Alla fine di maggio Volodymyr Zelenskyj ha visitato per la prima volta le regioni dell’Ucraina distrutte dalla guerra. Per tre mesi il presidente ucraino non si era mosso da Kiev, spingendosi al massimo nei dintorni della capitale, ma il 29 maggio è arrivato a Charkiv, nel nordest del paese: ha visto i convogli russi carbonizzati, i palazzi e gli edifici governativi distrutti dalle bombe e ha distribuito medaglie al valore ai soldati.

Che il suo primo viaggio fuori della capitale lo avrebbe portato qui c’era da aspettarselo: Charkiv è la seconda città dell’Ucraina e, come Kiev, è riuscita a respingere gli aggressori russi. Ma mentre la capitale sembra in grado di lasciarsi alle spalle il ricordo della guerra, Charkiv fa fatica a tornare alla normalità. Il nemico è troppo vicino. Nel Donbass l’esercito ucraino ha perso terreno a favore dei russi e, come ha detto Zelenskyj, ogni giorno in battaglia muoiono centinaia di soldati. Qui non c’è spazio per le illusioni.

Nel grigiore del pomeriggio, davanti alla stazione 23 agosto della metro giace il corpo di un uomo, con gli occhi ormai spenti rivolti al cielo. Gli manca la mano destra. Sbiadita dalla pioggia, una scia di sangue arriva fino alla soglia di un negozio vicino. All’ingresso della stazione c’è un altro cadavere. Giù di sotto i passeggeri aspettano: chiedono spaventati quando potranno risalire in superficie. Tre feriti stanno ricevendo cure mediche. Un missile russo si è da poco abbattuto sulla strada davanti alla stazione della metro­politana, rientrata in funzione solo da due giorni.

Lungo i binari

Larissa Paljok, 59 anni, sorregge un poliziotto ferito. Lo conosce: sorveglia la stazione, dove anche lei passa molto tempo. Dall’inizio del conflitto, infatti, la metropolitana di Charkiv è diventata un rifugio antiaereo aperto a tutta la città. Paljok è una volontaria e si occupa dei bambini: gioca con loro e pratica massaggi reiki, la sua passione. Qualche tempo fa una bambina le ha chiesto: “Ma i russi sono come noi?”. “Certo che lo sono”, ha risposto lei.

Per Paljok e per gli altri abitanti della città rivedere la metro­politana in funzione ha avuto un grande valore simbolico: sembrava che il peggio fosse passato, che la vita potesse svolgersi di nuovo in superficie e che la metropolitana potesse smettere di fare da rifugio per tornare a essere semplicemente un mezzo di trasporto. Con il ritiro delle truppe russe, alla metà di maggio, erano diminuiti anche i bombardamenti. Dei dieci bambini che Paljok massaggiava solo cinque erano rimasti nel rifugio. Ma probabilmente il tentativo di ricominciare a vivere normalmente è stato prematuro: il 26 maggio a Charkiv ci sono stati nove morti e diciannove feriti.

I treni, tuttavia, circolano. Lo ha deciso il sindaco, Ihor Terechov, un uomo dal sorriso dolce e dai capelli bianchi. “Se fermiamo il trasporto pubblico muore l’economia. La gente deve poter andare al lavoro”, dice Terechov, che, per motivi di sicurezza, intervistiamo non nel suo ufficio ma in una stazione della metropolitana, all’interno di una stanza piena di monitor collegati alle telecamere di sorveglianza. Sugli schermi vediamo treni che entrano ed escono dalla stazione. Alla parete è appeso il disegno di una colomba fatto da un bambino.

La stazione 23 agosto, ci spiega, è finita sotto il fuoco dell’artiglieria pesante russa, che è schierata nei territori occupati a nord del distretto di Charkiv. Ma se anche le truppe di Putin fossero ricacciate oltre il confine, l’arma in questione – un obice 2S7 Pion – sarebbe comunque in grado di colpire la città: ha una gittata di oltre quaranta chilometri. Chiediamo a Terechov a cosa mirassero le truppe russe. “Lungo il tracciato della metropolitana non ci sono obiettivi militari, a parte il monumento al soldato liberatore, che commemora la seconda guerra mondiale”, risponde il sindaco. “Il fatto è che i russi non vogliono che la nostra città ricominci a vivere. Per loro Charkiv è una spina nel fianco”.

Il sindaco vorrebbe che la città tornasse alla normalità, i russi l’esatto contrario. Gli abitanti, che prima della guerra erano un milione e mezzo, sembrano indecisi: all’inizio del conflitto un terzo aveva lasciato la città, ma sono tornati già in centomila. “A Charkiv c’è di nuovo traffico”, dice il sindaco. E sembra andarne fiero.

L’amministrazione comunale cerca di sottolineare il ritorno alla normalità piantando fiori e pulendo le strade. Terechov voleva rimettere in funzione anche la fontana di piazza della Libertà. Ma dopo l’attacco del 26 maggio ha cambiato idea. “I russi potrebbero sparare sulla folla”, dice. “La loro tattica è seminare il panico”.

E dunque Charkiv è bloccata in un limbo che Kiev sembra essersi lasciato alle spalle: i supermercati sono aperti, ma i bar chiusi; gli edifici governativi sono in macerie, ma ai bordi delle strade si piantano viole. Chiunque scatti fotografie è guardato con sospetto. Di sera la città si spegne e di notte il silenzio è rotto da qualche colpo di artiglieria. I danni più gravi la guerra li ha fatti nella parte nord della città, in particolare nel quartiere di Saltivka. Lì l’artiglieria russa ha sventrato i palazzi, di cui adesso si vede l’interno, come fossero case delle bambole. Nei cortili, al riparo dallo sguardo del nemico, stazionano i soldati ucraini. “Non scattate foto, non pubblicate niente su internet”, si legge su un cartello appeso al cannone di un blindato. I pochi abitanti rimasti a Saltivka stanno portando via gli oggetti di valore rimasti nelle loro abitazioni: lavatrici, frigoriferi, icone religiose.

Nella metropolitana di Charkiv, il 22 maggio 2022 (Bernat Armangue, Ap/LaPresse)

Il momento della ricostruzione

Una settimana prima della visita di Zelenskyj in città uno dei suoi collaboratori più stretti, Kyrylo Tymošenko, è arrivato a Saltivka per ispezionare i danni insieme al sindaco. Tymošenko, 33 anni, indossa una felpa nera con la scritta I’m ukrainian. Ha lavorato come giornalista sportivo, produttore tv e consulente per le pubbliche relazioni, poi Zelenskyj lo ha nominato vicesegretario dell’ufficio presidenziale. Prima della guerra era responsabile della cosiddetta grande edificazione, un piano d’investimenti miliardario grazie al quale in tutto il paese sono stati costruiti ponti, strade e altre infrastrutture. Secondo le voci critiche, le opere sono costate troppo. Ma i risultati sono innegabili.

Oggi Tymošenko è responsabile della ricostruzione: come rimettere in sesto un quartiere di palazzoni che ospita trecentomila abitanti, con intere strade distrutte? Spostandoci in macchina Tymošenko ci spiega che i progetti per i nuovi edifici sono già pronti. Il paese è pieno di sfollati e di persone che hanno perso la casa sotto i bombardamenti: tutti hanno bisogno di un tetto. “La maggior parte delle case di Saltivka andrà abbattuta. Saremo in grado di costruire nuove abitazioni entro la fine dell’anno, ma non vogliamo aprire i cantieri finché c’è il rischio di nuovi bombardamenti”. Quel che si può fare subito è rimuovere gli ostacoli materiali e burocratici e avviare gli scavi per le fondamenta. “Ma cominceremo a edificare solo quando la situazione lo consentirà e i militari daranno il via libera”. Lo stesso vale per i ponti distrutti dai missili russi o fatti esplodere dagli stessi ucraini. “Per allestire un passaggio provvisorio bastano pochi giorni, mentre per ora di ponti veri e propri ne abbiamo ricostruiti pochi”, dice Tymošenko.

Neanche i militari sanno quando potrà avere inizio la grande ricostruzione. “Charkiv non è certo fuori pericolo”, spiega un ufficiale responsabile della difesa della città e dei dintorni. “Se i russi avanzeranno in Donbass, la guerra proseguirà altrove”: l’analisi, sobria e realistica, lascia trapelare l’orgoglio per le proprie truppe e il disprezzo verso il nemico. L’ufficiale è convinto che i russi siano “un esercito di spacconi” e spiega che volevano accerchiare Charkiv per poi avanzare a sud verso Dnipro. “Pensavano che avremmo fatto muro, ma noi siamo stati più furbi”.

Servendosi di unità mobili, confondendo il nemico con attacchi sui fianchi e alle spalle, gli ucraini sono riusciti a compensare lo svantaggio numerico. Secondo il militare, gli scontri più duri si sono svolti a Mala Rohan, un villaggio a est di Charkiv, e nei dintorni. “Lì abbiamo fatto prigionieri duecento soldati russi”. Per raggiungere Mala Rohan prendiamo una strada che si lascia alle spalle la città, superando i posti di blocco dell’esercito ucraino. Nel villaggio i segni della guerra sono evidenti: un elicottero russo abbattuto, blindati crivellati di colpi, postazioni russe distrutte che puzzano di corpi in putrefazione. Era da qui che i lanciarazzi russi bersagliavano la periferia di Charkiv. Mala Rohan è stata liberata a fine marzo, ma ancora oggi vengono ritrovati cadaveri di soldati di Mosca. Gli abitanti del posto ne avevano sotterrato uno in un cratere scavato da una bomba e adesso lo stanno tirando fuori con un’escavatrice: è ridotto a un mucchietto marrone.

Ma non tutti i segni della violenza sono così visibili. Una giovane donna ha raccontato all’organizzazione Human rights watch di essere stata violentata da un soldato russo nella scuola del villaggio, adibita a rifugio.

Sembra che dopo la liberazione alcuni combattenti ucraini abbiano compiuto maltrattamenti e violenze sui soldati russi. Su YouTube circola un video in cui sparano alle gambe di tre uomini. In compagnia di un guardiano, visitiamo l’azienda casearia dove dovrebbero essersi svolti i fatti . Non c’è dubbio: il video è stato girato qui, davanti a una delle pareti ci sono ancora dei bossoli. Ma chi sia stato a sparare non è chiaro. L’ufficiale dice che non sono state le truppe regolari di Kiev.

Anche i volontari di estrema destra del gruppo Kraken, che hanno combattuto a Mala Rohan, prendono le distanze dall’accaduto: “Noi lì non ci siamo proprio stati”, dice Evhen Škirkov, nome di battaglia Vichingo.

Quel che è chiaro, invece, è che l’odio per gli invasori russi è talmente diffuso che nessuno percepisce eventuali abusi come un problema. “Quello che è successo in quel posto non mi interessa”, dice Volodymyr Ussov, presidente del distretto di Charkiv. Non c’è pietà neanche per i collaborazionisti, veri o presunti. Sembra che un uomo abbia rivelato ai russi i nomi degli abitanti del villaggio che avevano combattuto in Donbass. Ci raccontano che, dopo la liberazione, il traditore è morto durante un interrogatorio dell’Sbu, il servizio di sicurezza ucraino. Infarto, si è detto. Nel vicino villaggio di Vilchivka l’Sbu ha arrestato la presidente del consiglio comunale.

Senza futuro

Dietro Mala Rohan, a est di Charkiv, c’è la cittadina di Čuhuïv, intorno alla quale si snoda il fiume Donets, da cui prende il nome il vicino Donbass. A est del Donets comincia la frazione del distretto di Charkiv che è ancora in mano russa. Da lì passano i rifornimenti per l’offensiva di Mosca nel Donbass. Čuhuïv, un’antica città di guarnigione fondata dallo zar Ivan il Terribile, è diventata un avamposto del conflitto russo-ucraino.

Halyna Minaeva, sindaca di Čuhuïv, racconta che il 23 febbraio, il giorno prima dell’attacco russo, il consiglio comunale si era riunito per parlare del futuro della città, dell’inaugurazione di un nuovo centro sportivo, della colonia per i bambini e delle prospettive offerte dal turismo.

La mattina dopo sono cominciati a piovere i missili, ci sono stati alcuni feriti, un bambino è morto. L’obiettivo dei russi era un aeroporto militare. Sono stati distrutti il quartiere Aviator, 59 palazzine, una fabbrica, un centro sportivo e i ponti sul Donets. Eppure si può dire che la cittadina se la sia cavata relativamente bene: al contrario di Mala Rohan, Čuhuïv si è risparmiata l’occupazione. Ma è stata distrutta ogni fiducia nel futuro.

Il nuovo polo tecnologico, che sorge sul terreno di un’ex fabbrica, rischia di chiudere: quale programmatore si trasferirebbe sulla linea del fronte? Al momento il centro, con il suo vecchio rifugio antiaereo, offre riparo a novanta persone, che vivono qui ormai da tre mesi. Ci sono donne, bambini e qualche gatto. Delle lenzuola appese fanno da pareti divisorie e nel cortile è stata allestita una cucina da campo. Immersa nella penombra, incontriamo Olha Bondarenko, 73 anni: “Grazie al cielo qui non si sta malaccio, da mangiare ce n’è a sufficienza”. La gente se ne sta chiusa in cantina, in attesa di tempi migliori. Che forse non arriveranno.

Lidija Sysoeva è rimasta a casa sua, nei pressi del ponte ferroviario distrutto. Ha raccolto le schegge dei missili russi che sono finite nel suo giardino e le ha ammassate vicino al pergolato di vite. Per due volte la casa ha subìto danni dovuti alle onde d’urto delle esplosioni e suo marito non ha ancora riacquistato l’udito. Dall’inizio del conflitto la donna passa le notti nella dispensa sotterranea. Qualche giorno fa ha provato per la prima volta a dormire in casa, ma non è riuscita a prendere sonno e alla fine è tornata nella dispensa.

Alcuni negozi del centro di Čuhuïv hanno riaperto e le strade sono più animate che a Charkiv. Ma è tutta apparenza. La città è ancora senza futuro. La sindaca Minaeva vorrebbe che i russi vedessero come l’hanno ridotta. Vorrebbe spiegargli come stanno le cose. Vorrebbe dirgli: “Guardate cosa ci ha fatto il vostro paese. Ci avete rovinato la vita. Avevamo dei progetti”.

Come Minaeva anche Terechov ha dei progetti per Charkiv: vorrebbe candidarla a ospitare l’Eurovision song contest dell’anno prossimo. “Qui c’è la piazza più grande d’Europa. E siamo una città eroica”, dice il sindaco. “Se al fronte tutto procede bene, abbiamo buone possibilità di farcela”. Il se, però, è piuttosto ingombrante. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati