Quando Waldir Maqque aveva dodici anni, suo padre portò a casa un vecchio e pesante televisore che a Viacha, un villaggio nella zona di Cuzco a più di 3.700 metri di altitudine, prendeva al massimo un paio di canali. Maqque aveva appena imparato lo spagnolo e, anche se con i genitori contadini parlava ancora in quechua (come otto milioni di persone tra Ecuador, Perù e Bolivia), la nuova lingua gli era utile, perché era quella che si sentiva in tv. Le mattine le passava a scuola e aspettava la sera o il fine settimana per i suoi programmi preferiti, i reportage culturali: all’ora di cena si piazzava davanti allo schermo con i genitori e i fratelli e li guardavano insieme sdraiati sul letto, fino ad addormentarsi.
“Ora non lo facciamo più”, dice Maqque, che ha 27 anni. “Ma in compenso usiamo il telefono”. Due volte alla settimana il ragazzo carica brevi video girati mentre cucina piatti della tradizione peruviana, come il pollo alla brace, ricette regionali, come la torta di amido di patate e le empanadas, o internazionali: la ratatouille o il sushi. Ha più di 800mila follower su Instagram e circa quattro milioni su TikTok. I video – in cui cucina su un fuoco a legna con pentole di terracotta, con il panorama della Valle Sacra sullo sfondo – lo hanno reso inaspettatamente famoso nel suo paese. Negli ultimi due anni gli hanno fatto vincere diversi premi per i suoi video e collaborare con personaggi celebri, come lo chef Virgilio Martínez e il cantante colombiano Camilo. Maqque ha anche investito in un’attività (un ristorante nella città di Calca) e poi ha cominciato a fare l’influencer a tempo pieno.
Il suo caso non è isolato. In Perù Alessandra Yupanqui (240mila follower su TikTok), Soledad Secca (438mila) e Deysi Aldava (388mila) sono solo alcune delle giovani andine che negli ultimi quattro anni sono diventate delle celebrità su internet. Un successo simile l’hanno raggiunto, per esempio, la cilena Sofy Waikil (193mila follower), la boliviana Albertina Sacaca (8,3 milioni di follower) e i colombiani Los Escachaítos (nove milioni di follower).
La loro fama è indicativa di un cambiamento radicale nella regione: se dieci anni fa i latinoamericani che usavano internet erano meno della metà del totale, oggi sono più del 75 per cento. Questa crescita, che riguarda soprattutto le aree rurali, ha creato un nuovo mercato intorno a settori che in passato erano trascurati dai mezzi d’informazione tradizionali. Video dopo video, personaggi come Maqque stanno creando un’immagine commerciale delle Ande e la stanno diffondendo nei loro paesi e nel mondo.
Cultura e cucina
Quando Maqque era adolescente, uno dei suoi programmi preferiti era Con sabor a Perú, che parlava di cultura e cucina. Andava in onda nel fine settimana, “ma non facevano mai vedere la vita rurale o come si cucinava in campagna”, aggiunge. Raramente mostravano i piatti che lui mangiava di solito.
Le sue parole non devono stupire: in Perù i mezzi di comunicazione tradizionali hanno sempre ignorato le comunità indigene. Se le Ande apparivano in televisione, era attraverso la lente deformante del razzismo. Per molti anni il cholo (il peruviano andino e indigeno, che parla quechua) è stato il bersaglio di battute e barzellette. In tv il cholo e la chola (di solito un uomo travestito da donna) erano caricature grottesche, volgari o servili, sdentate, con la faccia sudicia e a volte brutalmente violente.
Con l’eccezione dei reportage culturali e delle notizie economiche, che dipingevano le Ande come il paradiso dei microimprenditori, la regione era raccontata esclusivamente attraverso stereotipi. Come spiega Américo Mendoza Mori, esperto di storia indigena dell’università di Harvard, negli Stati Uniti, il prestigio sociale era appannaggio dei bianchi di Lima, la capitale. Negli ultimi dieci anni ci sono stati alcuni progressi, come la messa al bando a Cuzco della Paisana Jacinta, una discussa commedia che ripropone i soliti cliché offensivi. La situazione, però, non è cambiata molto. “È difficile accettarlo”, dice Mendoza Mori, “ma in tv non ci sono cognomi né accenti indigeni”.
A essere profondamente diverso, invece, è il rapporto con la tecnologia: i peruviani stanno gradualmente smettendo di guardare la televisione. Il numero di famiglie che hanno accesso alla tv è rimasto invariato nell’ultimo decennio; tuttavia, secondo l’istituto nazionale di statistica, se prima della pandemia il 38 per cento di loro aveva accesso alla tv via cavo, nell’ultimo anno la percentuale è scesa al 31,4. Lo stesso sondaggio indica che due anni fa lo smartphone ha soppiantato la tv come dispositivo più usato. Il fenomeno ha interessato soprattutto le famiglie rurali: nel 2012 solo lo 0,8 per cento di loro si collegava a internet; nel 2022 la percentuale era salita a più del 20 per cento.
“In Perù abbiamo saltato a piè pari certe tecnologie”, spiega Mendoza Mori. “Prima della pandemia in molte zone non c’erano computer e, se c’erano, mancava la corrente elettrica”. Quest’isolamento forzato ha accelerato “l’adozione di sistemi di pagamento elettronico, la copertura della rete mobile e l’impiego dei cellulari”. In parte è successo perché molti peruviani (almeno un milione e mezzo) dipendevano dai telefonini per accedere a servizi di base come l’istruzione. Poche famiglie avevano un portatile o una connessione stabile per le videochiamate, quindi, ai tempi della pandemia, i materiali didattici venivano inviati via WhatsApp, rendendo gli smartphone indispensabili per gli studenti.
Per Mendoza Mori, quest’accelerazione ha avvicinato molti giovani ai social media. Come ha scritto nel 2023, la pandemia ha spinto alcuni creatori indigeni di contenuti digitali a offrire contenuti nuovi. E ha contribuito a creare un pubblico diverso, ampio e che voleva vedersi rappresentato sullo schermo.
La pandemia ha spinto alcuni creatori indigeni a offrire contenuti nuovi. E ha dato vita a un pubblico ampio e che voleva vedersi rappresentato
Maqque ha vissuto il cambiamento sia da spettatore sia da creatore di contenuti. Durante il lockdown, la sorella gli aveva regalato un telefono – un Huawei Y9 con una potente fotocamera – con cui si era messo a guardare e a registrare brevi video. All’epoca faceva il cuoco, aveva cominciato dopo la fine della scuola superiore. Contemporaneamente aveva fondato una piccola attività, per offrire “un’esperienza della vera vita in campagna”. E aveva una teoria: molte imprese non hanno successo perché non hanno un’immagine che le identifichi. “Per questo ho aperto un canale con il mio nome e il mio personaggio”, racconta Maqque. Ha pubblicato il suo primo video, in cui mastica un fascio di fieno abbracciato a una coppia di lama, nell’agosto 2021 su Instagram. Il mese successivo ha scaricato TikTok e l’ha studiato attentamente. “Ho fatto varie ricerche sul tipo di materiali che avrei potuto creare. E ho scoperto che molti giravano video di cucina: El Tío Lenguado, Robe Grill, i miei amici di A Comer, e poi Chef en proceso”. Erano contenuti che gli piacevano. Finché ha capito che poteva fare qualcosa di unico, di diverso: raccontare la sua regione dall’interno.
Così ha cominciato a postare video e foto nei giorni liberi per promuovere la sua attività. Alla fine del 2021 una nota influencer è andata a trovarlo e gli ha insegnato a usare InShot, un’applicazione per l’editing video, e gli ha suggerito di interagire con il pubblico attraverso i commenti. Il primo video che Maqque ha pubblicato è subito diventato virale. “Ho capito che c’era chi amava la campagna e i prodotti raccolti e cucinati sul momento”, dice. “Da allora non mi sono più fermato”.
Nessuna novità
Alessandra Yupanqui è esplosa online alla fine del 2021, quando uno dei suoi reel su Instagram ha fatto più di un milione di visualizzazioni. Nel video la ventiseienne di Lima racconta di come la sua famiglia avesse nascosto il vero cognome per due generazioni, perché si vergognava delle origini quechua. Oggi Yupanqui vive a Cuzco e crea contenuti sull’identità e la storia andina. Ha quasi mezzo milione di follower su Instagram e TikTok. Inizialmente lavorava da sola, ma negli ultimi mesi ha messo su un team: ora ha un collaboratore, un editor, un cameraman, un agente e a volte si avvale anche di un traduttore dallo spagnolo al quechua. Il suoi prodotti sono estremamente curati, con un’attenzione ai dettagli e un’estetica che non si ritrovano negli altri influencer.
Per Yupanqui è un aspetto essenziale. “Cerchiamo sempre di fare riprese di ottima qualità: ci sono molti pregiudizi sul mondo andino, e io invece voglio raccontarlo con uno stile raffinato”, dice. “Siamo stati educati così: ci hanno detto che nelle Ande la modernità non era arrivata. Ma perché cucinare su una pietra dev’essere meno affascinante di una grigliata nel giardino di casa?”.
Yupanqui si muove tra i vari aspetti della cultura delle Ande con la stessa fluidità con cui usa il linguaggio di internet. Per alcuni il contrasto tra l’enfasi sulle radici indigene e l’estetica molto curata è fuorviante. Altri, come l’accademico Nino Bariola e lo scrittore Marco Avilés, ci vedono invece qualcosa di più profondo.
Per Bariola, ricercatore dell’università di Toronto, in Canada, parte del successo di questi influencer “è legato all’autenticità che viene percepita in quello che propongono”.
Avilés spiega che le piattaforme digitali “impongono un approccio commerciale a chi ha molto seguito, bisogna sempre vendere o promuovere qualcosa”. Ma poi sottolinea che questi giovani operano in un contesto “pieno di immagini coloniali prestabilite di come dovrebbe essere un indigeno: un povero che vive in campagna e indossa abiti tradizionali”. Spesso le critiche, “perché si è indigeni o perché non lo si è abbastanza”, “dipendono da una certa idea di ‘purezza’ usata per esercitare il controllo” sulle persone andine.
Sfidando vecchi stereotipi sulle Ande, “questi influencer fanno politica, senza i partiti”. Secondo Avilés, quando sono chiamati a esprimersi su determinate questioni – come i morti causati dalla violenza della polizia durante le proteste seguite al golpe del presidente Pedro Castillo e alla sua destituzione, alla fine del 2022 – “dovrebbero poter rispondere”. Tuttavia, Lo scrittore sottolinea anche che c’è un doppio standard: “Agli artisti bianchi e creoli non si chiede di prendere posizione nello stesso modo”.
La proposta degli influencer andini è originale, ma non necessariamente nuova, continua Avilés. Gli abitanti delle Ande “producono contenuti e arte da sempre. La novità è che ora se ne stanno accorgendo anche nelle città e al governo”.
“Queste cose succedevano anche prima”, conclude Bariola, “ma non ce ne rendevamo conto”.
Un luogo d’incontro
Jackeline Zavaleta è nata a Trujillo, capitale della regione settentrionale della Libertad, e a sedici anni si è trasferita a Lima per studiare medicina. Qualche anno fa si è imbattuta nei video di Maqque, che l’hanno spinta a riflettere sulla sua infanzia: da bambina anche la sua famiglia allevava porcellini d’India, anatre e conigli nel cortile di casa. “Non avevo mai visto nulla di simile”, dice. “Sentivo che erano contenuti unici”.
Alcuni mesi dopo aver scoperto Maqque, Zavaleta ha guardato la conferenza Ted di Alessandra Yupanqui sulle difficoltà che sua nonna aveva dovuto affrontare quando era emigrata da Cusco a Lima. Vedendo quel video, racconta, “ho pianto, perché mi sono ricordata di mia madre”. Per Zavaleta i video dei creatori di contenuti digitali come Yupanqui servono a dimostrare che chi vive sulle Ande “indossa abiti tradizionali, ma poi usa cellulari, guarda serie tv, ascolta musica, ha affetti e preferenze, studia, lavora. Insomma, fa le stesse cose di chi vive a Lima”.
In Perù, dove il patrimonio indigeno è stato soffocato per cinquant’anni, Yupanqui è convinta che far conoscere la diversità delle esperienze andine sia fondamentale. “Molte persone si uniscono al movimento e dicono con orgoglio: ‘Anche mia nonna viene da una comunità andina, è amazzonica, è mapuche!’”. Le sezioni dei commenti sono spazi di incontro e confronto per la gente di origine indigena, dove celebrare storie familiari o riflettere sull’impatto del razzismo.
A volte i video sono puro intrattenimento. Alejandro Veramendi, diciassette anni, di Lima, guarda quelli di Maqque da più di un anno. “Mi piace la sua originalità, le sue frasi uniche”, dice. Tra i video di sport e videogiochi selezionati dall’algoritmo di Instagram, a volte si ferma sui filmati di cucina dell’influencer andino. Stenta a credere che sia di Cuzco, pensava che fosse di qualche altra nazione latinoamericana.
Questi giovani influencer peruviani, come quelli boliviani, cileni o colombiani, sono all’apice della carriera. Hanno un pubblico che va oltre i confini dei loro paesi, come conferma uno sguardo alle sezioni dei commenti, dove ricevono saluti da Panamá, dagli Stati Uniti o dalla Francia. Ma sono tutti impegnati anche in altre iniziative: Maqque ha un’attività imprenditoriale e Yupanqui gestisce una piattaforma educativa chiamata Sapiens. Entrambi hanno collaborato con marchi famosi, ma si rifiutano di rivelare quanto guadagnano. Mentre Yupanqui lavora ancora nel settore marketing di un’azienda alimentare, Maqque ha lasciato il suo lavoro di cuoco più di un anno fa. “La cucina per me è stata sempre un ambiente familiare”, ammette. Ma da bambino non sognava di diventare uno chef. In quegli anni, prima dell’arrivo della tv, voleva fare la guida turistica. “Vivere di cultura”, dice.
A modo suo ci è riuscito. Yupanqui sta valutando un futuro nel mondo degli affari. Maqque, invece, vuole restare sui social media. “Al momento non ho intenzione di lasciare internet. Ho diversi progetti a cui sto lavorando. Waldir resterà in giro ancora per un bel po’”. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1573 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati