Tra le case modeste con i tetti in lamiera di Honiara, capitale sovrappopolata delle isole Salomone (uno degli stati più poveri dell’Oceania), lo stadio nazionale nuovo di zecca salta subito agli occhi. Così come l’iscrizione, incisa a grandi lettere rosse sul muro di cinta, in cui si segnala ai visitatori che è stato costruito grazie ai fondi donati da Pechino. Il modernissimo complesso sportivo è stato offerto per la diciassettesima edizione dei Giochi del Pacifico, olimpiadi regionali che per la prima volta sono state ospitate dall’arcipelago dal 19 novembre al 2 dicembre 2023. Uno stadio che è ormai al centro delle polemiche tra i sostenitori e i critici della Cina, la cui influenza continua a estendersi in questa zona del Pacifico.

Di fatto la costruzione mette in evidenza il grande interesse che suscita questo arcipelago composto da quasi mille tra isole e isolotti, ed ex protettorato britannico diventato indipendente nel 1978. Più del 60 per cento delle infrastrutture legate all’organizzazione di questi giochi è stato finanziato da paesi stranieri: Cina, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Stati Uniti. Per Pechino la spesa ha raggiunto l’equivalente di quasi 110 milioni di euro (di cui solo il 76 per lo stadio), per un costo totale dei giochi stimato in 258 milioni di euro.

Territorio un po’ dimenticato nella zona d’influenza australiana, nell’autunno 2019 le isole Salomone si sono trovate al centro della rivalità nel Pacifico tra la Cina e i paesi occidentali. Il 16 settembre di quell’anno, infatti, Manasseh Sogavare, all’epoca primo ministro, ha scelto di cambiare alleanze, rompendo i legami diplomatici con Taiwan in favore della Repubblica Popolare Cinese. Così, mentre Pechino rivendica in termini sempre più violenti la sovranità sull’isola, il cambio di linea dell’arcipelago ha risvegliato l’attenzione dei ministeri degli esteri occidentali. Tanto più che una settimana dopo è stato seguito dalla Repubblica di Kiribati, settimo alleato di Taiwan sottratto dalla Cina in tre anni.

Da allora Pechino ha costruito un’ambasciata imponente e moltiplicato i prestiti e le sovvenzioni per costruire strade, reti elettriche e antenne. Tutte infrastrutture particolarmente carenti nell’arcipelago, al 156° posto su 193 nella classifica delle Nazioni Unite basata sull’indice di sviluppo umano del 2023-2024. Ma fuori del grande centro della capitale, le strade piene di buche continuano a esasperare la popolazione. Gli agricoltori dell’isola principale di Guadalcanal possono impiegare anche un giorno intero per andare nella capitale a vendere le loro merci. “Cina o non Cina, quello di cui abbiamo bisogno è soprattutto poterci spostare”, spiega Rebecca, che coltiva un piccolo terreno a circa cinquanta chilometri – due ore di auto – da Honiara.

Tuttavia, l’influenza cinese è sempre più visibile. “Prima Chinatown era composta solo da poche strade intorno al fiume Mataniko”, osserva un abitante. “Oggi tutta Honiara è diventata Chinatown, e ovunque si trovano gli stessi negozi e gli stessi prodotti”. Questa espansione irrita addirittura la stessa comunità cinese – numerosa a Honiara, così come in tutte le isole del Pacifico dall’inizio del ventesimo secolo – che si è impegnata a fondo per integrarsi. Il suo esponente più famoso si chiama Tommy Chan. Anzi sir Thomas Chan, dopo che l’ottantenne, instancabile organizzatore di eventi di beneficenza, ha ricevuto il titolo nobiliare nel 2006 dalla regina Elisabetta II, all’epoca ancora capo di stato di queste isole, che fanno parte del Common­wealth. Chan, proprietario dello stravagante Honiara hotel, ha tappezzato l’albergo con le sue foto, e in particolare con quelle della sua nomina e del ricevimento in occasione della visita nel 2012 della coppia reale di William e Kate.

Ma Chan è soprattutto il primo abitante delle Salomone di origine cinese a essere stato eletto in parlamento, nel 1997. E anche se oggi afferma di “essersi ritirato dalla vita politica”, è sempre nel suo albergo che si riunisce il Partito democratico unificato, di cui ha fatto parte anche Manasseh Sogavare prima di essere espulso nel 2016 da Chan, quando era il presidente. Chan è molto critico nei confronti della svolta filocinese dell’ex primo ministro: “Non sono d’accordo con questa politica. Quello di cui abbiamo bisogno è sviluppare l’economia e la produzione locale. Schierarsi con una potenza o con un’altra non fa altro che renderci sempre più dipendenti. E non sono sicuro che ci si renda conto di dove può portarci l’alleanza con Pechino”.

A preoccupare Tommy Chan è il patto di sicurezza siglato tra la Cina e il suo paese nel 2022. Nonostante le ripetute richieste di diversi deputati dell’opposizione di conoscerne il contenuto, il testo rimane segreto. Il Partito democratico unificato, filoccidentale, è convinto – malgrado le smentite dei diretti interessati – che l’accordo contenga una clausola che permetterebbe a Pechino di creare una base militare nell’arcipelago e di intervenire sul suo territorio nel caso i suoi interessi o i suoi cittadini fossero minacciati. Se disposizioni del genere dovessero essere confermate, le Salomone sarebbero il primo stato del Pacifico ad aver superato nuovi limiti nella sua collaborazione con la Cina.

Trascurate da Washington

Situato tra il gigante cinese, il continente americano e l’Australia, l’arcipelago ha un innegabile interesse geostrategico. Cosa di cui sono perfettamente consapevoli gli Stati Uniti. Nell’agosto 1942, otto mesi dopo l’attacco a Pearl Harbour (Hawaii), la riconquista di questo territorio in mano ai giapponesi era diventata la loro priorità per mantenere le linee di comunicazione con l’Australia e la Nuova Zelanda. La battaglia durò sei mesi e fece 37mila morti. Il tributo di sangue versato dal 1° reggimento del corpo dei marine statunitensi fu così pesante che il nome di Guadalcanal, circondato dalle stelle della Croce del Sud, ottant’anni dopo è ancora il suo stemma.

Malaita, isole Salomone, giugno 2023 (Jonas Kako, Panos/Parallelozero)

“Prima di partire alla conquista del Pacifico, Pechino ha meticolosamente studiato la seconda guerra mondiale”, osserva Cleo Paskal, ricercatrice canadese e specialista dell’Indo-Pacifico alla Foundation for defense of democracies, un centro studi neoconservatore statunitense. Dello stesso parere è Toshi Yoshihara del Center for strategic and budgetary assessments, un centro di ricerca con sede a Washington. “La Cina si aspetta di combattere su una vasta area marittima, equivalente a quella delle conquiste del Giappone imperiale nell’estate del 1942”, sottolinea Yoshihara in un rapporto intitolato Chinese lessons from the Pacific war. Implications for Pla warfighting (Le lezioni cinesi della guerra del Pacifico. Implicazioni per l’Esercito popolare di liberazione nella condotta della guerra), pubblicato nel 2023. All’epoca “gli Stati Uniti avevano combattuto lontano da casa loro, mentre il Giappone imperiale cercava di tenerli a distanza. Allo stesso modo, nell’ipotesi di un nuovo conflitto nel Pacifico, l’esercito statunitense dovrebbe inviare delle truppe, mentre l’esercito cinese dovrebbe cercare di mantenere il nemico a distanza dal suo territorio”.

Di conseguenza per coprire l’immensità dell’oceano Pacifico, Pechino ha bisogno di basi avanzate. E quale luogo migliore delle Salomone che, nonostante la loro posizione strategica, sono state trascurate dagli Stati Uniti negli anni novanta? Questo disinteresse, ricorda Cleo Paskal, era legato al contesto della fine della guerra fredda: “Per gli statunitensi era la fine della grande storia. E un discorso simile hanno fatto gli inglesi, che se sono andati nello stesso periodo. Per Washington e Londra era sufficiente affidare il controllo della zona gestita dai Five eyes (l’alleanza tra le intelligence di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda) agli alleati australiani e ai neozelandesi. Così nel 1993 l’ambasciata statunitense a Honiara è stata chiusa”.

E l’Australia, che voleva estendere la sua influenza regionale, si è prestata volentieri all’iniziativa. Così nel 1998, mentre l’arcipelago affrontava un clima da guerra civile, fu Canberra a guidare la Missione di assistenza regionale nelle isole Salomone (Ramsi) e a lanciare nel 2003 l’operazione Helpem fren (aiutare un amico) per disarmare i gruppi ribelli ostili al governo centrale di Honiara. La Ramsi ha impiegato fino a 7.100 soldati e 1.700 poliziotti australiani, mentre le forze dell’ordine locali contavano non più di 1.500 uomini. E anche se le truppe straniere hanno lasciato il paese nel 2013, la Ramsi ha mantenuto una forma di cooperazione regionale per lo sviluppo. Inoltre l’influenza australiana è ancora forte nell’arcipelago, nonostante oggi affronti una forte concorrenza, in particolare dopo il ritorno dell’amico americano.

Oltre alle Fiji anche le Salomone, le isole Kiribati e Vanuatu hanno accettato una cooperazione con Pechino sulle forze di sicurezza

Per contrastare l’influenza di Pechino, infatti, Washington ha deciso di reagire. Nel febbraio 2022 il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha annunciato la riapertura di un’ambasciata a Honiara, chiusa quasi trent’anni prima. Questo non ha impedito alle Salomone, poco più di un mese dopo, di firmare con la Cina il tanto criticato patto di sicurezza. In questa ricerca di cooperazione gli Stati Uniti però non sono rimasti passivi, e hanno coinvolto un partner importante, l’immensa Papua Nuova Guinea, confinante con l’Indonesia e le Salomone e punto di passaggio tra l’Asia e l’Oceania. Il 22 maggio 2023 Blinken è andato a Port Moresby per concludere due accordi di sicurezza. In caso di emergenza l’esercito statunitense potrà usare alcune basi militari della Papua Nuova Guinea, e i guardiacoste statunitensi saranno autorizzati a salire a bordo delle navi del paese nel quadro della lotta contro il traffico di droga e la pesca illegale. Inoltre gli Stati Uniti mantengono il loro controllo alle porte del Pacifico meridionale grazie al rinnovo nel 2023 degli accordi di libera associazione che li legano alle isole Palau, alla Micronesia e alle isole Marshall, che dal 1986 attribuiscono a Washington un accesso esclusivo a questi territori in cambio di aiuti.

In teoria Washington e i suoi alleati dovrebbero avere il controllo della regione grazie alla vecchia e solida alleanza dei Five eyes e all’importanza dei loro investimenti. Da questo punto di vista le isole Salomone sono un ottimo esempio: su un totale di 4,37 miliardi di aiuti internazionali ricevuti dall’arcipelago nel 2023, il centro studi australiano Lowy institute ha calcolato che il 62 per cento proveniva dall’Australia, il 9 per cento dalla Nuova Zelanda e il 6 per cento dal Giappone, mentre i fondi cinesi rappresentavano solo l’1 per cento. Al livello regionale nello stesso anno l’Australia ha distribuito quasi 14 miliardi di dollari, cioè il 40 per cento degli aiuti internazionali. La Cina, il Giappone e la Nuova Zelanda sono molto più distanti, con poco più di tre miliardi di dollari ciascuno, cioè il 9 per cento del totale dei fondi stanziati.

Gli aiuti cinesi avevano raggiunto un picco nel 2016, ma la crisi economica provocata dalla pandemia ha costretto Pechino a stringere i cordoni della borsa. Tuttavia “anche se la Cina dà di meno, la sua influenza rimane forte”, osserva Meg Keen, direttrice del programma delle isole del Pacifico del Lowy institute. Per contrastare questa mancanza di fondi, la Cina si è lanciata nella ricerca, spesso con successo, di contratti finanziati da organismi multilaterali come la Banca asiatica di sviluppo. In questo modo le imprese statali cinesi hanno vinto gli appalti per lo sviluppo del porto di Honiara, così come quello di Aiwo, sull’isola di Nauru, che a sua volta ha rotto i rapporti diplomatici con Taiwan nel gennaio 2024. La Cina, inoltre, può contare sulla sua forza d’urto commerciale: secondo le cifre comunicate da Pechino, il volume dei suoi scambi con i paesi insulari del Pacifico è cresciuto da 153 milioni di dollari nel 1992 a 5,3 miliardi nel 2021.

Infine il gigante asiatico beneficia indirettamente dell’esasperazione degli abitanti di questi arcipelaghi verso l’occidente. “Per gli abitanti del Pacifico gli Stati Uniti sono quelli che arrivano, prendono e se ne vanno”, sintetizza Cleo Paskal. L’amministrazione Biden ha cercato di modificare quest’immagine organizzando due volte, nel 2022 e nel 2023, un vertice Stati Uniti-Pacifico, ma questa strategia regionale è stata ostacolata dai dissensi interni al congresso statunitense. Dissensi che hanno impedito all’ambasciata statunitense, riaperta con grande fasto nel febbraio 2023 a Honiara, di avere un ambasciatore. Nemmeno il servizio consolare è operativo, e questo costringe gli abitanti dell’arcipelago ad andare nella capitale della Papua Nuova Guinea per ottenere un visto.

Anche se i trattati di libera associazione con Palau, la Micronesia e le isole Marshall – molto vantaggiosi per l’esercito statunitense – sono stati rinnovati alla fine del 2023, il congresso di Washington ha indugiato per più di sei mesi prima di votare i sette miliardi di dollari di aiuti nell’arco di vent’anni previsti dai trattati e da cui tre minuscoli stati dipendono completamente. Questo ha provocato un forte risentimento, in particolare nelle isole Marshall, che nel corso dei negoziati avevano accettato di rinunciare a una rivendicazione importante: l’indennizzo per i test nucleari statunitensi condotti nell’arcipelago di Bikini dopo la seconda guerra mondiale. Un’arroganza che ha provocato reazioni perfino a Washington, dove un gruppo trasversale di 26 senatori ha sottoscritto una lettera in cui si segnala l’immagine deplorevole “data a questi paesi alleati, con il rischio di mettere in pericolo le relazioni con gli Stati Uniti e con gli altri paesi della regione, che considerano i trattati di libera associazione come misura del coinvolgimento statunitense nel Pacifico”.

Pure gli alleati degli Stati Uniti non sono stati risparmiati dalle critiche. “Per gli abitanti delle Salomone è più facile andare nel Regno Unito (perché il loro paese è membro del Commonwealth) che nel territorio dei loro vicini australiani o neozelandesi”, osserva Paskal. “Questo provoca molta rabbia tra gli abitanti, che vedono gli australiani andare e venire per le strade di Honiara mentre loro non possono neanche andare a trovare i loro cugini che si sono trasferiti in Australia”.

Il gigante asiatico beneficia indirettamente dell’esasperazione degli abitanti di questi arcipelaghi verso l’occidente

Nel 2023 sono stati 6.700 gli abitanti delle Salomone emigrati in Australia, il più delle volte per dei lavori stagionali per cui sono troppo qualificati, come la raccolta della frutta: “In queste fattorie vanno a lavorare insegnanti, poliziotti, persone di cui il loro paese ha bisogno. Tutto ciò crea ulteriore frustrazione, tanto più che l’Australia e la Nuova Zelanda parlano sempre della ‘famiglia del Pacifico’”, aggiunge Paskal. Questi lavori temporanei svolti in condizioni deplorevoli sono regolarmente oggetto di accuse di “schiavitù moderna”, al punto che nel 2020 il parlamento federale australiano ha creato una commissione d’inchiesta sulla questione. Tale atteggiamento, considerato colonialista nei confronti degli abitanti degli stati insulari del Pacifico, è rimproverato alla diplomazia australiana e neozelandese. All’inizio di aprile la Abc, la tv australiana, che trasmette in tutta la regione, ha pubblicato sul suo sito un durissimo documento interno della pubblica amministrazione di Tonga. Nel testo il piccolo regno polinesiano esprime sdegno per la pressione che subisce dal 2022, dopo la firma del patto di sicurezza che lega la Cina alle isole Salomone. “I punti di vista espressi da Wellington e da Canberra dimostrano una retorica accondiscendente”, si legge nel documento, che sottolinea le contraddizioni dell’Australia, che da un lato “rifiuta di limitare le sue emissioni di gas serra e di capire che il riscaldamento globale è la prima minaccia per la regione”, e dall’altro “ritiene di avere il diritto di decidere sulle alleanze”.

Valori comuni

Simili tensioni fanno gli interessi di Pechino e dei suoi alleati nella regione, che non esitano a ricorrere ad argomenti moralistici. “In Cina non vedrete mai dei mendicanti”, affermava Sogavare durante un comizio elettorale a fine marzo, per poi continuare criticando i “cosiddetti valori occidentali, che permettono agli uomini di sposare degli uomini, e alle donne delle donne”. Argomenti che non lasciano indifferenti nelle Salomone, paese molto religioso dove l’omosessualità è illegale e la solidarietà un pilastro fondamentale della società. “Oltre all’economia, c’è questa posizione ripetuta incessantemente da Pechino sull’esistenza di un presunto divario tra i valori occidentali e i valori tradizionali del Pacifico, che sarebbero più vicini a quelli della Cina”, riconosce un diplomatico presente nella regione. “A tutto ciò bisogna poi aggiungere la complessità delle nostre procedure in amministrazioni ridotte a soli due o tre impiegati, mentre i cinesi si limitano a mettere il denaro sul tavolo. Non c’è dubbio che il modo di fare cinese abbia un maggiore potere di attrazione”. Tranne, però, quando Pechino supera la linea rossa in materia di diritti umani.

Le isole Fiji, che hanno firmato un accordo di sicurezza con la Cina, hanno fatto la dura esperienza della concezione molto particolare che ha Pechino della sovranità dei suoi alleati e della “protezione dei suoi interessi”. Particolarmente istruttivo è un video girato dalle autorità cinesi nell’agosto 2017, in cui si vedono 150 poliziotti cinesi in uniforme sbarcare all’alba sulla pista dell’aeroporto internazionale di Nadi, per poi andare a prelevare nelle loro case 77 cittadini cinesi sospettati di organizzare delle truffe online. Le immagini finali fanno rabbrividire: i prigionieri incappucciati e controllati dai poliziotti cinesi salgono sull’aereo che li riporta in Cina, senza il minimo intervento delle autorità figiane.

Nel 2011 la repubblica delle Fiji aveva firmato un protocollo di cooperazione sulla polizia con la Cina, quando il paese era governato da Frank Bainimarama. All’inizio del 2023 il suo successore, il colonnello Sitiveni Rabuka, aveva pensato di denunciare l’accordo, spiegando che le Fiji avrebbero valutato se non fosse il caso di “cooperare con chi governa in base a valori democratici”. Purtroppo a marzo il nuovo capo del governo ha annunciato il rinnovo dell’accordo con Pechino, che prevede, tra l’altro, la formazione di poliziotti figiani in Cina. In compenso nessun ufficiale cinese sarà più integrato nelle forze dell’ordine locali.

Oltre alle Fiji anche le Salomone, le isole Kiribati e Vanuatu hanno accettato una cooperazione con Pechino in materia di forze dell’ordine. “Questi accordi riflettono bene le ambizioni della Cina, che vorrebbe diffondere i suoi metodi di polizia e, da un punto di vista strategico, consolidare la sua influenza rendendosi indispensabile per garantire la sicurezza nazionale di questi territori”, spiega Anna Powles, ricercatrice neozelandese specializzata in questioni di sicurezza. “Il problema è che i grandi paesi si sono lanciati in una competizione sempre più accesa per imporre la loro visione del mantenimento dell’ordine, con delle implicazioni per la stabilità regionale”.

Il Pacifico continua a essere il teatro di un’aspra lotta tra Pechino e Taipei. Il 30 agosto il Forum delle isole del Pacifico, riunito alle Tonga per il suo congresso annuale, ha irritato Pechino rinnovando, nella dichiarazione finale, il principio del mantenimento dei legami con Taiwan. “Deve trattarsi di un errore”, aveva reagito l’inviato speciale cinese. Il giorno dopo, senza alcuna spiegazione, i dirigenti del Forum hanno ritirato dal loro comunicato qualunque riferimento a Taiwan.

Tuttavia l’aggressività politica cinese ha i suoi limiti. Alle isole Salomone, tre settimane prima delle elezioni politiche del 17 aprile, il sito di giornalismo investigativo In-depth Solomons ha pubblicato un’inchiesta che ha fatto molto discutere. Nell’indagine è stato rivelato l’enorme patrimonio del primo ministro uscente, Manasseh Sogavare, un “uomo partito dal nulla”, come lui stesso ama raccontare, che da ragazzo puliva i gabinetti e preparava il tè per l’amministrazione coloniale britannica. Così, malgrado il sostegno cinese, le considerazioni di politica interna (i sospetti di corruzione e un bilancio economico non brillante) hanno avuto la meglio e il partito di Sogavare è arrivato primo, ma solo di misura. E per poter formare un governo l’uomo forte di Honiara ha dovuto cedere il posto di primo ministro a un suo compagno di partito, Jeremiah Manele. Un fallimento per Sogovare, ma non per Pechino. “Non c’è alcun dubbio che Manele, ex ministro degli esteri del precedente governo, continuerà a seguire una politica filocinese”, osserva Meg Keen del Lowy institute.

Intanto a Honiara, nella piccola sala dove si trova il museo nazionale, un cartello con le parole di un veterano della seconda guerra mondiale riflette bene il duro scontro tra le grandi potenze nell’arcipelago: “Non era la nostra guerra, ma quella di due paesi che avevano deciso di venire a battersi sulla nostra terra”. Una guerra che, ottant’anni dopo, uccide ancora nelle isole Salomone, dove mine e munizioni inesplose continuano a essere bombe a orologeria nascoste nei campi o sotto gli edifici. Il 21 agosto nel sottosuolo di un istituto scolastico della capitale sono stati trovati duecento proiettili d’artiglieria intatti. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati