente congolese Félix Tshisekedi ha i giorni contati? È quello che bisogna chiedersi dopo la rapida avanzata del Movimento 23 marzo (M23) nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). I ribelli, che alla fine di gennaio hanno conquistato la città di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, il 16 febbraio hanno preso il controllo di Bukavu, capoluogo del Sud Kivu. Un fatto che conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che le truppe congolesi non sono in grado di resistere. Allo stesso tempo l’M23 e il governo del Ruanda che lo finanzia restano insensibili alle condanne di principio e agli appelli per un cessate il fuoco lanciati, senza troppa convinzione, dalla comunità internazionale.

C’è un che di paradossale nel possibile esito dell’ultimo conflitto nella Rdc. Fino a poche settimane fa Tshisekedi tentava di modificare la costituzione per garantirsi un terzo mandato, ma forse non riuscirà a concludere nemmeno il secondo. La sua possibile caduta non è più una semplice ipotesi. Certo, dall’est del paese, dove si concentrano i combattimenti, alla capitale Kinshasa la strada è lunga, ma la facilità con cui i ribelli hanno preso il controllo di due importanti province deve preoccupare le autorità nazionali. Da mesi gli osservatori avvertono che i soldati congolesi, disorganizzati, mal equipaggiati e per niente motivati, non sono in grado di affrontare la sfida rappresentata dai miliziani che godono del sostegno attivo del Ruanda. Anche se Tshisekedi fingesse di ignorare questa realtà – come durante l’ultima campagna elettorale, quando aveva minacciato di arrivare con le sue truppe a Kigali – d’ora in poi sappiamo cosa aspettarci. Le truppe congolesi non sono le uniche responsabili della situazione: non sono serviti a molto neanche i soldati del Burundi, del Sudafrica, della Tanzania, del Malawi e la folla di mercenari impegnati nella zona contro l’M23.

Appelli inascoltati

Neanche dal fronte diplomatico arrivano reazioni. Le proteste di Tshisekedi restano inascoltate: all’Onu, alla Comunità degli stati dell’Africa orientale, alla Comunità di sviluppo dell’Africa australe e all’Unione africana nessuno osa citare il nome del Ruanda come paese aggressore. Per questo le tante richieste di Kinshasa sull’adozione di sanzioni mirate contro il paese vicino restano una pia illusione. Solo il Regno Unito e la Francia, dopo la caduta di Bukavu, hanno azzardato un appello al Ruanda a ritirarsi dalle zone che ha contribuito a occupare.

Nel momento attuale l’M23 non incontrerebbe grandi ostacoli sulla sua strada se decidesse di muovere alla conquista di Kinshasa. Due persone in particolare potrebbero volere la caduta di Tshisekedi. Corneille Nangaa, l’ex presidente della commissione elettorale e oggi leader dell’Alleanza fiume Congo (Afc), ce l’ha con il presidente congolese perché lo accusa di averlo tradito dopo che l’aveva aiutato a prendere il potere (certificando la vittoria di Tshisekedi alle presidenziali contestate del dicembre 2018). Anche il presidente ruandese Paul Kagame, patrono della ribellione, sarebbe contento di poter insediare un suo uomo alla guida della Rdc.

Una terza persona che potrebbe accarezzare lo stesso sogno è Joseph Kabila, l’ex presidente della Rdc: anche lui accusa Tshisekedi di non aver tenuto fede a un accordo che i due avrebbero concluso alle spalle del candidato dell’opposizione Martin Fayulu (cioè un accordo per gestire insieme il potere in cambio della vittoria di Tshisekedi). Ce n’è abbastanza per pensare che il presidente congolese dovrà fare i conti con il karma. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati