Poco prima di Natale ho attraversato a piedi il centro di Cortina d’Ampezzo, famosa località sciistica delle Dolomiti. Quel giorno avevo una missione: trovare le tracce di una pista da bob costruita negli anni venti che si diceva fosse in stato di completo abbandono, in parte smantellata e in parte inghiottita dai boschi. Volevo vedere cosa restava di quella strana struttura – un enorme circuito tra gli alberi in cui gli atleti un tempo sfrecciavano sui bob – non perché fossi animata da una passione per l’archeologia sportiva, ma perché quella pista è diventata il simbolo di qualcosa di molto più grande e complesso.
Attirare capitali
Cortina, piccolo paese con circa cinquemila abitanti, ospiterà insieme a Milano i Giochi olimpici e paralimpici invernali del 2026. L’evento si terrà a settant’anni esatti da quando nel 1956 a Cortina si disputò una delle prime edizioni postbelliche delle olimpiadi invernali. All’epoca i giochi contribuirono alla sua notorietà, trasformandola in una meta obbligata del jet set nazionale e internazionale.
In un primo momento la candidatura per le Olimpiadi del 2026 era stata presentata come un’occasione per rilanciare l’economia regionale, migliorare le infrastrutture e riaffermare il ruolo di Cortina come destinazione internazionale per gli sporti invernali. Ma a due anni dall’inizio dei giochi è chiaro che per molti l’evento è solo l’ultima tappa di un lungo processo di sviluppo per attirare capitali e favorire il turismo più esclusivo, mentre per chi abita nel paese tutto l’anno i prezzi sono proibitivi, è difficile una “vita normale”, formare una famiglia o trovare un appartamento in affitto.
È una tendenza che si riscontra in molte comunità alpine in cui il turismo è la prima fonte di reddito. Mentre il settore si espande e influenza ogni aspetto della vita, spesso non c’è un investimento corrispondente nei servizi di base per gli abitanti, e questa carenza alimenta l’emigrazione e il declino demografico. Come mi ha detto Diego Cason, un sociologo che vive nella regione e ne studia le dinamiche, in questi casi le comunità si indeboliscono e l’elettorato si riduce, insieme alla possibilità di avere persone disposte a difendere gli interessi dei residenti. I politici locali sembrano convinti che i grandi eventi possano risolvere questi problemi, almeno in parte. Ma la realtà sembra molto più complicata per essere sistemata con un’iniezione di soldi per organizzare le Olimpiadi o per costruire nuove infrastrutture.
Il diploma celeste
Sono andata a Cortina per farmi un’idea della situazione e per capire meglio il legame della mia famiglia con questo posto in cui tornavo ogni anno sia in estate sia durante le vacanze invernali. Mia madre è nata a Cortina tre anni dopo le Olimpiadi invernali, mentre mia nonna ci lavorò e lì conobbe mio nonno, anche se poi la famiglia si trasferì in una città più vicina a Venezia, dove sono cresciuta. Nelle storie di mia nonna quella era un’epoca di progresso, ottimismo ed euforia. Erano tempi più semplici: le case costavano poco e tutti potevano trovare un’occupazione. C’era il boom economico e l’Italia si stava affermando come potenza industriale, la classe media si espandeva e anche nelle aree più isolate, come quelle montane, c’erano delle opportunità. Fu in quel periodo che le persone cominciarono ad andare in vacanza sulla neve. Negli anni lo scoiattolo rosso, simbolo di Cortina, si trasformò in un’icona della cultura pop e si moltiplicarono gli spot pubblicitari che mostravano persone sorridenti sui pendii innevati. I ricchi si misero a costruire qui le loro case per le vacanze, attirati dall’aria pulita, dai panorami mozzafiato e dalle tradizioni “autentiche”, un aggettivo che d’allora è finito in tutti i volantini degli alberghi e negli annunci degli enti turistici. Nel 1981 un film di James Bond, girato in parte nel centro abitato, fece entrare la località sciistica nell’immaginario internazionale. E nel 2009 il riconoscimento come sito patrimonio dell’Unesco ha dato un’ulteriore spinta al turismo nelle Dolomiti.
Appesi a un muro di casa di mia nonna ho trovato cimeli e fotografie degli anni dopo la guerra: in un diploma celeste incorniciato c’è il simbolo di “Cortina 1956”, la fiamma olimpica e i cinque cerchi. È firmato dal segretario generale e dal presidente del comitato organizzativo locale, ed è un riconoscimento del lavoro svolto da mia nonna nell’organizzazione di quei giochi. Lei ne era orgogliosa, perché sentiva di aver fatto qualcosa per la comunità e di aver maturato l’esperienza necessaria per continuare a mantenere la famiglia.
Quella mattina di dicembre sono passata davanti ad alberghi a cinque stelle, agenzie immobiliari, un centro benessere e molti ristoranti specializzati nella tipica cucina locale, saporita e ricca di burro. In circa dieci minuti sono arrivata al confine del centro abitato. Procedendo su un marciapiede coperto dal ghiaccio, mi sono inerpicata lungo la strada che collega Cortina agli impianti sciistici. Poi ho deciso di abbandonare l’asfalto, lasciandomi scivolare su un miscuglio di neve e fango. Fino a quando ho visto quello che stavo cercando: due lastre curve di cemento, più alte di una persona, appoggiate alla roccia e circondate dagli alberi. Era tutto quello che restava della pista da bob degli anni venti.
La struttura sarà ricostruita a breve, nonostante un acceso dibattito politico e l’opposizione degli abitanti. Nel 2023 il progetto era stato giudicato troppo costoso e nessuna impresa edile aveva partecipato al bando. Per questo si era stabilito di far disputare le gare di bob altrove. Ma a dicembre il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini, leader della Lega, ha presentato una versione più economica del progetto, che comunque costerà allo stato quasi 118 milioni di euro (escluse le spese di manutenzione, che spetteranno al comune di Cortina). E un’impresa edile ha fatto un’offerta. I macchinari entreranno in funzione nelle prossime settimane, anche se il Comitato olimpico internazionale aveva consigliato di usare le infrastrutture esistenti e gran parte della popolazione locale è contraria a una nuova pista.
Il governatore del Veneto, Luca Zaia, anche lui della Lega, ha sostenuto con forza la candidatura di Cortina. Nel piano di comunicazione per promuovere le Olimpiadi invernali abbondano i riferimenti al glorioso passato. Nel 2019, dopo che i giochi sono stati assegnati a Milano e a Cortina, Zaia ha dichiarato che l’obiettivo era aumentare l’attrattiva delle Dolomiti dal punto di vista sportivo e turistico. L’amministrazione comunale di Cortina condivide queste idee.
Di recente il governatore ha detto che le Olimpiadi “saranno una stagione di rinascimento delle nostre montagne, con ampie ricadute per tutto il Veneto e per tutta l’Italia”. Secondo lui, le Dolomiti sono invidiate da tutto il mondo, ma hanno bisogno di una sorta di piano Marshall dopo aver vissuto anni difficili.
Pista da bob
Il dibattito sull’opportunità di ricostruire un’infrastruttura per uno sport così di nicchia potrebbe sembrare marginale, ma non lo è. Il progetto della pista da bob ha creato uno scontro tra chi immagina un futuro fatto di grandi eventi sportivi e una forte crescita del turismo e chi invece vorrebbe una distribuzione diversa delle risorse nelle comunità montane, più attenta ai servizi essenziali che dissuaderebbero i residenti dal trasferirsi altrove. La questione va oltre Cortina e le prossime Olimpiadi.
Sulla via del ritorno dalla vecchia pista da bob sono passata davanti alla pista di pattinaggio e hockey su ghiaccio costruita negli anni cinquanta. A poche centinaia di metri dall’impianto si trova la casa dove mia madre passò i primi anni della sua vita. Accanto all’edificio di legno scuro c’è un campo da minigolf che ho frequentato qualche volta da bambina. Dietro le finestre chiuse non ho visto luci accese, ma la costruzione era in buono stato. Probabilmente qualcuno ci vive, almeno per una parte dell’anno.
Mentre camminavo continuava a tornarmi in mente qualcosa che mia madre mi ha detto di recente: quando lei era piccola a Cortina c’era ancora spazio per le persone “normali” che volevano costruirsi una vita, nonostante l’esplosione del turismo. Ho pensato che i miei nonni, insegnanti delle superiori, erano un esempio perfetto di quel tipo di persone.
Ma con il passare degli anni e il continuo rialzo dei prezzi degli immobili, le cose sono cambiate, soprattutto per le generazioni più giovani.
Una rapida ricerca su un sito immobiliare è sufficiente a cogliere la portata del problema. Oggi, nello stesso palazzo dove sessant’anni fa i miei nonni vivevano in affitto, un appartamento per una famiglia è in vendita a circa un milione di euro, mentre secondo le stime del sito l’affitto mensile ammonterebbe a tremila euro.
Sono prezzi molto più alti rispetto alla media di Milano, una città con 1,4 milioni di abitanti, che è anche la capitale finanziaria dell’Italia. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il reddito medio in Italia è di 29.431 dollari all’anno (poco più di 27mila euro), quindi per la maggior parte delle persone Cortina è ormai inavvicinabile.
La pensione non basta
Francesca Polato, una donna di trent’anni nata e cresciuta a Cortina, è diventata maggiorenne poco dopo la crisi finanziaria del 2008, quando i prezzi crollarono e sembrava che i giovani potessero permettersi un appartamento in affitto, in un paese in cui sono tra gli ultimi in Europa a lasciare la casa dei genitori. Ma quella tendenza si è invertita rapidamente. Quando Polato ha deciso di andare a vivere da sola non è riuscita a trovare un appartamento in affitto. Dopo una serie di visite a scantinati trasformati in monolocali, si è rassegnata all’idea di restare in casa dei genitori, fino a quando ha conosciuto il suo attuale compagno, con cui ha scelto di lasciare Cortina.
Erano tempi più semplici: le case costavano poco e tutti trovavamo lavoro
“C’è un muro di rassegnazione”, mi ha spiegato Polato riferendosi all’atteggiamento della sua generazione nei confronti del mercato immobiliare. “Ho dato per scontato che la mia vita non sarà più a Cortina”.
Polato e il compagno si sono spostati a venti chilometri di distanza dal paese. In un contesto urbano si tratta di una distanza minima, ma in montagna no.
La fine delle pandemia e l’assegnazione dei Giochi olimpici hanno dato nuovo slancio al mercato immobiliare di Cortina. Barbara Alberti, proprietaria di un agenzia locale, mi ha confermato che in questo momento niente lascia pensare che i prezzi possano scendere.
A causa delle regole introdotte fin dagli anni settanta per proteggere il centro storico di Cortina e l’ambiente circostante, costruire nuove case nella zona è impossibile. Gli edifici esistenti sono in maggioranza seconde case di persone che non vivono stabilmente a Cortina o alloggi in affitto per vacanze brevi. Alberti, la cui agenzia vende e affitta immobili soprattutto ai visitatori, sostiene che le poche case che non sono destinate al turismo sono fuori dal circuito delle agenzie immobiliari e vengono vendute soprattutto attraverso il passaparola. “Non mi sento di lucrare su chi ha bisogno della casa perché gli serve per vivere”, mi ha spiegato.
Non serve altra pubblicità
Sisto Menardi è un uomo gioviale sulla sessantina. Impiegato in pensione, non possiede un cellulare. Per organizzare un’intervista l’ho chiamato a un numero fisso, lo stesso che usa per ricevere le prenotazioni per il bed and breakfast che gestisce part-time dalla casa di famiglia. Menardi mi ha accolta in un edificio tradizionale di pietra e legno con fiori alle finestre, portandomi in una stanza rivestita da pannelli di legno, con una stufa di maiolica che rendeva l’ambiente caldo e accogliente.
Menardi mi ha raccontato che sua madre possedeva un appartamento situato nei pressi della casa. Quando è morta, nel 2021, l’immobile è stato valutato 700mila euro. Da allora Menardi e i suoi sei fratelli affrontano un dilemma molto comune in questa zona: vorrebbero tenere l’appartamento, ma non sanno come gestire la proprietà condivisa. “È difficile. Nessuno di noi ha i soldi per rilevare la quota degli altri”, mi ha detto. Ma i fratelli non vogliono vendere la casa perché sanno che verrebbe acquistata da un investitore che probabilmente la trasformerebbe in un alloggio turistico.
Alberti mi ha confermato che quella dei Menardi è una situazione frequente, ed è una delle ragioni per cui molte case vengono vendute ai non residenti. “Noi non siamo un comune ricco”, mi ha detto.
Secondo Menardi la fama di Cortina ha contribuito a diffondere un’idea distorta sul tenore di vita dei suoi abitanti. “Ci vedono ricchissimi solo perché abitiamo qua, ma per quel che mi riguarda è vero il contrario”, mi ha confidato. “La pensione non basta mai”.
Menardi pensa che Cortina non sia più tanto una meta turistica, quanto un posto in cui le persone comprano una casa non per viverci o per andarci in vacanza ma per investire, sapendo che i prezzi al metro quadrato non scenderanno mai di molto.
Lui, come altri residenti con cui ho parlato, è convinto che il turismo dovrebbe essere regolamentato e che Cortina non abbia bisogno di ulteriore pubblicità .
Ma l’amministrazione comunale non sembra dello stesso avviso. La vicesindaca Roberta Alverà mi ha spiegato che il comune intende favorire il turismo in quella che oggi è considerata la bassa stagione, per “spalmare” i visitatori e rendere Cortina vivibile per più mesi all’anno.
“Cortina vive di turismo, è la principale fonte di reddito della quasi totalità degli abitanti”, mi ha detto. “Non possiamo pensare di vivere di turismo e poi essere infastiditi. Uno deve chiarirsi le idee”.
La strada per arrivare a Cortina attraversa una comunità montana chiamata Cadore, dove negli ultimi anni si sono stabilite molte persone che non riescono a trovare un alloggio a Cortina, come Polato. A Pieve di Cadore, un paese a circa trenta chilometri da Cortina, c’è il principale ospedale della valle, in cui vengono trasportati i pazienti di Cortina in gravi condizioni e chi ha avuto un incidente in montagna. Ma nell’ultimo decennio la revisione del sistema sanitario regionale ha portato a una riduzione progressiva dei servizi ospedalieri, trasferendone molti in una struttura più grande che sta a quaranta chilometri da Pieve di Cadore e a settanta chilometri da Cortina. I documenti ufficiali della regione indicano che, al momento, l’ospedale di Pieve di Cadore non ha un reparto di cardiologia attivo 24 ore al giorno e non può fare operazioni chirurgiche d’emergenza. Mia madre mi ha raccontato che invece negli anni settanta la mia bisnonna fu ricoverata lì per un disturbo cardiaco e ci restò settimane.
La situazione dei servizi sanitari è uno dei problemi citati da chi si preoccupa per il destino delle comunità montane lontane dai riflettori della stagione turistica e dei grandi eventi sportivi.
Mentre persone come Polato e Menardi sono determinate a restare nella valle e non immaginano di poter vivere lontano dalle montagne, molti decidono di partire. A Cortina e nell’area circostante, fino a Pieve di Cadore e oltre, la popolazione si riduce costantemente da anni, con l’effetto di erodere i servizi essenziali. Secondo chi le critica, le Olimpiadi non miglioreranno in alcun modo la situazione.
Calo demografico
Il sociologo Cason mi ha spiegato che l’assenza di una struttura sanitaria adeguata è un ostacolo enorme nella lotta contro lo spopolamento, ma è altrettanto vero che dalla prospettiva del governo il numero di residenti non giustifica la creazione di una struttura con tutti i servizi diagnostici. “È il meccanismo che determina la riduzione dei servizi pubblici, perché un servizio pubblico, come uno privato, deve fare economie di scala”. Secondo il ricercatore, nella regione mancano politiche per rilanciare le comunità montane, e questo favorirà lo spopolamento.
Ne ho parlato con Sindi Manushi, sindaco di Pieve di Cadore. Manushi è convinta che la zona abbia bisogno di più attenzione per l’assistenza alla comunità e i trasporti pubblici. Anche se non esistono soluzioni per fermare immediatamente lo spopolamento, è possibile fare qualcosa a medio termine: “Bisogna per forza tenere duro e ripristinare i servizi di base”.
La maggior parte dei grandi progetti che nei prossimi anni dovrebbero cambiare Cortina e la valle di Cadore – oltre alla pista da bob – riguardano la rete stradale, come l’ammodernamento della statale a due corsie su cui ogni visitatore resta bloccato almeno una volta durante i classici ingorghi della domenica. Per i politici che assegnano i finanziamenti, la costruzione di strade, ponti e gallerie è un modo per lasciare il segno dopo un grande evento come le Olimpiadi.
Ma non è detto che questo tipo di eredità aiuterà le comunità in crisi, migliorando l’accesso alle cure sanitarie e convincendo i giovani a restare. ◆ as
Cecilia Butini è una giornalista italiana che si occupa di Europa per i mezzi d’informazione in lingua inglese. Le sue principali aree di interesse sono l’ambiente, la salute e i temi sociali.
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati