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L’anno scorso, in una notte d’estate a Liebewil, nel cantone svizzero di Berna, Tobias Burren, in piedi nella camera da letto del suo podere di campagna, cullava il figlio appena nato. Solo un muggito proveniente dalla stalla rompeva il silenzio che li circondava. Più che un muggito sembrava un vero e proprio grido: la mucca chiamava il suo vitellino, Tobias Burren ne era certo. Era stato lui a portarglielo via.
Aveva seguito il metodo, chiamato “linea vacca-vitello”, in cui la separazione del vitello dalla madre avviene a sei mesi dalla nascita e non quasi subito come si fa di solito. Non è un sistema economico e in Svizzera i vitelli allevati in questo modo non sono molti.
Due anni prima le redini dell’azienda agricola familiare erano passate dai genitori a Tobias che, certo di agire per il meglio, aveva scelto la nuova linea, contro il parere del padre. Ma ora era lì, con quella mucca che gridava mentre lui guardava suo figlio. La mucca continuava a gridare e all’improvviso Tobias si è reso conto che, se fosse stato costretto a separarsi dal figlio dopo sei mesi, non avrebbe potuto sopportarlo. E non voleva infliggere una cosa simile a nessun altro essere vivente.
Per ragionare così bisogna essere fuori di testa. Questo pensa per lo più chi lavora nel settore agricolo e probabilmente la maggior parte della gente, compreso Tobias Burren. Fin da piccolo ha visto andare al macello maiali, polli, vitelli, vacche e capre. E di ritorno dai campi a fine giornata, divorava subito due salsicce. Aveva una fame da lupo e il congelatore era pieno di carne, bastava allungare la mano. Ma durante quella notte di un anno fa, Tobias Burren ha preso una decisione: smettere di uccidere. Per un allevatore è una decisione seria, che ha conseguenze non solo per lui, ma per tutta la comunità, che poi è la sua clientela.
Quindi anche per me.
La mia memoria non è delle migliori, ma ricordo perfettamente il giorno in cui io e la mia famiglia siamo andati per la prima volta in campagna a fare la spesa alla fattoria dei Burren. A una ventina di minuti da Berna, sembrava di essere in un altro mondo: si vedevano le cime innevate dell’Oberland Bernese e le distese verdi del massiccio del Giura. Il giardino era tutto fiorito, dal forno arrivava un profumo di pane fresco e nella stanza a fianco un giovane contadino stava preparando il formaggio. Potevamo accarezzare le mucche e le capre, dar da mangiare le carote ai conigli, raccogliere i frutti di bosco. E poi c’erano scaffali strapieni di cose buone. Ben presto la gita dai Burren è diventata un rituale che si ripeteva tutte le settimane. Spesso ci passavamo ore. “Stanno bene gli animali qui, vero papà?”, chiedeva mia figlia e io annuivo. Intanto pescavo dal frigorifero una confezione di maiale sfilacciato. I Burren avevano la migliore carne sulla piazza. Da loro compravamo anche burro, yogurt e latte. Fosse stato per noi, le cose non sarebbero mai cambiate.
Ma nella primavera del 2023, mentre stavamo per pagare i nostri acquisti, Heidi, la madre di Tobias, ci ha messo in mano un dépliant e ci ha detto: “Presto ci saranno dei cambiamenti”.
“Verso la fattoria della vita!”, recitava l’opuscolo. La fattoria della vita? Ho continuato a leggere: “Vogliamo smettere di vedere gli animali come bestiame: vogliamo che qui da noi possano diventare vecchi venendo considerati esseri viventi e compagni di vita. Quindi prossimamente smetteremo di vendere carne, latte e latticini. Investiremo in un’alimentazione a base vegetale e offriremo prodotti alternativi”.
Sentimenti contrastanti
In poche parole, una fattoria della vita è una fattoria vegana. Ricordo di aver provato due sentimenti contrastanti. Sapevo istintivamente che Tobias Burren stava facendo la cosa giusta, ma sentivo anche che stava mettendo in questione lo stile di vita di tutti.
Navigando su internet, ho scoperto con sorpresa che secondo le statistiche le persone che scelgono un’alimentazione vegana sono molte meno di quante immaginavo. In Svizzera circa il 5 per cento della popolazione segue una dieta vegetariana, ma a rinunciare del tutto ai prodotti di derivazione animale è meno dell’1 per cento. La categoria più ampia all’interno di quell’1 per cento sono le donne che vivono in città.
La famiglia Burren è composta dal bisnonno Fritz, 93 anni, dai nonni Heidi e Ruedi, 60 e 65 anni, dai genitori Christine e Tobias, 32 e 33 anni, e da due figli, uno di due anni e una di nove mesi.
Negli anni ottanta, Fritz e Ruedi gestivano la fattoria insieme. Era un’azienda agricola relativamente piccola con 16 ettari di superficie coltivata. Poi Ruedi ha conosciuto Heidi: figlia di contadini della zona di Lucerna, aveva appena concluso un corso di formazione da assistente domiciliare e si era trasferita a Berna per lavoro. Heidi però non amava particolarmente la vita di città e, nel tempo libero, frequentava le iniziative della gioventù rurale: grigliate, gare sportive, spettacoli teatrali. Ruedi era il presidente della sezione di Berna. Nel 1987 Ruedi e Heidi si sono sposati e nel 1988 hanno avuto il primo di tre figli, nati a due anni di distanza l’uno dall’altro.
Pian piano però, le cose alla fattoria sono peggiorate. La nuova stalla, costruita per ospitare cinquanta suini da ingrasso e cinquecento galline ovaiole, non rendeva. Prima era calato il prezzo della carne di maiale (capitava che i Burren, una volta sottratte le spese, su una scrofa ingrassata per tre mesi guadagnassero appena venti franchi, circa venti euro), poi quello delle uova (d’estate spesso ce n’erano talmente tante che le grandi aziende non sapevano più che farsene) e alla fine anche quello del latte.
Le opzioni erano due: arrendersi o associarsi con altri per formare un’azienda più grande. Ma già allora i Burren preferirono un’altra strada.
In un pomeriggio d’inizio estate, seduta nell’aia, Heidi Burren comincia a raccontarmi dei tempi andati. È una donna gioviale, ma anche una gran lavoratrice: ogni volta che vengo dai Burren la trovo indaffaratissima. Non è un tipo ansioso, suo marito Ruedi invece sì. Lei racconta di non averlo mai visto tanto in ansia come in quel periodo, quando il calo dei prezzi li aveva messi alle strette. Poi, però, ci pensa un attimo mentre guarda le aiuole circondate da sciami di api. “No, non è vero. Adesso Ruedi ha le stesse ansie di allora”. Quando dice “adesso”, Heidi intende dire: da quando Tobias ha deciso di non produrre più carne. Significa che dal giorno in cui macelleranno l’ultimo capo di bestiame, dovranno rinunciare a un quarto dell’intero fatturato.
“È vero: in futuro guadagneremo di meno”, ammette Tobias. “Ma avremo anche meno spese”. Allevare bestiame costa: una mucca, per esempio, costa quattromila franchi all’anno.
Prezzi stracciati
Ma perché i suoi genitori sono così scettici? Parlare con Ruedi, di solito è facile: per due chiacchiere ha sempre tempo. Quando gli chiedo un incontro per parlare dei cambiamenti che sta attraversando l’azienda, mi propone una data, ma poi, quando mi vede arrivare salta in macchina e se ne va. Perché non vuole parlarmi? “Devi dargli tempo”, dice Heidi. Alla fine riuscirò a parlare con Ruedi e sarà una chiacchierata che non dimenticherò tanto presto.
Per capire il presente a volte bisogna guardare al passato. Torniamo allora agli anni novanta, un altro periodo di grandi cambiamenti per la fattoria dei Burren: non per ragioni etiche, come oggi, ma per preoccupazioni di natura economica. Era l’epoca della grande crisi delle fattorie: tra il 1990 e il 2005 in Svizzera sono scomparse quasi trentamila aziende agricole.
Mentre Ruedi e suo padre Fritz si occupavano dei campi e delle stalle, la giovane Heidi cercava nuove fonti di guadagno: andava all’istituto agrario di Rüti dove si tenevano incontri informativi destinati alle famiglie contadine che volevano (o dovevano) cambiare modello economico. Un’idea che le piaceva e le pareva fattibile era la cosiddetta vendita diretta.
Per vendere i prodotti alimentari direttamente ai clienti, senza intermediari, servivano molti cambiamenti. I Burren hanno coltivato l’orto e fatto crescere i frutti di bosco e hanno affrontato nuove questioni: potrebbe valer la pena piantare la colza per produrre olio? E le zucche? Dai genitori Heidi aveva imparato a fare il pane nel forno a legna. Anche dai Burren ce n’era uno, inutilizzato da anni. Magari si poteva provare a vendere il pane cotto nel forno a legna? Più ci pensava, più Heidi si convinceva che poteva funzionare.
Tutto è cominciato con un giro a Bümpliz, un quartiere alla periferia di Berna: due o tre volte alla settimana Heidi vendeva uova e patate porta a porta. Poi è arrivato il banco al mercato e infine lo spaccio in fattoria. Quando hanno trovato un macellaio a Flamatt, i Burren hanno smesso di cedere il bestiame a prezzo stracciato a un grande mattatoio e hanno cominciato a vendere anche la carne.
Uno degli uomini di famiglia era scettico, ma non era Ruedi. Era il bisnonno Fritz. “Come vi salta in testa di piantare ortaggi?”, chiedeva. “Non può funzionare! Perché la gente dovrebbe venirsene da noi in campagna se può andare in un supermercato?”. Fino a quel momento l’impresa di famiglia funzionava così: coltivavano patate e mais e allevavano il bestiame, vendendo i prodotti alla grande distribuzione, proprio come tante altre aziende agricole.
Alla fine del racconto che mi ha fatto in quel pomeriggio d’inizio estate seduta nell’aia, Heidi non sa se ridere o piangere: “Mi pare che dopo un quarto di secolo la storia si ripeta”. Proprio come Fritz, anche Ruedi oggi è convinto che i giovani abbiano troppi grilli per la testa. Insomma, in casa Burren è in corso un classico scontro generazionale.
Per capirlo meglio dobbiamo guardare ai numeri: sapete quanti animali destinati al mercato svizzero vengono uccisi in un anno? Forse uno per ogni abitante? No: dieci. Dieci animali morti a testa, per un totale di 85 milioni di animali, macellati ogni anno in Svizzera. Per noi. E allora se qualcuno vi dice che mangia molta meno carne rispetto al passato, una volta alla settimana al massimo, voi prendetelo per buono, ma non crediate che questo incida più di tanto sul quadro generale. Ormai il consumo di carne diminuisce in modo quasi impercettibile: nel 2022 il consumo pro capite si attestava ancora sui 51 chili di carne (sessanta considerando anche pesce e crostacei), che corrispondono a un chilo alla settimana. In media, in Svizzera ognuno di noi si spazzola cinque bistecche ogni sette giorni.
Ma la cosa sorprendente è che, anche se la quantità di carne a testa diminuisce, seppure di poco, il numero di animali uccisi aumenta di molto, da un lato perché cresce la popolazione, dall’altro perché mangiamo meno maiale e manzo ma più pollo. In totale, per il mercato svizzero ogni anno uccidiamo 22 milioni di animali in più rispetto a dieci anni fa. La catena di supermercati Migros ha in programma un nuovo mattatoio nel comune di Friburgo con una capacità di macellazione – che razza di termine! – di 40 milioni di polli all’anno: 76 polli al minuto. Come faccio a tenere separati l’animale che viene ucciso da quello che mangio? Direi che ce la faccio perché c’è chi mi dà una mano. È la “cultura dell’invisibilizzazione”, come l’ha chiamata il giornalista tedesco Bernd Ulrich in un articolo in cui spiegava perché è diventato vegano. Io ci riesco perché la frase che mi sono appuntato – “uccidiamo 85 milioni di animali all’anno” – fondamentalmente è sbagliata: non li uccidiamo noi, li uccide qualcun altro per noi. E l’industria della carne ce la mette tutta per aiutarci a non accorgercene. Scrive Ulrich: “Gli animali sono nascosti negli allevamenti e anche le uccisioni avvengono di nascosto. E il fatto che ogni singola morte lasci una ferita nell’anima di chi spara il proiettile in fronte all’animale non c’interessa: sono problemi suoi”.
Tu non uccidere
Tobias Burren non ha mai dovuto sparare in fronte a un animale, ma nel corso degli anni ha sospinto nel rimorchio centinaia di animali che aveva allevato con amore. Lo faceva perché è così che si è sempre fatto, perché così il nonno aveva insegnato al padre e il padre a lui. “Ma io così non ce la faccio più, non lo sopporto. Non voglio continuare a fare come si è sempre fatto solo per far contenti mio padre e mio nonno”, mi ha detto una volta che lo accompagnavo nei campi. Gli chiedo cos’è che vuole allora. “Voglio che i miei bambini non crescano come sono cresciuto io”, risponde. “A me hanno insegnato a trattare bene gli animali. E perché?”, chiede Tobias fermandosi a guardarmi. “Per poterli uccidere!”.
Il progetto dei Burren – rinunciare alla produzione animale per motivi etici e passare a una produzione esclusivamente vegetale – è talmente insolito che non ha neanche un nome. Agricoltura vegetale? Agricoltura vegana? Agricoltura postletale?
Letale significa portatore di morte. L’agricoltura postletale vuole essere produttiva senza dover uccidere. È un termine coniato da Stefan Mann, esperto di economia agraria, autore del libro Postletale landwirtschaft: zur anstehenden reform unseres agrarsystems (Agricoltura postletale: sulla riforma del nostro sistema agricolo). M’imbatto in Mann quando contatto Agroscope, il centro nazionale di ricerca nel settore agricolo. L’ufficio stampa mi propone di intervistarlo. Poi però succede una cosa strana. Dopo un intenso scambio di email, a pochi giorni dall’appuntamento, all’improvviso Mann annulla l’intervista “su consiglio dei miei superiori”. Gli chiedo se può dirmi il perché di questo consiglio. A questo punto però interviene di nuovo l’ufficio stampa. Alla fine l’intervista si fa, ma a nuove condizioni. Ci sono un’addetta stampa, un rappresentante di Agroscope e uno Stefan Mann di pochissime parole.
Questa sua reticenza è piuttosto sorprendente, visto che nel frattempo ho scovato una trasmissione su radio Norddeutscher Rundfunk in cui Mann espone senza remore le sue idee e i risultati della sua ricerca.
In poche parole, secondo Stefan Mann – pronipote dello scrittore Thomas Mann e nipote del premio Nobel per la fisica Werner Heisenberg – rinunciare a uccidere e a mangiare gli animali è sensato dal punto di vista ecologico e doveroso dal punto di vista etico. Ci troviamo, spiega Mann, all’inizio di una nuova era: presto allevare bestiame non sarà più considerato socialmente accettabile.
Nella trasmissione, Mann – che è carnivoro – aggiunge: “Perché la schiavitù è stata abolita e l’allevamento no? In fondo in entrambi i casi gli esperti sono quasi tutti d’accordo nel considerarli fenomeni eticamente insostenibili. La differenza sostanziale sta nell’utilità. La schiavitù non è mai servita a un gran numero di persone, mentre l’allevamento serve a tutti e quasi tutti i giorni: rende la nostra vita decisamente più comoda. Ma a mano a mano che i prodotti sostitutivi migliorano, le cose cambiano. Ora abbiamo latte d’avena, bistecche vegetali, uova che non sono uova”.
Parlando con me, però, Stefan Mann non fa parola di tutto questo. Il rappresentante del consiglio d’amministrazione di Agroscope mi spiega che, tra le linee di ricerca dell’istituto non c’è l’agricoltura vegana e poi passa a informarmi sui vari aspetti della produzione animale. Parlo con giornalisti e ricercatori che si occupano di agricoltura e mi spiegano che Agroscope non vuole rovinare i rapporti con i contadini e la loro lobby nell’assemblea federale, visto che l’istituto riceve finanziamenti dallo stato per circa 170 miliardi di franchi all’anno. Il settore agricolo osserva con attenzione i temi di cui il suo istituto di ricerca si occupa. Se Agroscope approfondisse troppo o si esprimesse troppo positivamente sull’agricoltura vegana, molti si chiederebbero quale sia il legame di queste ricerche con la realtà, visto che in Svizzera quasi il 90 percento dei terreni agricoli è destinato all’allevamento e due aziende agricole su tre si dedicano esclusivamente a quest’attività.
Ma perfino secondo la Confederazione c’è bisogno di più agricoltura vegana. Per due anni uffici federali e lobby si sono scontrati sul documento “Strategia climatica per l’agricoltura e l’alimentazione 2050”, pubblicato a settembre del 2023. La Svizzera vuole ridurre il consumo di carne e aumentare la produzione di frutta e verdura. Per raggiungere l’obiettivo sarà riformato anche il sistema dei pagamenti diretti: meno soldi all’allevamento e più soldi alle coltivazioni. Ma il documento sarà approvato? Un rappresentante dell’Unione svizzera dei contadini ha dichiarato in un’intervista che il sindacato farà opposizione, difendendosi da questo tentativo di indebolire la produzione animale. Del resto, finché la gente continuerà a mangiare carne, queste politiche non faranno altro che far aumentare le importazioni.
Recentemente Markus Ritter, che è il presidente dell’Unione svizzera dei contadini, ha spiegato in tv la prospettiva della sua organizzazione nelle politiche alimentari: “Con tutto l’apprezzamento per la farina di lupini, restiamo saldamente legati alla salsiccia di Olma e a quella di Appenzell”.
Se dovessero sembrarvi parole di scherno sappiate che non lo sono. So bene cosa significa vedere il mondo del lavoro cambiare più rapidamente di quanto si vorrebbe e capisco perfettamente che contadine e contadini si sentano oppressi da regolamenti, obblighi e norme sempre nuovi. Da molto tempo gli si chiede di produrre in modo più efficiente, più biologico e più sano e ora di essere anche più ecologici. Tra l’altro, secondo me la maggior parte di loro vorrebbe farlo. Chi è che non desidera un mondo migliore? Però vorrebbero essere loro stessi a dettare il ritmo di questi cambiamenti.
Un puro spreco di risorse
Solo che quando si tratta di clima il tempo a disposizione non è infinito. Il consumo di carne ha un enorme impatto sul riscaldamento globale, innanzitutto perché i bovini da carne e le mucche da latte digerendo emettono metano, un gas che incide sull’effetto serra molto più della CO2: è circa 25 volte più dannoso. In secondo luogo, nutrire il bestiame ha effetti deleteri sul clima: di tutte le calorie vegetali usate per mantenere in vita un organismo animale solo una minima parte viene reimmessa nel sistema in forma di calorie animali. La gran parte degli alimenti vegetali assunti dal bestiame, infatti, non si trasforma in massa muscolare ma in energia metabolica, proprio come avviene nell’organismo umano. Come spiegava alla radio Stefan Mann: “Da un punto di vista ecologico, soprattutto la produzione di polli e maiali risulta essere un puro spreco di risorse.”
E allora, l’Unione dei contadini non dovrebbe dare il buon esempio? O magari l’istituto di ricerca del settore? La scienza non è forse l’avanguardia del progresso?
E invece a dare il buon esempio è Tobias Burren, giovane agricoltore che gestisce una piccola azienda a Liebewil. Più che le considerazioni sul clima, a spingerlo è la sua coscienza. Ma il risultato è lo stesso.
Tobias è il secondo di tre fratelli, ma è l’unico che si sia mai voluto occupare della fattoria. Da bambino era un sognatore e adorava passare il tempo con i conigli che nell’aia. Suo padre li allevava per guadagnare qualche soldo in più vendendone la carne, ma Tobias se ne prendeva cura. Una volta la madre ne ha fatto macellare uno – “Qualcosa con quei conigli bisognava pur farla!” – e lo ha servito ai bambini spacciandolo per pollo. Tobias però se ne è accorto, si è arrabbiato moltissimo e non ne ha mangiato neanche un boccone.
Al momento di passare il testimone, a Ruedi sarebbe piaciuto affiancare per qualche tempo il figlio Tobias nella gestione dell’azienda agricola, come aveva fatto suo padre Fritz con lui negli anni ottanta. Ma Ruedi intuitiva che Tobias aveva opinioni diverse su questioni fondamentali e perciò ha deciso di cedergli direttamente le redini. Tobias gestisce l’azienda dal 2020. Allora aveva trent’anni ed è subito passato all’agricoltura rigenerativa e alla linea vacca-vitello e si è dato da fare per ottenere la certificazione bio. A Ruedi la rapidità di quei cambiamenti dava ai nervi, ma si è messo a studiare gli argomenti che interessavano al figlio e ne ha capito le motivazioni.
In quel periodo Tobias ha conosciuto Christine, figlia di agricoltori del Canton Soletta, attraverso un annuncio pubblicato nella rubrica “Incontri” del giornale Schweizer Bauer. Dopo una formazione da cuoca, Christine aveva studiato economia aziendale, poi aveva cominciato a lavorare a Berna al Servizio d’informazione agricola. Aveva giurato che non avrebbe mai fatto la contadina, perché a scuola spesso la prendevano in giro per il lavoro dei genitori.
All’appuntamento con Tobias si era presentata senza grandi aspettative. E invece avevano chiacchierato per ore. La seconda volta si erano incontrati per andare a passeggio sul fiume Aare e al terzo appuntamento Christine era andata alla fattoria. Nel 2020, dopo aver dato le dimissioni dal Servizio d’informazione agricola, non riusciva a trovare un nuovo lavoro e allora Tobias le ha detto che aveva bisogno di una mano in azienda. In primavera è arrivato il covid e in estate Christine era incinta.
Il grido di mamma mucca
Nel corso dei loro percorsi di formazione né Christine, cuoca ed economista, né Tobias, agricoltore e agronomo, avevano mai sentito nominare l’alimentazione o l’agricoltura vegana. Semplicemente non era all’ordine del giorno. “Quando la tv svizzera ha mandato in onda un reportage su una fattoria della vita ci siamo fatti quattro risate”, racconta Tobias. “Ci siamo chiesti come potesse funzionare e poi eravamo convintissimi che gli animali facessero parte della catena alimentare”.
Tobias è seduto al pianterreno del podere, nell’ampia cucina dove si preparano pranzo e cena per la famiglia e i dipendenti – un panettiere, una commessa e tre collaboratrici agricole che, molto tempo prima della guerra, sono arrivate qui dalla Russia e dall’Ucraina.
Arriva anche Christine e la coppia mi racconta la sua storia. Di quando Tobias ha sentito gridare mamma mucca mentre cullava il figlioletto e di come poi, in preda all’inquietudine, si è coricato al fianco di Christine; di come il giorno dopo non riuscisse a concentrarsi sul lavoro; e di come quella notte, quando tutti dormivano, le abbia raccontato tutto.
“Mi sono sentita attaccata”, racconta Christine. “Mangiavo e cucinavo carne e poi sono cresciuta in mezzo al bestiame”.
“L’idea ti piaceva, ma volevi che ci dessimo qualche anno di tempo”, dice Tobias.
“Pensavo che non fosse il caso di cogliere di sorpresa i clienti”.
“Passata qualche settimana, però, hai detto ad alta voce quello che io avevo solo pensato: la riconversione doveva avvenire il prima possibile”.
Tutto questo succedeva alla fine dell’estate scorsa. Ma al sollievo di aver preso una decisione sono seguite le preoccupazioni: come dirlo a suo padre? E quando informare la clientela? Cosa ne sarebbe stato degli animali in eccesso?
A Heidi l’hanno detto subito. Per motivi di salute aveva praticamente smesso di mangiare carne e latticini, e in un certo senso sembrava contenta del fatto che i giovani facessero i loro esperimenti. Ma a Ruedi, Tobias e Christine non hanno detto niente fino all’ultimo momento. Lo scorso autunno, Ruedi ha aperto la casella di posta elettronica di famiglia e ha trovato un’email che Tobias aveva inviato ad altre aziende agricole. È stato così che ha saputo che il loro ultimo vitello sarebbe nato all’inizio 2023. L’ultimo vitello? Ruedi non riusciva a capire. Poi ci è riuscito, fin troppo bene.
Facendo ricerche per scrivere questo articolo ho letto tante statistiche e c’è un dato che mi è rimasto particolarmente impresso: a livello globale, la biomassa del bestiame supera di gran lunga la biomassa di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali selvatici messi insieme. Sembra assurdo, ma è vero. Questa è l’era della carne.
Sembra altrettanto assurdo immaginare un mondo vegano in cui non si mangi altro che prodotti di origine vegetale. Ma è questo il futuro che ci aspetta? Più passo il tempo con i Burren più me lo chiedo.
Di molte cose non hanno esperienza, ma Tobias e Christine sono pronti a imparare tutto quello che c’è da sapere sull’agricoltura vegana. Prima hanno provato con i ceci – ma le estati di Liebewil sono troppo umide per questo legume. Allora è toccato a lenticchie e lupini dolci: raccolto soddisfacente. Tra poco raccoglieranno il mais da polenta e non vedono l’ora di vedere come andrà. Poi il latte di miglio e ricette per chutney, kechup e kofu, una specie di gnocchetti di ceci.
La carne si continua a cucinare quasi tutti i giorni per chi è ancora carnivoro, ma Tobias e Christine seguono ormai una dieta vegetariana con tanti piatti vegani, anche se non riescono ancora a rinunciare ai gelati alla crema in estate e a un goccio di latte di mucca nel caffè.
Che sia questo il futuro?
Non staremmo tutti meglio seguendo una dieta vegana? Nessun animale dovrebbe morire per nutrirci, noi non dovremmo uccidere e ci risparmieremmo anche tutti i danni che l’eccessivo consumo di carne procura alla salute. E l’ambiente non subirebbe più l’impatto del metano emesso dai ruminanti. Sembrerebbe la soluzione migliore. Ma per quanto sia da augurarsi e per quanto la si senta ripetere, purtroppo non è così semplice.
Bisogna tenere conto di due fattori: la crescita della popolazione e gli spazi limitati. È una questione nota come Challenge 2050, un dilemma che scienziate e scienziati di tutto il mondo cercano di risolvere: come faremo, nel 2050, a nutrire dieci miliardi di persone senza distruggere il pianeta?
Tobias e Christine non vogliono mica salvare il mondo: sarebbe un atto di presunzione. Lo fanno per sé e per i loro animali e per profonda convizione
Una risposta è: meno carne. Ma la risposta può essere anche “zero carne”?
Telefono a Urs Niggli, esperto di agricoltura, da anni a capo dell’istituto di ricerca per l’agricoltura biologica. Attivo nel settore da una vita e apprezzato in tutto il mondo, Niggli è anche un tipo polemico. Collabora con Agroscope come consulente scientifico, ma non rinuncia a fare le sue critiche al settore agricolo. Gli chiedo se ritiene possibile nutrire l’umanità intera con una dieta vegana. “Quanto tempo ha?”, chiede di rimando. Io gli dico di darmi la risposta più lunga.
È vero, spiega, che attraverso il mangime molte proteine e molta energia vegetale vanno a finire nella produzione animale. Ma è sbagliato pensare che tutto ciò potrebbe essere impiegato altrettanto facilmente per nutrire direttamente gli esseri umani. Buona parte dei terreni a uso agricolo, infatti, sono prati e pascoli strappati alla natura nel corso dei secoli. Ovviamente il rapporto tra i terreni erbosi e le cosiddette superfici coltivabili su cui piantare frutta, verdura e cereali su larga scala non è lo stesso ovunque nel mondo: negli Stati Uniti, per esempio, c’è la corn belt del Midwest, con le sue enormi pianure adattissime all’aratura con mezzi agricoli motorizzati. Anche in Germania le superfici coltivabili sono più estese di quelle erbose. Ma in Svizzera circa metà dei terreni a uso agricolo sono inadatti alla coltivazione di prodotti vegetali a uso umano, perché troppo ripidi, troppo sassosi o troppo argillosi, o tutte e tre le cose insieme.
Certo, si può fare l’orticello davanti alla baita di montagna, ma c’è un unico modo per ricavare grandi quantità di cibo dai terreni erbosi svizzeri: destinarli al pascolo dei ruminanti. Può darsi che allevare bestiame sia dannoso per il clima e che nutrirlo con i mangimi costituisca un uso poco efficiente delle risorse, ma d’altra parte è un modo efficientissimo per trasformare terreni per lo più inutilizzabili in calorie animali commestibili.
Secondo Niggli “non c’è un’unica soluzione a tutti i nostri problemi. Dovremmo ringraziare per ogni vegano e per ogni agricoltore che si converte all’agricoltura vegana, perché la carne che consumiamo è troppa. Ma se consideriamo il fatto che il cambiamento climatico limiterà enormemente la produttività agricola, siamo costretti ad ammettere che nutrire l’umanità intera senza prodotti di derivazione animale è impensabile, anche se dovessimo ridurre molto gli sprechi alimentari. Lasciare inutilizzati tutti i pascoli sarebbe assurdo”.
A livello globale la biomassa del bestiame supera di gran lunga la biomassa di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali selvatici
Tutto questo lo conferma anche un grande studio del 2016. In una simulazione, ricercatrici e ricercatori di sei università statunitensi hanno messo a confronto dieci modelli alimentari – vegano, vegetariano, flexitariano e altri – per verificarne la sostenibilità. Ne è risultato che il modello capace di nutrire il maggior numero di persone è quello della dieta vegetariana senza uova. In un mondo puramente vegano, infatti, i terreni agricoli inutilizzati sarebbero troppi.
Un nuovo inizio
L’ultimo animale i Burren lo macellano un lunedì freddo e piovoso di fine agosto. A Ruedi è sempre piaciuto andare dal macellaio, ma oggi si rifiuta. Tocca a Tobias. La cosa gli ripugna, ma sa che in futuro le cose andranno meglio. Un anno fa, quando ha deciso di smettere di uccidere gli animali, sapeva che da quel momento in poi avrebbe sentito un tuffo al cuore per ogni animale che gli sarebbe ancora toccato uccidere.
Ma uccidere ancora sarebbe stato necessario, perché i Burren avevano semplicemente troppi animali e Tobias e Christine avevano deciso di tenere solo quelli che erano in grado di nutrire senza dover comprare il mangime. Secondo loro, gli animali, “bestiame” compreso, fanno parte del ciclo vitale di una fattoria. E qui, alla fattoria vegana dei Burren di Liebewil, le mucche non serviranno più a fornire latte e carne, ma a mangiare l’erba dei pendii scoscesi e a fornire letame con cui Tobias produrrà il concime da usare nei campi.
Questo nuovo tipo di allevamento sarà meno costoso, ma non sarà a costo zero. Non esiste per ora nessun sistema che paghi i contadini per tenere animali senza finalità economiche. Non sono previsti pagamenti diretti federali per chi mantiene in vita gli animali invece di ucciderli. E allora i Burren dovranno fare affidamento sui contributi di chi vorrà adottare a distanza un animale della fattoria. Sono rimasti tredici vacche, tre buoi, sei capre, quattro conigli, due gatti, duecentocinque galline e due galli. Più avanti, quando avranno ristrutturato la stalla, i Burren compreranno anche due o tre scrofe, per smaltire i resti della cucina e del frantoio.
Alla fine dell’estate, vedendomi arrivare per il nostro secondo appuntamento, Ruedi Burren non scappa. Ci sediamo nella cucina al pianterreno: sulla parete di legno è appeso l’atto di proprietà. Costruito nel 1840, il podere è entrato in possesso della famiglia di Ruedi settant’anni dopo, quando il suo bisnonno l’ha comprato per il figlio. Il nonno di Ruedi, infatti, non voleva saperne di occuparsi della segheria del padre a Oberwangen, Berna: voleva fare il contadino. Ruedi andava ancora a scuola quando ha promesso al nonno in punto di morte che, quando sarebbe stato il suo turno, si sarebbe occupato lui della fattoria di famiglia
Il fatto che Tobias, unico tra i suoi tre figli, abbia deciso di seguire le sue orme, per Ruedi dev’essere stato molto bello. Ma poi lo scorso autunno, scoprendo per caso i progetti del figlio e della nuora si è arrabbiato: non capiva. Mi racconta di aver fatto pressioni su Tobias dicendogli che avrebbe portato la famiglia alla rovina. È passato quasi un anno, ma quei timori non sono scomparsi: mentre parla, Ruedi si stropiccia gli occhi arrossati, passa nervosamente le mani sul tavolo e mi racconta delle notti insonni che solo le pasticche riescono a evitargli. Si rifiuta di farsi immortalare dalla fotografa che, insieme a me, per due giorni trascorre molto tempo alla fattoria.
All’inizio del 2023 ha sentito parlare del suicidio di un giovane contadino. Qualcuno diceva che non fosse riuscito a soddisfare le aspettative del padre. “Allora mi sono detto, maledizione, una cosa del genere non potrei sopportarla”, racconta. Da allora ha diminuito le pressioni sul figlio.
“Capisco in che direzione sta andando”, spiega. “E sembra assurdo anche a me usare metà dei cereali mondiali per dar da mangiare agli animali. Ma c’è davvero bisogno di scelte estreme come quella di Tobias? Non basterebbe mangiare tutti un po’ meno carne?”.
Forse, osservo io, abbiamo bisogno di gente come Tobias e Christine: sono avanguardie. Lui sbuffa. “Sarebbe meglio se non si trattasse di tuo figlio?”, chiedo.
“Guarda, se riusciamo a non andare in rovina, non m’importa. Ma se andiamo in rovina, allora sono guai”.
“Ti senti sotto stress per i soldi?”.
“Da morire, sì”, ammette. Poi resta in silenzio. “Heidi è più giovane di me, le tocca lavorare ancora qualche anno. Lei dice che sta bene qui”, riprende.
Con cautela, gli chiedo se è possibile che magari agli occhi di Heidi quest’idea della fattoria della vita non sia poi tanto male. “Sicuramente per lei non è pesante come per me. Lei pensa che i giovani di oggi fanno a modo loro, proprio come noi facevamo a modo nostro. Io invece ho paura”.
“Ho paura che non bastino i soldi, che i clienti non siano poi così pronti. Molti venivano qui a fare la spesa per tutta la settimana. Non verranno più. Costruirsi la clientela è un lavoraccio, ma a perderla non ci vuole niente”.
“Sai”, mi dice Ruedi prendendo fiato, “mi fa arrabbiare il progetto di ampliamento a sei corsie dell’autostrada di Zurigo. E mi fa arrabbiare anche il consumo di suolo agricolo! Mi fa venire da piangere. Fanno tutti finta di niente e il mondo va avanti come se niente fosse. Ma mio figlio è convinto che il mondo deve salvarlo lui, che deve cambiare tutto dall’oggi al domani senza la minima esperienza. Io questo non lo capisco”. Quando gli dico che è un buon motivo per essere fiero di suo figlio, Ruedi inclina la testa e annuisce piano.
Purtroppo, è solo sulla via del ritorno che mi viene in mente che Tobias e Christine non vogliono mica salvare il mondo: pensare così in grande a loro sembrerebbe un atto di presunzione. Vogliono salvare solo se stessi. Lo fanno per sé e per i loro animali. E non hanno alternative, fanno quello che possono e lo fanno per profonda convinzione. Non si aspettano che altri seguano il loro esempio, anzi: l’ambizione di essere da esempio non gli appartiene proprio.
Già in primavera, Tobias mi diceva: “Se nei prossimi anni ci renderemo conto che senza le entrate della produzione animale l’azienda non sta a galla ce ne faremo una ragione e penseremo a qualcos’altro. Noi non abbandoniamo la produzione animale per ragioni economiche, la abbandoniamo perché vogliamo smettere di uccidere”.
I tempi cambiano e non è facile venire a patti con il cambiamento. I giovani sono impazienti perché i vecchi non riescono a adattarsi e i vecchi temono che il cambiamento non sia altro che una moda che potrebbe danneggiare famiglia e affari. Insomma, sia i giovani sia i vecchi vogliono che le cose vadano per il meglio. E io credo che la storia della famiglia Burren parli proprio di questo. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati