Maude si annoia. È tornata da scuola, fuori è già buio e lei indugia nel suo malessere di tredicenne a casa della madre e del patrigno, vicino a Nancy, nel nord della Francia. Tutte le volte che passa davanti allo specchio si riaffacciano le domande che riempiono la sua adolescenza: a chi appartengono quegli zigomi alti e quei capelli neri? Da dove vengono gli occhi scuri e i tratti spigolosi? E quel corpo muscoloso, robusto e allo stesso tempo slanciato? Maude somiglia indubbiamente alla madre, ma non ha nulla del padre.
È già da due anni che ha dei dubbi, e ha elaborato una teoria: la madre deve aver tradito il padre. Lei è una donna forte, “una leonessa”, mentre lui a volte sembra molto debole. Da quando aveva due anni, cioè da quando i suoi genitori hanno divorziato, Maude conduce due vite diverse: quella con il padre, con tante persone in casa e feste dove lei è l’unica bambina; e quella con la madre, in una famiglia più tradizionale, dove si ascolta radio France Inter e si legge Télérama, e dove lei è una brava bambina. Da parte di madre, Maude ha un fratello più grande e due sorelle più piccole, ma è l’unica nata dalla breve e burrascosa storia tra i suoi genitori, durata dal 1978 al 1984 a Nancy.
Quella sera del 1995 Maude si aggira nello studio-biblioteca. Ci sono scaffali pieni di libri ma lei non ha voglia di leggere. Trova un raccoglitore di documenti dall’aria familiare, uno di quegli oggetti che fanno parte del paesaggio casalingo. Sull’etichetta c’è scritto: “Divorzio Pierre” (nome di fantasia).
“Ma sì, vediamo cosa c’è dentro”, si dice Maude, come per ripicca.
Il divorzio dei suoi genitori è stato lungo e complicato. Non sono rimasti in buoni rapporti, si sono scontrati per anni. Ma tutto questo Maude lo sa già, perché un giorno è intervenuta la polizia: il padre era andato a prenderla per portarla in vacanza, ma la madre non era d’accordo con lui sulle date. Maude rilegge le lettere degli avvocati, le pagine di testimonianze degli amici, ma poi trova un documento. C’è scritto che è “nata da una donazione di seme anonima”.
Maude rimette a posto i fogli, va in camera sua e piange tutta la notte. La mattina dopo la madre si accorge che la figlia non sta bene, le chiede cos’ha e poi risponde alle sue domande. Sì, è nata da una donazione di sperma perché il padre non poteva avere figli. Erano stati da un ginecologo, che li aveva indirizzati verso i Centri per lo studio e la conservazione degli ovuli e dello sperma umano (Cecos) di Nancy.
“È andato tutto bene al primo tentativo”, le racconta la madre. Non ne ha mai parlato con nessuno, perché gliel’aveva consigliato il medico: per non destabilizzare la famiglia, per non turbare Maude e forse anche per non screditare il padre (nel 1981 il tabù dell’infertilità maschile era ancora molto forte). Quel giorno la madre fa una telefonata: “Pierre, dobbiamo parlare, tua figlia lo sa”.
Tra i due ex coniugi scoppia una lite terribile. Maude è molto triste. Quel giorno del 1995 si apre un baratro nella sua vita. Per i suoi genitori è un capitolo chiuso, non ne avrebbero più parlato. Ma per lei è l’inizio di un’adolescenza difficile. Maude cresce in quel silenzio e con la certezza di dover affrontare da sola la questione.
Eppure non è sola. Sono in tutto ventisette tra fratelli e sorelle a interrogarsi, come lei, sulle loro origini. A condividere lo stesso donatore anonimo. Una famiglia gigantesca in una situazione del tutto inedita per la Francia. Ma questo Maude lo scoprirà solo molti anni dopo.
Vincent e gli altri
Siamo nel 2003. Nella sua casa a Fontenay-sous-Bois, nella periferia est di Parigi, Vincent, dieci anni, si alza e si prepara per andare a scuola. Si guarda allo specchio e vede un’estraneità inquietante. Vorrebbe passarci attraverso per trovare una risposta alla domanda che lo ossessiona dopo che la madre gli ha spiegato che è nato da una donazione di sperma, che suo padre non è quello biologico.
“Chi è l’altra metà di me?”, si chiede Vincent. Quando esce di casa osserva tutti gli uomini dell’età di suo padre. È quello? O l’altro? O forse l’altro ancora? Mascella pronunciata, capelli castani, corporatura atletica: Vincent cerca un padre, mentre il suo, quello che l’ha cresciuto, se n’è andato e non tornerà più.
Più o meno nello stesso periodo, a Strasburgo, Antoine, anche lui di circa dieci anni, sopporta a fatica le battute della sua famiglia polacca, dove sono tutti biondi con gli occhi azzurri. Lui invece è castano, con la pelle e gli occhi scuri, ed è soprannominato “l’algerino” (i suoi familiari non vanno troppo per il sottile).
Tre o quattro anni prima la madre gli aveva rivelato di aver fatto ricorso a una donazione di seme, anche se il dubbio aveva cominciato a farsi strada molto prima nel suo inconscio di bambino. Da allora, a cena, ad Antoine piace provocare il padre dicendogli: “Tu non sei mio padre!”.
Anche Claire lo scopre a sei anni, nel 1992. È sua sorella di dieci anni a rivelarglielo nella casa di famiglia vicino a Besançon. Non ce la fa più a tenere per sé la scoperta che ha fatto: “Sai che papà non è veramente papà?”.
Inizialmente Claire non capisce bene. Ma poi, da bambina malinconica che si chiede da molto tempo se quelli siano veramente i suoi genitori – “un po’ come tutti, no?” –, si sente più tranquilla.
A Nancy, Maude vive per anni trascinandosi in un vortice di dolore. “Ho fatto un sacco di stupidaggini”, riassume la donna. Continui traslochi, vagabondaggi, relazioni sfortunate e un costante malessere che le offusca la vista e lo spirito. La calma arriva tardi, intorno ai 27 anni, quando scopre un lavoro legato alla terra. Maude frequenta la Scuola nazionale superiore di architettura e del paesaggio (Ensap) di Lille, poi si trasferisce a Marsiglia nel 2017 per lavorare come architetta del paesaggio e insegnante. “La terra mi ha dato stabilità”, osserva.
Nel 2019 il padre le dice di avere un tumore ai polmoni e che gli resta poco da vivere. Maude, che ha 37 anni, ha incontrato da poco Dominique, 41 anni, che insegna a Lille e si è lanciato nel progetto di restaurare una vecchia fattoria a Mutzig, in Alsazia. Lei lo raggiunge e partecipa ai lavori.
Maude si sente più forte. Da alcuni anni è convinta di avere origini maghrebine. Vuole sapere come stanno veramente le cose e condividerle con suo padre prima che muoia. Lo fa per lealtà nei suoi confronti. “Volevo che sapesse chi sono veramente. Volevo scoprirlo finché lui era vivo per non doverlo fare di nascosto, dopo la sua morte”.
Maude sente parlare di MyHeritage, il sito di ricerche genealogiche israeliano che propone il test del dna (illegale in Francia) per conoscere le proprie origini geografiche e in alcuni casi per trovare i propri familiari. La donna riceve delle specie di cotton fioc da strofinare all’interno della guancia, li rispedisce e tre settimane dopo arriva un’email con i risultati.
Prima sorpresa: “Per il 30 per cento, Scandinavia; per il 30 per cento, penisola iberica; per il 20 per cento, Europa dell’est; per il 16 per cento, Balcani e un po’ Italia”. Non ha origini maghrebine.
Telefona al padre, che le risponde: “Sì, vabbè, sei una terrestre, insomma”. Maude è sorpresa, insoddisfatta, a disagio. Ogni volta che dice che le sue radici la fanno riflettere, anzi la ossessionano, le viene risposto che si fa troppi problemi, che non deve lamentarsi perché non è la fine del mondo.
Maude e suo padre non ne riparlano più. Lui muore due anni dopo.
Da MyHeritage arriva un’altra informazione: Maude ha diversi dna corrispondenti, cioè parenti più o meno lontani, che a loro volta hanno richiesto una ricerca genetica alla stessa azienda.
La donna clicca sulle corrispondenze. Sette condividono parte del suo dna, in percentuali comprese tra il 25 e il 30 per cento. La scheda di ognuno riporta la dicitura: “Legame di parentela: sorella o fratello”.
Una di queste persone le chiede l’amicizia su Facebook, vuole sapere chi è, insiste, persevera. “L’ho trovata molto invadente. Mi ha spaventato”, ricorda Maude, che smette di andare sul sito di MyHeritage. Quando parla di questi nuovi fratelli e sorelle alla sua famiglia, tutti reagiscono negativamente. “Sono andata a sbattere contro un muro”, commenta. Ancora una volta, smette di farsi domande, come se la sua storia “non le appartenesse più”.
Ma allora perché si sente così scombussolata? Nel settembre 2023 Maude ha 42 anni. La ristrutturazione della fattoria è finita. Il posto somiglia alla coppia che lei forma con Dominique: forte e tranquillo, caloroso e aperto. Una scala che porta a un soppalco, il gatto Goya che attraversa una porta a vetri dopo l’altra, travi che sostengono l’alto soffitto, una scaletta pieghevole che porta a una soffitta segreta “per i giorni in cui qualcuno è di cattivo umore”.
Dopo quattro anni di silenzio, Maude riceve un’email di notifica delle sue corrispondenze su MyHeritage: “Hai diciannove fratelli e sorelle”.
Resta di sasso. Si dice: “Questa volta voglio capire”. Così telefona a una di loro, Claire, 37 anni, la ragazza di Besançon alla quale la sorella aveva svelato le sue origini. Le due donne si raccontano le loro vite.
“Abbiamo saltato tutti quei discorsi che si fanno di solito quando conosci qualcuno di nuovo, come per esempio parlare del lavoro”, ricorda Maude. “Le prime domande che ci siamo fatte sono state: ‘Come sei nata? Come lo hai saputo?’. All’improvviso la parte segreta della mia vita era finita al centro, creando tra noi una relazione forte, unica”.
Claire le rivela che sono in totale ventisette fratelli e sorelle “dichiarati”, cioè che hanno fatto il test su un sito di ricerche genealogiche come MyHeritage, Ancestry o 23andMe. Sono tutti nati tra il 1981 e il 1994. Alcuni non hanno mai risposto alle richieste di fratelli e sorelle, altri invece hanno voluto subito conoscerli.
Nel 2019 Claire ha creato un gruppo su WhatsApp chiamato Les Demis (i mezzi, sottinteso “fratelli” e “sorelle”), che riunisce quindici di loro. Ne ho incontrati dieci, nati nell’arco di dodici anni, dal maggio 1981 al settembre 1993. Su WhatsApp si scambiano foto di quando erano bambini, informazioni sulle persone nate da donazioni di sperma, si scambiano battute e si fanno domande. Organizzano dei fine settimana a casa dell’uno o dell’altra, nella zona di Marsiglia o in Bretagna.
Sorprendentemente omogenei
Claire è un po’ la guida del gruppo. Insegna francese nelle carceri della zona di Lione e, a detta di tutti, è dinamica, entusiasta e affabile. È stata una delle prime a scoprire di avere fratelli e sorelle, e ha avuto il tempo di metabolizzare la notizia. Nel 2018, dopo aver letto tutti i libri in circolazione sulle persone nate da donazioni di seme, ha fatto il test del dna su 23andMe. Il sito l’ha messa in contatto con due sorelle, Amélie e Lucie (nomi di fantasia).
“Il giorno in cui l’ho scoperto, ho preso una mezza giornata di permesso dal lavoro per telefonare a Lucie”, ricorda Claire. “Le ho detto: ‘Ciao, mi sembra tutto stranissimo’, e sono scoppiata a piangere”. Un po’ di tempo dopo Amélie era di passaggio a Lione. “Ci siamo incontrate in un caffè. È stato un incontro molto fisico, ci siamo quasi spogliate”, racconta. “Abbiamo confrontato la forma delle nostre anche, le dimensioni dei nostri seni, delle mani e dei piedi, abbiamo esaminato i nostri nei”.
Anche Maude prova questa curiosità quasi carnale. Vuole conoscere fratelli e sorelle. Fissano un incontro in un caffè di Parigi, un sabato del gennaio 2024. Alle tre del pomeriggio Claire è già lì con Elise (nome di fantasia), una donna di Bordeaux di 34 anni. È la prima volta che si vedono. Al primo piano del locale, si squadrano, si prendono per mano. “Ci somigliamo così tanto”, afferma Elise. “È incredibile”.
Arrivano anche Guillaume (nome di fantasia), 34 anni, da Londra; Antoine, 31 anni, quello che in famiglia era soprannominato “l’algerino” e che ora abita a Cayenne, nella Guyana Francese; e Vincent, 30 anni, il parigino in cerca di un padre. In seguito li raggiunge Ophélie (nome di fantasia), 32 anni, che vive a Nizza ed è incinta del suo primo figlio. In totale quel giorno sono sette. Restano insieme dalle tre del pomeriggio fino all’una di notte.
Ogni volta che qualcuno sale le scale a chiocciola, attira gli sguardi di tutti. Ognuno è scrutato, misurato, giudicato con curiosità e benevolenza. “Abbiamo tutti la mascella pronunciata”, osserva Claire, che poi chiede ad Antoine: “Immagino che tu sia peloso?”.
“No, no”, risponde ridacchiando il ragazzo con i baffetti e i ricci castani, che la comitiva giudica un “bel ragazzo”.
“Però, sono andato a trovare un’altra delle nostre sorelle in Bretagna e abbiamo lo stesso odore!”, aggiunge lui.
Non è facile stare dietro alla conversazione. Claire racconta di una parte della sua infanzia, Guillaume del segreto di famiglia sulle sue origini, Vincent della scoperta di avere altri fratelli e sorelle…
“Era il 2019. Ho pianto per la gioia e poi sono crollato”, ricorda Vincent, che “vagabondava” da un lavoro all’altro proprio perché non capiva chi era. Lui che era cresciuto come figlio unico e con un padre assente e una madre malata, ha vissuto un duplice miracolo: il primo è stato l’incontro con la sua compagna, che l’ha incoraggiato a fare il test del dna; il secondo è stato scoprire di avere fratelli e sorelle.
“È stata come una liberazione. Mi sono detto: ‘Non sono da solo in questa situazione di merda’. Ho subito avuto l’impressione di aver trovato una nuova famiglia. Sono i miei fratelli e le mie sorelle. A volte la sera, a casa, penso: ‘Chissà cosa stanno facendo in questo momento?’”. Vincent ha creato un fascicolo con tutte le loro foto, che aggiorna con i nuovi arrivati. La sera di capodanno ha mandato un messaggio di auguri sul gruppo WhatsApp, un pensiero che ha commosso tutti.
C’è qualcosa di coinvolgente in queste ore che passano insieme, un modo di prendersi cura gli uni degli altri. Tutti parlano senza sovrapporsi o scontrarsi, come se si conoscessero da sempre. Fanno fatica a definire il legame che li unisce, creano con le parole più gentili questa famiglia di circostanza. Guillaume, che di solito è taciturno, ci prova. Porta un maglione rosso e gli occhiali rettangolari, e siede dritto sulla sedia: “Sono molto introverso e ho sempre fatto fatica a sentirmi a mio agio, ma quando sono con voi tutto risulta facile, spontaneo”.
Claire, che metterebbe a suo agio chiunque, aggiunge: “Sono orgogliosa di avervi tutti qui con me. È un miracolo. Mi ritengo molto fortunata. E poi avrò la possibilità di fare un gran numero di viaggi in tutta la Francia!”.
Dopo qualche giro di irish coffee, Antoine si mette a scrivere a un nuovo fratello segnalato di recente da MyHeritage: “Ciao David. Non ci siamo mai sentiti. Non so se conosci il nostro gruppo di fratelli e sorelle. Abbiamo creato una chat su WhatsApp, se vuoi ti aggiungo”.
Maude arriva nel tardo pomeriggio. È a Parigi con il compagno per il fine settimana e ne hanno approfittato per visitare la Casa della cultura del Giappone. Da quando si è svegliata la mattina, sente un peso sullo stomaco. Ha paura di conoscere di persona questi sconosciuti che le sono così vicini, le manca il coraggio. E se non avessero nulla da dirsi? Si veste di nero, con grandi orecchini dorati e, per non tradire la paura, decide di arrivare tardi.
È emozionata quando sale l’ultima rampa delle scale a chiocciola. “Buongiorno, sono Maude”, dice baciando sulla guancia i suoi fratelli e sorelle. Li guarda, li ascolta, si siede accanto a loro.
“Per me è tutto nuovo”, spiega Maude. “Dopo mi raccontate cosa fate nella vita?”, chiede.
Nel 2019 Claire ha creato un gruppo su WhatsApp che riunisce quindici di loro. Ne ho incontrati dieci, nati nell’arco di dodici anni
Vincent lavora per una startup nel settore dei trasporti; Elise è un’assistente sociale; Ophélie psicologa; Guillaume, che ha studiato geofisica, si occupa di calcolare gli effetti dei rischi ambientali per le assicurazioni; Claire fa l’insegnante nelle carceri; Antoine è ingegnere dei ponti, e delle risorse idriche e forestali a Cayenne.
Tutti si stupiscono dell’omogeneità del gruppo – molti hanno fatto studi universitari avanzati – e dell’apparente stabilità di ognuno di loro. “Tra noi non ci sono persone strane”, sintetizza uno scherzando. Probabilmente, si dicono, perché c’è stata una specie di selezione. Bisogna infatti essere ben informati per sapere che si possono fare ricerche genealogiche online e abbastanza determinati per portarle avanti. Poi bisogna sentirsi abbastanza forti per accettare l’invito a entrare nel gruppo WhatsApp.
“È vero, siamo qui, siamo forti”, osserva Antoine. “Ma per tutti quelli che non hanno risposto penso che sia più complicato”.
Ci sono persone che non hanno mai risposto agli inviti. E poi ci sono tutte quelle che non hanno mai fatto il test. La sorella maggiore di Claire non l’ha fatto, né quella di Guillaume o il fratello di Elise; non sanno con certezza se sono nati dallo stesso donatore. C’è anche un’altra loro sorella, nata da un’inseminazione anonima, che ha quattro sorelle e loro non hanno fatto il test.
Senza contare tutti gli altri potenziali fratelli e sorelle in giro per il mondo. “Saremo almeno un centinaio”, osserva Antoine, più o meno serio.
Il grande assente
Ed è così che comincia a palesarsi il grande assente di questa storia. L’uomo dei trenta, sessanta figli: il loro padre biologico. C’è chi vorrebbe assolutamente conoscere la sua identità, e a chi non interessa. Sono nati tutti prima che si decidesse di abolire l’anonimato del donatore con la legge sulla bioetica del 2021.
Senza un nome, ci si può limitare solo alle ipotesi. Un medico che voleva alimentare le banche del seme? Un altruista itinerante? Uno “Starbuck” francese (dal titolo di un film canadese del 2011, in cui un uomo è ricercato da 142 dei 533 figli per i quali aveva donato il seme)?
Il caso di questo gruppo di fratelli e sorelle non ha precedenti in Francia e ha lasciato senza parole gli esperti del settore. Un’altra grande “famiglia” simile a questa è già stata individuata, ma è nata da un solo posto, da un centro ginecologico privato di Parigi, dove tre uomini imparentati tra loro avevano donato lo sperma per anni.
Questo caso invece è molto diverso: sono nati in posti molto lontani tra loro in Francia. Alcuni sono il frutto di banche del seme private – vietate dal 1994 – che retribuivano i donatori e che rifornivano gli studi ginecologici di tutta la Francia. È così che è nato Vincent, il cui materiale genetico viene dalla vecchia banca del seme di Parigi.
Altri invece provengono dai Cecos, gli istituti pubblici che accoglievano donazioni anonime e gratuite, creati nel 1973 dal medico Georges David.
Il legame tra i fratelli e le sorelle è confermato. Anche se per alcuni aspetti i risultati dei test del dna forniti dalle aziende private non sono sempre affidabili – per esempio, per quanto riguarda le origini geografiche – i dubbi non riguardano il loro grado di parentela, sorelle o fratelli unilaterali, che è abbastanza alto per esserne sicuri al cento per cento.
Oggi in Francia ci sono trentatré Cecos, e i componenti di questa famiglia allargata provengono con certezza da almeno sei: Lille, Nancy, Besançon, Lione, Grenoble e Rouen. Altri tre pensano di essere nati grazie ai Cecos di Strasburgo, Marsiglia e Tours, ma non hanno potuto controllarlo con i loro genitori.
All’epoca non si facevano scambi di donazioni tra il settore privato e quello pubblico. Né si trasportava il seme da un Cecos all’altro. Come si è creata allora questa situazione? Come possono essere nati tutti da uno stesso donatore se gli spermatozoi non si sono mai spostati?
Casi strani
Catherine Guillemain, presidente della federazione dei Cecos di Francia, rimane in silenzio di fronte alla lista dei centri coinvolti. “Non avevo mai sentito parlare di questa situazione né di questo gruppo”, dice al telefono, misurando le parole. “Ma, del resto, non posso sapere tutto”.
L’esperta di biologia della riproduzione ricorda che tutte le fecondazioni assistite sono avvenute prima che fosse approvata la legge sulla bioetica del 1994, che stabilì dei limiti alle donazioni in Francia. In precedenza i Cecos rispettavano una serie di princìpi etici non vincolanti. In ogni centro il numero di figli per donatore era limitato a dieci o quindici a seconda dei periodi, ma non esisteva un registro nazionale.
Guillemain lascia intendere che nei primi tempi doveva esserci stata una certa libertà nelle donazioni di seme. Avanza l’ipotesi di un “donatore itinerante”: “Sappiamo che ce ne sono stati. Erano casi un po’ particolari, di persone che si prefiggevano l’obiettivo di donare nel maggior numero di posti. Casi strani, per fortuna piuttosto rari”. In altre parole, negli anni ottanta un uomo, per ragioni poco chiare, avrebbe fatto il giro dei Cecos francesi e delle banche del seme private. Doveva essere un tipo determinato: la donazione a un Cecos, infatti, comporta una lunga trafila, con diversi appuntamenti, analisi del sangue e controlli scaglionati nell’arco di settimane.
“Incredibile!”, commenta Blandine d’Ausbourg quando sente parlare di questa famiglia. È la vicepresidente dell’associazione PMAnonyme, che riunisce e fa consulenza alle persone nate da donazioni di gameti in Francia. Dal 2019 d’Ausbourg segue il gruppo di fratelli e sorelle, che sente con regolarità.
“Per me si tratta di un donatore seriale, non riesco a trovare un’altra spiegazione”, afferma d’Ausbourg, che all’interno dell’associazione è specializzata nei “luoghi di concepimento”. “Questi ventisette sono solo la punta dell’iceberg. In totale saranno trecento!”.
Trecento fratelli e sorelle? Ma come ha calcolato una cifra del genere? “Di solito per ottenere il numero reale si moltiplica per dieci il numero di fratelli e sorelle ‘dichiarati’. Basta un rapido calcolo per avere un’idea della grandezza di questa famiglia: se si prendono in considerazione i nove Cecos già citati, dove il numero di figli per donatore era limitato a dieci o quindici per donatore, siamo già a novanta o cento individui. A questi bisogna aggiungere quelli nati attraverso le banche private, dove non c’erano limiti, e gli studi ginecologici”.
Con la voce incrinata dalla rabbia, d’Ausbourg afferma che i Cecos hanno fallito nella loro missione, non controllando le donazioni. “Come minimo, tutti i centri in Francia dovrebbero cercare informazioni su questo donatore e avvertire le famiglie interessate, per evitare rischi di consanguineità. Inoltre è possibile che in alcuni istituti ci sia ancora il suo seme”, spiega.
Nel libro d’inchiesta Mes origines: une affaire d’état (Max Milo 2014) l’avvocata specializzata in bioetica Audrey Kermalvezen arriva alla conclusione che i donatori itineranti esistono. E si chiede: “Non vi pare che si debba essere gravemente squilibrati per avere voglia di donare il proprio seme in tutti i Cecos di Francia?”.
El Spermator
Al tavolo del caffè parigino, dove si ordina un giro di birre, l’ipotesi è evocata con una certa tenerezza e ironia. “Forse è un donatore seriale”, dice Claire.
“Un masturbatore seriale!”, osserva scherzando qualcun altro, mentre Antoine, fingendosi indignato, va fuori a fumare una sigaretta.
“Io l’ho soprannominato ‘El Spermator’”, dice Claire, “perché abbiamo origini spagnole”.
Pelle e capelli scuri, altezza media, tutti riconoscono nel loro corpo quello che gli ha rivelato il test del dna: un’elevata percentuale di provenienza “iberica”.
“Mi piacerebbe un padre che si chiama José Garcia”, interviene ironico Antoine al suo ritorno.
“Abbiamo scommesso su un portoghese”, osserva Guillaume.
“E allora perché non un brasiliano?” dice Claire. “Meglio qualcosa di tropicale!”.
Antoine propone di trovare un cognome per tutti: “Rodrigues?”. L’idea non suscita grande entusiasmo.
Nelle conversazioni di quel giorno spuntano regolarmente i nomi di altri fratelli e sorelle assenti. Come quello di Amélie, la “capo genealogista” del gruppo. Nata nel 1982, ha deciso di approfondire la sua storia personale quando ha avuto dei figli. Ha fatto il test del dna nel 2018, scoprendo l’esistenza di due sorelle. Lei aveva sempre avuto il sospetto che ci fosse questa possibilità, al punto di rinunciare a una storia d’amore con un uomo della sua regione per paura della consanguineità.
Quando il numero di fratelli e sorelle è cresciuto, Amélie ha seguito un corso di genealogia genetica e si è messa a “fare degli alberi”. A partire dalle piccole corrispondenze nel dna dei suoi fratelli e sorelle – cugini alla lontana – ha incrociato le loro genealogie per risalire ad antenati comuni nella speranza di poter ridiscendere fino al “padre biologico”. In questo lavoro meticoloso, si fa aiutare da una donna da poco in pensione e appassionata di genealogia genetica. Amélie pensa di essersi fatta un’idea del territorio familiare d’origine, che potrebbe essere da qualche parte in Occitania (sudovest della Francia).
Come si è creata questa situazione? Come possono essere nati tutti da uno stesso donatore se gli spermatozoi non si sono mai spostati?
Forse potrebbero presto avere risposte. Oltre alla ricerca di Amélie, tre persone del gruppo, tra cui Maude, hanno presentato una domanda alla Commissione di accesso per le persone nate da procreazione medicalmente assistita ai dati dei donatori (Capadd), creata con la legge sulla bioetica del 2021.
Questa procedura permette alle persone nate da una donazione, cioè circa settantamila in Francia, di chiedere di conoscere il proprio donatore. Ma per farlo è necessario che il Cecos abbia conservato gli archivi (cosa non scontata), che il donatore risponda alla richiesta e che accetti di rivelare la sua identità.
Al 29 febbraio 2024, in un anno e mezzo di attività, la Capadd aveva ricevuto 525 richieste e aveva dato 252 risposte. In 140 casi il donatore non era stato identificato, in 38 era morto, in 57 non aveva risposto o non aveva voluto farsi avanti. Alla fine solo diciassette richiedenti avevano avuto un riscontro positivo, identificando il loro donatore.
Il gruppo continua la serata in un ristorante e poi in un bar vicino alla piazza del Châtelet. “Siete d’accordo, siamo tutti più o meno di sinistra?”, dice Maude.
“Ne riparliamo tra una decina di anni”, ironizza Guillaume. Dopo di che si passa a discutere di compravendite immobiliari e di aliquote fiscali. “Ehi, ma non eravate di sinistra?”, osserva Antoine ridendo.
Nella fredda notte parigina si spostano a passo spedito da un luogo all’altro camminando a gruppetti in mezzo alla strada. Come se si sentissero invincibili.
Due settimane dopo, a fine gennaio, Maude è seduta nel suo salotto a Mutzig e allontana regolarmente il gatto Goya da un piattino di biscotti.
“Dopo l’incontro a Parigi mi sono sentita completamente svuotata, come se la tensione fosse scomparsa all’improvviso. Avevo paura di rimanere delusa, ma è stato il contrario”, dice. La donna s’interroga sulla natura di questo nuovo legame nella sua vita. “Sono convinta che tra di noi ci sia un rapporto di fratellanza. È strano dirlo perché non ci conosciamo bene, ma so che sono delle persone di cui posso fidarmi. Trovo molto tranquillizzante che in un mondo così duro ci sia qualcuno su cui poter contare”.
Quando il 13 febbraio Maude riceve per lettera una risposta dalla Capadd, scrive subito sul gruppo WhatsApp. La commissione le conferma che è nata da una donazione di sperma al Cecos di Nancy, ma che “gli archivi non permettono di identificare il donatore, a causa dell’impossibilità di stabilire un legame tra i donatori e i beneficiari della procreazione medicalmente assistita”.
La donna si aspettava la risposta, ma non la rabbia che l’ha travolta. “A quell’epoca tutto era pensato per garantire la tranquillità del donatore e dei genitori, senza pensare al figlio, che sarebbe nato come una specie di oggetto”, dice. “Nessuno ha pensato che un giorno questi neonati sarebbero diventati degli adulti. E che si sarebbero fatti delle domande sulle loro origini”.
Nuove riflessioni
In questa nuova fase, Maude si rende conto dell’importanza degli scambi con gli altri fratelli e sorelle: “È molto più facile per me affrontare questo ‘muro di silenzio’ sapendo che non sono sola. Forse è la cosa più importante”.
Ma da dove arrivano tutte queste riflessioni? Per molto tempo Maude non ha mai pensato di diventare madre: “Il fatto di conoscere metà delle mie origini mi ha impedito di mettermi nelle condizioni di avere dei figli. Mi angosciava il fatto di non sapere quello che avrei trasmesso, quello che poteva uscire da me”.
Il suo desiderio di maternità è maturato lentamente. L’incontro con Dominique e con i suoi fratelli e sorelle ha finito per convincerla. La coppia ha ormai avviato un percorso di procreazione medicalmente assistita “perché mi sono decisa tardi”, dice Maude. Le rimangono sei mesi prima dei 43 anni, il limite di età stabilito dalla legge francese per una fecondazione con i propri ovociti. Dopo, dovrà fare ricorso a ovuli donati.
“Può sembrare una follia, ma a un certo momento ho pensato di chiederli a una delle mie sorelle”, dice Maude. Poi scoppia in una risata che le fa socchiudere i suoi begli occhi scuri. ◆ adr
Clara Georges è una giornalista di Le Monde che si occupa di temi legati alla famiglia e ai rapporti tra genitori e figli. Cura la newsletter settimanale Darons daronnes (Padri madri).
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati