“Abbiamo grandi progetti per il futuro!”, ha twittato il primo ministro ungherese Viktor Orbán dopo una telefonata con Donald Trump a poche ore dalla fine delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Dall’Argentina a Israele fino al Regno Unito, la vittoria di Trump ha mandato in estasi i leader dell’estrema destra. La presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni ha ricordato che il suo paese e gli Stati Uniti sono legati da “un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia”. In realtà, le congratulazioni a Trump sono arrivate da politici di tutti gli schieramenti. “Guardo con fiducia alla nostra stretta collaborazione e agli interessi comuni tra gli Stati Uniti e i Paesi Bassi”, ha detto Dick Schoof, leader della coalizione di governo olandese, dominata dall’estrema destra. “In quanto primi alleati degli Stati Uniti, rimaniamo uniti a difesa dei nostri valori condivisi di libertà, democrazia e impresa”, ha aggiunto il primo ministro britannico Keir Starmer, laburista.

L’anno delle elezioni

Senza dubbio il 2024 è stato un anno eccellente per l’estrema destra, pessimo per i governi in carica e complicato per la democrazia in tutto il mondo. Alla fine, però, non sarà peggio del 2016, l’annus horribilis che portò la Brexit e la prima vittoria di Trump. Il motivo è tanto semplice quanto deprimente: come ho spiegato nel libro The far right today (L’estrema destra oggi), l’estrema destra ha avviato ormai da molti anni un percorso di moderazione e normalizzazione. Quello appena finito non è stato un anno di trasformazione politica, ma il frutto dei cambiamenti cominciati all’inizio del secolo. È solo che non ci avevamo fatto caso.

Il 2024 è stato definito “l’anno delle elezioni”. Circa settanta paesi e quasi due miliardi di persone sono andati a votare. Tuttavia, non sempre queste elezioni sono state libere e regolari. Molte volte il voto – nell’Unione europea, in India e negli Stati Uniti – ha premiato l’estrema destra. E i mezzi d’informazione di tutto il mondo si sono interrogati sulla sorte della democrazia.

In un giudizio sorprendentemente ottimistico – elaborato prima, va detto, delle elezioni negli Stati Uniti – l’Economist aveva concluso: “La democrazia si è dimostrata ragionevolmente resistente nei circa quaranta paesi in cui le elezioni sono state libere, con una buona affluenza alle urne, poche manipolazioni e violenze, e dimostrazioni di buonsenso dei governi in carica”. Questo giudizio però era accompagnato da un avvertimento in vista delle presidenziali statunitensi: “Tuttavia, ci sono segnali di nuovi pericoli, tra cui l’ascesa di una nuova generazione di leader autoritari innovativi e tecnologici, la frammentazione dell’elettorato e la presenza di leader sconfitti che cercheranno di continuare a governare dalla loro tomba politica”.

Ci sono molti modi di intendere la distinzione tra destra e sinistra: io tendo a definire le ideologie di destra come quelle che considerano le diseguaglianze sociali giuste o naturali e pensano che lo stato non debba fare nulla per creare società più ugualitarie. All’interno di questo ampio gruppo, la destra moderata sostiene le istituzioni fondamentali e i valori della democrazia liberale. L’estrema destra no. Alla sua radice ci sono il nativismo, una forma xenofoba di nazionalismo, e l’autoritarismo, cioè il culto dell’ordine e della disciplina.

Il presidente argentino Javier Milei. Buenos Aires, Argentina, 4 dicembre 2024 (Magali Druscovich, The New York Times/Contrasto)

La sua corrente più estremista rifiuta del tutto la democrazia – cioè l’idea che i cittadini eleggano il loro leader a maggioranza – mentre la destra radicale si oppone solo ad alcuni elementi della democrazia liberale, in particolare ai diritti delle minoranze e alla separazione dei poteri. Negli ultimi anni, tuttavia, una parte di questo gruppo si è ulteriormente radicalizzata, per esempio attaccando le istituzioni democratiche (come ha fatto il primo ministro Viktor Orbán in Ungheria) oppure rifiutando l’esito delle elezioni (come Donald Trump negli Stati Uniti), pur senza arrivare a difendere apertamente i sistemi dittatoriali. Anche questi partiti si possono considerare di estrema destra.

Se ci concentriamo esclusivamente sui risultati dell’estrema destra alle elezioni legislative, vediamo non solo che nel 2024 hanno vinto tutti i suoi partiti, ma anche che la maggior parte di loro ha stravinto. Con due eccezioni. La prima riguarda il partito bulgaro Rinascita, che ha ottenuto risultati quasi identici nelle due elezioni legislative organizzate nel paese. La più importante e sorprendente è arrivata invece dall’India, dove il partito al potere Bharatiya janata party (Bjp) – che secondo le previsioni avrebbe dovuto schiacciare gli avversari – ha perso voti, pur rimanendo in carica. Tolti questi due esempi, in tre casi l’estrema destra è avanzata di poco (meno del 2 per cento) e di molto (oltre il 10 per cento) in altri tre, come in Francia e nel Regno Unito.

A questi dati dovremmo aggiungere anche i buoni risultati alle elezioni presidenziali di Jussi Halla-aho, leader del Partito dei finlandesi in Finlandia, e dello stesso Trump, oltre all’esito delle elezioni europee, dove i partiti di estrema destra hanno conquistato circa un quarto dei voti e quasi duecento dei 720 seggi del parlamento europeo. Due dei tre partiti con più deputati a Strasburgo sono di estrema destra: il francese Rassemblement national di Marine Le Pen è il primo, e Fratelli d’Italia (FdI) di Giorgia Meloni è il terzo. Anche se l’estrema destra è stata l’unica famiglia ideologica a vincere in quasi tutta l’Unione europea, al livello nazionale e regionale ci sono state sottili differenze. In alcuni paesi la destra ha sostanzialmente cambiato forma. In Italia, per esempio, le percentuali sono rimaste più o meno le stesse, ma la Lega di Matteo Salvini ha ceduto buona parte dei voti a FdI. In molti paesi del Nordeuropa, invece, l’estrema destra è andata relativamente male, soprattutto il Partito dei finlandesi (Ps) e i Democratici svedesi (Sd), due partiti che formano o sostengono i governi di coalizione nazionali.

Le elezioni legislative sono ovviamente in primo luogo delle consultazioni nazionali, ma alcuni analisti hanno interpretato i successi dell’estrema destra alla luce del contesto politico più ampio. Hanno notato una “tendenza globale a cambiare i governi in carica”, spesso collegata alle risposte (tardive) alla pandemia di covid-19 e alla guerra russo-ucraina. John Burn-Murdoch, il principale data journalist del Financial Times, ha sintetizzato così la questione: “Tumulto economico + tumulto sociale = risultati elettorali del 2024”. Questa spiegazione sintetica riflette a grandi linee l’interpretazione più diffusa del successo dell’estrema destra negli ultimi quaranta-cinquant’anni. Indubbiamente è vero che il successo dell’estrema destra è alimentato dalle crisi economiche e politiche che creano ansia sociale, ma non ci s’interroga abbastanza sul perché debba essere per forza così. È abbastanza logico che sia stata la destra ad approfittare della cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015 o degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, data la reazione islamofoba che hanno scatenato, ma non si capisce perché abbia tratto vantaggio anche delle altre crisi degli ultimi vent’anni: la grande recessione, la pandemia di covid-19 e la guerra russo-ucraina. Nessuno di questi eventi è direttamente legato alla caratteristica fondamentale dell’estrema destra: il nativismo, cioè il nazionalismo xenofobo.

Le tre crisi avrebbero potuto portare a una crescita di consensi per il centrosinistra e la sinistra, dato che hanno messo in luce gli errori e i limiti del neoliberismo. La grande recessione è stata il fallimento di tutto il sistema economico, mentre sia la pandemia sia la guerra russo-ucraina hanno messo in evidenza il problema della privatizzazione di servizi chiave come la sanità e l’energia, ribadendo l’importanza dell’intervento e della pianificazione dello stato. Eppure, con poche eccezioni, negli ultimi anni i partiti di sinistra raramente sono riusciti a guadagnare consensi.

Il premier ungherese Viktor Orbán e la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Roma, Italia, 4 dicembre 2024 (Andreas Solaro, Afp/Getty)

Due delle più celebrate “vittorie” della sinistra nel 2024 a ben vedere non sono poi così straordinarie. Nel Regno Unito i laburisti hanno registrato la maggior crescita in termini di seggi dal 1945, ma conquistando appena l’1,6 per cento di voti in più rispetto al 2019. In numeri assoluti, il leader laburista Keir Starmer ha preso circa mezzo milione di voti in meno del suo predecessore Jeremy Corbyn nel 2019. Tutto questo dopo più di quattordici disastrosi anni di governo del Partito conservatore, ridotto ai minimi storici. Il vero vincitore delle elezioni britanniche è stato Nigel Farage, che con il suo attuale partito, il nazionalista e xenofobo Reform, ha preso il 12,3 per cento di voti in più di quanto aveva fatto nel 2019 con il Brexit party e ha superato dell’1,7 anche il risultato del 2015 con l’Ukip.

Allo stesso modo, le elezioni legislative francesi sono state presentate come una vittoria della sinistra e una sconfitta dell’estrema destra. Ma una simile analisi è frutto soprattutto del ridimensionamento della aspettative dei progressisti. Il Rassemblement national è diventato di gran lunga il primo partito del paese e ha conquistato più voti del Nuovo fronte popolare, un’alleanza che comprende una decina di partiti di sinistra. Come nel Regno Unito, anche in Francia sono state le distorsioni del sistema elettorale, più che gli elettori, a dare la vittoria alla sinistra. Per farla breve, anche nei pochi paesi dove la sinistra ha vinto politicamente, è stata l’estrema destra a vincere sotto il profilo elettorale.

Una distinzione cruciale

Gli scossoni politici che si susseguono dal 2016 hanno fatto nascere una piccola industria editoriale del pessimismo politico. Nel 2024 i libri sulla morte della democrazia e del liberalismo sono diventati best seller, mentre i titoli dei giornali gridavano alla “crisi globale della democrazia”. Alcuni studi sembrano confermare queste preoccupazioni. Il V-Dem Project, un programma accademico internazionale che fornisce indicatori sul funzionamento della democrazia, ha calcolato che nel 2021 la percentuale della popolazione mondiale che viveva in democrazia era diminuita del 29 per cento. Questo calo, tuttavia, era stato fortemente influenzato dalla situazione in pochi paesi molto popolosi, soprattutto l’India. Quindi la democrazia è davvero in crisi? E se lo è, sopravvivrà ai prossimi sviluppi?

Come spesso succede, la risposta dipende in parte da come definiamo la democrazia. Nelle democrazie elettorali, i cittadini possono eleggere i loro rappresentanti in elezioni libere e regolari, ma non ci sono tutele come i diritti individuali e delle minoranze, che sono garantiti solo nelle democrazie liberali. Il numero delle democrazie elettorali è ancora in crescita, anche se a un ritmo minore rispetto ai decenni passati. Le democrazie liberali , invece, sono sempre di meno. E più in generale nelle democrazie come nei paesi autoritari si assiste a una crescita dell’autoritarismo. È questo che ci dice il ventunesimo secolo: le democrazie liberali sono in crisi, come spiegano bene Daniel Ziblatt e Steven Levitsky nel libro Come muoiono le democrazie, uno dei pochi testi fondamentali per capire la politica di oggi.

In termini puramente numerici, le tante elezioni del 2024 hanno cambiato poco. Anche se in molti paesi i partiti al potere hanno perso e l’estrema destra ha vinto, il loro modello istituzionale è quasi sempre rimasto immutato. Nella grande maggioranza dei casi, l’estrema destra resterà all’opposizione. Il suo rafforzamento, però, unito alla sua progressiva moderazione e normalizzazione, indebolirà ulteriormente i diritti delle minoranze (come le persone lgbt e i musulmani) e le istituzioni cruciali per la vita sociale (i mezzi d’informazione e le università).

Marine Le Pen, leader del Rassemblement national. Parigi, Francia, 7 luglio 2024 (Mauricio Lima, The New York Times/Contrasto)

Il 2024, però, un cambio di regime alla fine lo ha portato, e per giunta nel paese più potente del mondo. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca influenzerà lo stato della democrazia liberale non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il pianeta.

Prima di tutto perché il secondo governo Trump non sarà come il primo. Se nel suo precedente mandato Trump era dovuto scendere a compromessi con il vecchio establishment repubblicano, stavolta non avrà quasi nessuna opposizione. Il partito si è allineato, mentre il campo conservatore allargato si è quasi totalmente radicalizzato (come, per esempio, l’Heritage foundation) e sta entrando in competizione con una nuova struttura di fedelissimi di Trump (tra cui l’America first policy institute). In più, Trump guiderà un governo unito, che avrà il controllo di entrambi i rami del congresso e di fatto anche della corte suprema. Il principale contrappeso sarà rappresentato dal solido sistema federalista del paese, che però proteggerà i cittadini solo negli stati amministrati dai democratici.

Anche in politica estera il nuovo Trump sarà peggiore del primo. La posizione della sua vecchia amministrazione in materia era più indifferente che isolazionista. Trump ha ritirato il paese da alcuni importanti trattati internazionali, come l’accordo di Parigi sul clima, e ha trattato il mondo con un sostanziale disinteresse. Uno dei pochi vantaggi è stato che, con grande delusione di altri leader di estrema destra come Le Pen e Orbán, non c’è stato un vero tentativo di organizzare un “fronte globale unito contro il liberalismo”. Trump ha coltivato una serie di “amicizie affettuose” con un gruppo ideologicamente eterogeneo di leader autoritari, tra cui il nordcoreano Kim Jong-un e il russo Vladimir Putin, ma lo ha fatto soprattutto per interesse personale.

Anche se nel frattempo si è fatto qualche nuovo amico di estrema destra (in particolare Orbán, il cui governo ha comprato influenza all’estero attraverso ingenti finanziamenti a centri studi come il Danube Institute), Trump resta fondamentalmente disinteressato alla politica internazionale. Tuttavia alcune importanti figure che gravitano nella sua orbita, e più in generale nel Partito repubblicano, si sono avvicinate molto ai partiti e ai leader di estrema destra in tutto il mondo. Ci sono stretti legami , per esempio, tra la Heritage foundation e la rete di pseudo-ong di Orbán, mentre vari repubblicani di primo piano hanno partecipato a incontri di partiti ultraconservatori in Europa. Leader autoritari e miliardari hanno imparato quanto sia facile manipolare Trump. Una “bellissima lettera” o un generoso assegno possono comprare sostegno e influenza, come hanno capito Kim Jong-un ed Elon Musk. Totalmente prigioniero di dittatori e imprenditori “libertari”, in patria e all’estero, Trump sarà ancora meno interessato di prima a difendere la democrazia e i diritti umani.

Nemici amici

Nulla di tutto questo era inevitabile. L’ascesa dell’estrema destra e la crisi della democrazia sono la conseguenza di precise scelte politiche, in gran parte di soggetti privilegiati, tra cui i grandi mezzi d’informazione e le élite politiche. Prese singolarmente, queste scelte si spiegano soprattutto con l’arroganza, l’ignoranza e l’egoismo. Nell’insieme, invece, rivelano una questione strutturale più complicata: il sostegno limitato di cui gode la democrazia liberale e la sua vulnerabilità.

L’estrema destra è arrivata al successo elettorale prima di riuscire a costruire una sua solida rete di mezzi d’informazione. Da anni estrema destra e giornali sono nemici-amici: si amano e si detestano allo stesso tempo. Da una parte, molti mezzi d’informazione (in particolare i tabloid) hanno dato ampio spazio alle posizioni autoritarie, nativiste e populiste. Dall’altra, i partiti e i politici di estrema destra si lamentano da sempre degli attacchi di giornali e tv, bollandoli come fake news, ma allo stesso tempo approfittano dell’attenzione sproporzionata che questi stessi mezzi d’informazione gli riservano.

Con la progressiva normalizzazione dell’estrema destra, favorita dalla collaborazione o dalla fusione con partiti della destra tradizionale, vari giornali conservatori hanno cominciato ad appoggiare apertamente i partiti e i politici estremisti. L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, per esempio, è stato sostenuto da diversi colossi dell’informazione del paese, oltre che dallo statunitense Wall Street Journal, mentre Fox News e altri tv e giornali ultraconservatori si sono fatti portavoce di Trump e del nuovo Partito repubblicano. Nello stesso modo, il quotidiano gratuito Israel HaYom, finanziato dal miliardario statunitense Sheldon Adelson, ha contribuito a spingere Israele ancora più a destra e ha appoggiato Benjamin Netanyahu. Vincent Bolloré, il “Murdoch francese” (con riferimento al magnate dell’informazione australiano Rupert Murdoch) ha fatto lo stesso in Francia con il suo impero dell’informazione.

In tutto questo anche i social media hanno avuto un ruolo, anche se non così rilevante come si pensa di solito. È indubbio che abbiano indebolito la posizione di “guardiani del sistema” dei mezzi d’informazione tradizionali e che siano stati usati con grande astuzia da alcuni politici di estrema destra. L’olandese Geert Wilders, per esempio, è riuscito a condizionare il corso di una giornata politica tramite Twitter: la mattina ha inviato un tweet provocatorio, subito rilanciato e usato dai giornalisti per mettere alle strette i leader moderati del paese, che a loro volta sono stati costretti a rispondere. Wilders ha così controllato l’intero ciclo di notizie della giornata e ha detto la sua solo la sera, riservandosi l’ultima parola.

Molti studi, inoltre, hanno dimostrato che l’estrema destra trae vantaggio anche dalla “radicalizzazione algoritmica”, cioè il processo attraverso il quale i social media spingono gli utenti in delle specie di nicchie digitali, esponendoli a contenuti sempre più radicali. Detto questo, gli studi hanno riscontrato che l’effetto dei social media sul comportamento elettorale è comunque relativamente modesto. Secondo le prime analisi, anche l’impatto dell’intelligenza artificiale per il momento è più contenuto di quanto si temeva.

Assai più influente è il comportamento delle élite politiche, soprattutto – ma non esclusivamente – di destra. Come nell’Europa dell’inizio del novecento, anche oggi le élite politiche hanno avuto un ruolo cruciale nella normalizzazione dell’estrema destra. Dopo aver inizialmente ignorato ed emarginato gli estremisti, vedendo i loro primi successi vari partiti conservatori moderati si sono appropriati del loro messaggio politico. L’adozione delle idee e delle posizioni xenofobe e nazionaliste, specialmente sul tema dell’immigrazione, ha trasformato l’estrema destra in una logica alleata di governo. Questo fenomeno si riscontra in quasi tutti i paesi europei, compreso il Regno Unito, anche se qui l’estrema destra non è ancora riuscita a diventare una forza rilevante in parlamento. Il conservatori hanno più o meno adottato il quadro di riferimento e le posizioni del partito Ukip e dei suoi successori e, pur senza concludere accordi formali con Farage, nel 2019 l’allora premier Boris Johnson ha accolto di buon grado la decisione del leader nazionalista di non presentare candidati nei collegi che erano stati conquistati dai tory nel voto precedente.

Strategie moderate

Mentre negli anni novanta solo pochi paesi avevano governi che includevano l’estrema destra, oggi questa corrente politica è (o è stata fino a poco tempo fa) parte di coalizioni al potere nella maggioranza degli stati dell’Unione europea e in un numero crescente di nazioni dell’Asia e delle Americhe.

Democrazie a confronto
Numero di paesi che si possono definire democrazie. Nel mondo gli stati riconosciuti a livello internazionale sono 195. (fonte: V-Dem/prospect)

Nessuno ha costretto le élite moderate a sposare l’estrema destra. Hanno scelto di farlo per motivi strategici prima che ideologici, convinte che alla fine ne avrebbero tratto vantaggio. Nella maggior parte dei casi i conservatori tradizionali hanno anche sottovalutato l’estrema destra, pensando di poterla controllare. Nel caso di Bolsonaro e in quello di Trump, per esempio, era diffusa l’idea secondo cui gli “adulti nella stanza” avrebbero tenuto sotto controllo la loro impulsività da capipopolo e la loro incompetenza. Un secolo fa, le élite di destra in Italia e in Germania avevano pensato la stessa cosa – e con risultati simili – di Benito Mussolini e Adolf Hitler.

I giornalisti e i politici spesso si difendono spiegando che i conservatori moderati fanno semplicemente quello che vuole la “gente”. Ma dopo aver a lungo ignorato le richieste e le voci di estrema destra, oggi pensano che la “gente” sia molto più di destra di quanto non sia in realtà. E sono inoltre convinti che negli ultimi anni i cittadini si siano spostati decisamente su posizioni sempre più conservatrici, altro dato empiricamente falso. Secondo uno studio del politologo americano Larry Bartels, nell’Unione europea e negli Stati Uniti non è vero che la popolazione si sia spostata più a destra. Semmai è diventata leggermente più inclusiva. Nello stesso modo, anche se la destra dell’America Latina si è scatenata contro “la rivoluzione dei diritti dei gay”non ci sono prove che nella popolazione domini un atteggiamento reazionario. Anche in questa parte del mondo le persone sono diventate più tolleranti nei confronti dei diritti dei gay: non perché abbiano cambiato opinione, ma perché i giovani, naturalmente più aperti e inclusivi, stanno prendendo il posto degli anziani.

Tuttavia è vero che nel corso degli anni l’attenzione degli elettori si è spostata su questioni diverse. Se nel novecento la politica si occupava principalmente di temi socioeconomici, nel ventunesimo secolo è sempre più dominata da questioni socioculturali. In parole povere, le guerre culturali hanno preso il posto della lotta di classe. Ancora una volta non è un processo che nasce dal basso. I cittadini seguono le élite, che hanno il potere di stabilire programmi e priorità. Vari studi hanno dimostrato che quando i mezzi d’informazione si concentrano su questioni specifiche – per esempio l’immigrazione – i cittadini tendono a considerarle più importanti.

Ma anche quando l’immigrazione non è tra le principali preoccupazioni dei votanti – come nelle ultime elezioni statunitensi, dove era appena al sesto posto – il nativismo può comunque influenzare il comportamento elettorale. Questo succede quando altri temi politici, compresi quelli socioeconomici, sono connotati razzialmente. Prendiamo, per esempio, il dibattito sugli alloggi nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Nel paese europeo, la casa era stata uno dei temi principali della campagna elettorale del 2023, ma la discussione si era concentrata soprattutto sulla presunta pressione esercitata dai rifugiati sul mercato immobiliare, anche se in realtà nei Paesi Bassi solo il 5-10 per cento dell’edilizia sociale è destinata ai rifugiati. E negli Stati Uniti i mezzi d’informazione tradizionali hanno parlato a lungo delle “espulsioni di massa per alleggerire la domanda”, descrivendole come parte della “politica degli alloggi” di Trump.

Una crescita costante
I risultati di alcuni partiti di estrema destra alle elezioni legislative, percentuale di voti (fonte: Cas Mudde/Prospect)

Nei prossimi anni assisteremo inevitabilmente a un altro boom della letteratura sulla crisi della democrazia, e molti guarderanno al passato per trovare risposte sul futuro. Nessuna delle due cose ci aiuterà molto. Per combattere l’estrema destra e rafforzare la democrazia liberale, dobbiamo imparare le lezioni giuste. Oggi non abbiamo di fronte né l’estrema destra degli anni ottanta né quella degli anni trenta. Sia la minaccia estremista sia il contesto politico sono molto diversi. Quindi anche le soluzioni dovranno essere molto diverse.

Negli Stati Uniti il libro di Timothy Snyder Venti lezioni. Per salvare la democrazia dalle malattie della politica è in cima alle classifiche dei best seller da quando Trump è stato eletto presidente per la prima volta, nel 2016. Come altri libri di storia sul fascismo e i sistemi autoritari, analizza l’estrema destra contemporanea dalla prospettiva del fascismo storico. Tuttavia né i rischi né il contesto politico sono gli stessi. Al di là della questione se l’ideologia sia la stessa del passato, l’estrema destra contemporanea è prima di tutto una minaccia elettorale, cosa che il fascismo storico praticamente non fu mai. Con alcune eccezioni, in particolare il partito nazista di Hitler, le forze fasciste erano elettoralmente minoritarie e riuscirono ad arrivare al potere grazie a semi-colpi di stato (la marcia su Roma di Mussolini) o all’occupazione straniera (come nel caso della Germania nazista). Inoltre, il contesto politico è radicalmente cambiato. Negli anni trenta la democrazia era profondamente impopolare e non abbastanza solida. Oggi è ancora dominante, anche se sta perdendo consensi.

Neanche gli anni ottanta hanno molto da insegnarci. I partiti di estrema destra dell’epoca avevano più o meno la stessa ideologia di quelli di oggi, ma erano organizzati male, troppo dipendenti dalla figura del leader e alle elezioni non arrivavano al 10 per cento. In più, erano fronteggiati da un “cordone sanitario” di partiti moderati che rifiutavano categoricamente ogni collaborazione. In quel periodo anche i mezzi d’informazione, in gran parte controllati da interessi moderati, emarginavano le figure di estrema destra, esclusi forse alcuni tabloid e tv private. La maggior parte dei partiti estremisti non aveva l’ambizione di cambiare il sistema dall’interno, ritenendo l’obiettivo semplicemente irrealistico. Se osserviamo questi due periodi storici in cerca di lezioni per sconfiggere l’attuale estrema destra e salvare la democrazia liberale, non troveremo granché di utile. Il fascismo storico ha avuto pochissima opposizione interna e alla fine è stato sconfitto solo grazie all’intervento militare straniero in una guerra mondiale. Non è una prospettiva incoraggiante né confortante. L’estrema destra degli anni ottanta è stata invece frenata e marginalizzata sulla base di un consenso ideologico e morale che oggi non esiste più. E con il passare del tempo molte delle idee e dei partiti di quell’epoca sono progressivamente entrati nella politica tradizionale.

Il lavoro critico

Oggi per difendere la democrazia dall’estrema destra è necessario capire sia la prima sia la seconda per quello che sono attualmente, non per quello che erano quaranta o cent’anni fa. Al livello delle élite come delle masse popolari l’estrema destra è diventata più moderata e si è normalizzata. La democrazia è ancora forte, ma quella liberale è sotto scacco.

La battaglia contro l’estrema destra è importante, ma non deve diventare il fine ultimo della politica. Dev’essere anche, e soprattutto, una lotta per la democrazia liberale. Deve essere positiva e non negativa, proattiva più che reattiva. Deve conquistare quella parte di élite e di cittadini che non ama o non capisce la democrazia liberale. L’ideale sarebbe se questo confronto si svolgesse su un terreno puramente ideologico e normativo, ma oggi è importante fare appello anche agli interessi egoistici. In fondo la democrazia liberale è l’unico sistema che tutela i diritti delle minoranze, e tutti prima o poi possono diventare minoranza.

Ma una democrazia liberale forte richiede responsabilità, ancora una volta sia delle élite sia delle masse popolari. Le élite del giornalismo devono smettere di ignorare o addirittura rifiutare le richieste della “gente”. Gli elettori non sono “sedotti” o “ingannati” dai politici di estrema destra, sanno chi e cosa votano. E se anche non lo sapessero, il compito dei giornalisti sarebbe fornirgli le informazioni corrette.

Le élite liberaldemocratiche non devono normalizzare le figure e le idee di estrema destra. Questo non significa che l’estrema destra – i suoi leader, le sue idee, i suoi sostenitori – dev’essere ignorata. Ma visto che è una minaccia per la democrazia, le forze moderate dovrebbero trattarla diversamente da come hanno fatto in questi anni. I leader di estrema destra sono spesso figure in malafede, che diffondono falsità e teorie del complotto; i mezzi d’informazione democratici non possono semplicemente prenderli in parola. Invece di pubblicare articoli o interviste totalmente acritici, dovrebbero analizzare rigorosamente le affermazioni dell’estrema destra, sottolineandone i presupposti ideologici e le inesattezze fattuali.

Le élite della politica devono cominciare a trattare l’estrema destra come la voce della minoranza rumorosa, non della maggioranza silenziosa. Questo non significa ignorare le istanze e le posizioni dei partiti xenofobi e nativisti, ma nemmeno presentarle come le principali o uniche preoccupazioni della popolazione. La democrazia liberale si basa sul pluralismo, cioè l’idea secondo cui le società sono formate da individui e gruppi diversi con una varietà di interessi e valori. Tutti questi interessi e valori sono legittimi, ed è compito della politica trovare i compromessi necessari. Far finta che ci sia una soluzione ottimale per tutti, come fanno sia il neoliberismo sia il populismo, non solo indebolisce la democrazia liberale, ma rafforza l’estrema destra. ◆ fas

Cas Mudde è un politologo olandese, professore di relazioni internazionali all’università della Georgia, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Ultradestra (Luiss university press 2020).

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati