Era il 27 novembre 2002, il giorno in cui Castro, quartiere simbolo della comunità gay di San Francisco, rendeva omaggio a Harvey Milk, uno dei primi politici dichiaratamente omosessuali eletti negli Stati Uniti, assassinato nel 1978 nella sede del municipio. Nel ventiquattresimo anniversario di quell’evento traumatico, centinaia di persone si erano radunate nel tardo pomeriggio in Harvey Milk plaza. “Kamala Harris si era messa vicino a me”, racconta Patrick Cosson, consulente di marketing, che anche quell’anno, come sempre, partecipava alla commemorazione. L’attuale vicepresidente indossava un tailleur nero e stivali di camoscio. Veniva dall’ufficio legale del comune, dove guidava la divisione che si occupava delle famiglie e dei bambini. “Abbiamo scambiato qualche parola”, ricorda Cosson.
All’epoca Harris non era ancora procuratrice di San Francisco – una carica elettiva – ma stava già pensando di candidarsi nel novembre 2003. In quel periodo stava tessendo la sua rete di contatti nell’alta società di San Francisco e corteggiava i rappresentanti dell’old money, cioè gli eredi dei patrimoni bancari e petroliferi della città. Erano gli anni in cui cominciavano ad affermarsi i nuovi ricchi del settore tecnologico. La rivista Nob Hill Gazette pubblicava regolarmente la foto di Harris tra quelle dei personaggi più influenti di San Francisco. In una di quelle immagini, risalente al 2000, Harris indossava un completo Burberry e la didascalia elogiava la sua “eleganza stupefacente”.
Quel giorno del 2002 Cosson ha consigliato a Harris di avvicinarsi al palco dove si trovavano i politici e le personalità più in vista. Harris si è girata, ha sollevato l’indice e l’ha puntato contro di lui in modo minaccioso, indignata all’idea di usare quell’evento per fini elettorali. “Mi ascolti bene”, ha detto, “io manifesto per i diritti civili fin da quando ero bambina. Mia madre mi ha sempre spinta a partecipare e a farmi sentire, ed è quello che sto facendo oggi”. Vent’anni dopo, questa determinazione guida la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Kamala Harris “non ha paura di far paura”, dice Patrick Cosson.
L’imprenditore racconta l’aneddoto sotto l’immensa bandiera arcobaleno che sovrasta l’ingresso del quartiere dal 1997. È un giorno soleggiato d’agosto. Una brezza fresca non impedisce a due uomini di violare l’ordinanza municipale del 2012 – confermata in tribunale nel 2019 – che vieta di camminare nudi negli spazi pubblici. Castro è una terra di libertà, impermeabile alle convenzioni e luogo simbolo di quella San Francisco odiata dai conservatori, che la dipingono come una metropoli “radicale” lontana dal resto del paese: un concetto che la destra userà per screditare la candidatura di Harris e farle perdere i voti degli elettori più moderati del midwest, una regione solitamente decisiva nelle elezioni presidenziali.
Gli Stati Uniti non eleggono un presidente californiano dal 1980, quando vinse il conservatore Ronald Reagan, e nessun politico del Partito democratico dello stato più popoloso e ricco del paese è mai riuscito a conquistare la Casa Bianca. Oggi nella retorica di Donald Trump e della destra la California è un posto dove le tasse sono insostenibili, la criminalità è fuori controllo, le strade sono invase da persone che fanno uso di droga e le scuole sono piene di transgender. Se Harris vincerà “i terroristi del Partito democratico nomineranno centinaia di giudici di estrema sinistra per imporre con la forza i valori folli di San Francisco a tutti gli statunitensi”, ha detto Trump il 27 luglio, durante un comizio in Florida.
Harris riuscirà a sbarazzarsi dell’etichetta di “radicale californiana”? A chi chiede se sia progressista, moderata oppure opportunista, i politici locali rispondono che è una centrista pragmatica. “A sinistra del centro”, precisa Dan Morain, che ha scritto una biografia intitolata A proposito di Kamala. Una vita americana (Solferino 2021). Rafael Mandelman, consigliere municipale del Partito democratico, dà una lettura più sfumata: “Harris è piuttosto conservatrice, ma visto che viene da San Francisco è comunque considerata una progressista”.
Kamala Devi Harris è un tipico prodotto della politica californiana: cresciuta nella Baia di San Francisco, si è avvicinata al mondo di Hollywood grazie al marito Doug Emhoff, avvocato nell’industria dell’intrattenimento.
Per lei la politica è una questione di famiglia. È nata il 20 ottobre 1964 al Kaiser hospital di Oakland, sull’altra sponda della baia, nel periodo del movimento free speech (libertà di espressione). A cinque chilometri dall’ospedale, in Sproul plaza, gli studenti di Berkeley manifestavano da metà settembre contro le restrizioni alle attività politiche nel campus. Anche se ha partecipato a molte proteste fin da quando era ancora nel passeggino, Kamala Harris relativizza il peso dei movimenti, anche perché ha sempre “voluto avere un ruolo all’interno del sistema”, come ha scritto nella sua autobiografia The truths we hold: an american journey.
Harris è la figlia di due studenti stranieri che in quegli anni inseguivano il sogno californiano: Donald Harris, giamaicano e lontano discendente del proprietario di una piantagione, era arrivato a Berkeley nel 1961 con una borsa di studio per un dottorato in economia; Shyamala Gopalan, una ragazza indiana figlia di un alto funzionario di Madras, era una studente precoce che a 19 anni, dopo aver completato il primo ciclo di studi all’università di New Delhi, era riuscita a farsi ammettere a Berkeley, all’insaputa dei genitori.
Fu la politica, nell’autunno del 1962, a farli incontrare. All’epoca Berkeley non era ancora la capitale della controcultura, ma la contestazione stava già germogliando e il partito delle Pantere nere muoveva i primi passi. Nella sede dell’organizzazione degli studenti afroamericani i giovani discutevano di discriminazione e decolonizzazione leggendo gli autori neri che non trovavano spazio nei programmi universitari. Una sera Donald Harris tenne un discorso sulle disuguaglianze economiche, e Shyamala Gopalan, con indosso il sari, gli si avvicinò al termine del suo intervento. Meno di un anno dopo, nel luglio 1963, si sposarono.
Formazione radicale
Il Kaiser hospital di Oakland è stato abbattuto, al suo posto c’è un parcheggio. Dell’infanzia di Kamala Harris resta la casa di Bancroft way, dove la madre si trasferì dopo aver chiesto il divorzio, nel 1971. È un edificio giallo a un piano circondato da piante di yucca, che la commissione municipale per la conservazione dei palazzi storici ha cercato di tutelare nel 2021, prima di rinunciare davanti all’ostilità dei residenti. La scuola internazionale Montessori che occupa il piano terra vieta l’ingresso ai visitatori. L’epoca del free speech è lontana. La scuola si dichiara “politicamente neutrale per difendere la sicurezza dei bambini”, si legge in un cartello affisso sull’inferriata.
Intorno all’edificio è nato un quartiere borghese adornato di magnolie e acacie. Di fronte alla struttura c’è un parco comunale pensato per “migliorare la salute dei residenti” preoccupati dal cambiamento climatico, recita un cartello posizionato all’ingresso. Shyamala aveva scelto di vivere nella comunità nera, che l’aveva accolta a braccia aperte. Kamala e la sorella Maya, nata nel 1967, sono cresciute tra la chiesa battista afroamericana della 23a avenue e il tempio hindu di Livermore; ascoltavano To be young, gifted and black di Nina Simone (nella versione cantata da Aretha Franklin) e anche i canti tradizionali dell’India del sud, che la madre conosceva bene (aveva vinto un premio in un’esibizione di musica carnatica).
Nel 1970 Kamala Harris era tra gli studenti coinvolti nel programma del busing, pensato per limitare la segregazione razziale tra le scuole: ogni mattina bambini dei quartieri poveri venivano portati in autobus nei quartieri bianchi, e viceversa. Due mondi che si scontravano brutalmente. Quando Maya e Kamala andavano a Palo Alto per incontrare il padre, che insegnava all’università di Stanford, i bambini del quartiere si rifiutavano di giocare con loro, per ordine dei genitori. A Berkeley le due ragazze si immergevano nel fermento per i diritti civili ogni giovedì sera, al Rainbow Sign, in Grove street, centro culturale del rinnovamento intellettuale nero. Lì gli adulti ascoltavano Maya Angelou, Alice Walker o James Baldwin mentre i bambini stavano nella biblioteca o in cucina. In quel periodo Harris si rese conto che “l’espressione artistica, l’ambizione e l’intelligenza erano cool”, scrive nella sua autobiografia. Anni dopo Grove street è diventata Martin Luther King Jr. way, e oggi il Rainbow Sign ospita il Centro di salute mentale della città di Berkeley.
Harris non ama raccontare troppo delle sue origini complicate, ma parla spesso della madre, della sua bassa statura (era alta un metro e mezzo), del suo accento, della sua “risata viscerale” e della determinazione e dei sacrifici che le permisero di ottenere una borsa di studio e un visto, dopo aver scoperto che gli Stati Uniti accoglievano gli studenti provenienti dai paesi della decolonizzazione (il padre di Barack Obama, keniano, aveva sfruttato la stessa opportunità). I genitori lasciarono partire Shyamala, ma con la promessa che sarebbe tornata e avrebbe accettato un matrimonio combinato.
A 26 anni Shyamala Gopalan discusse la sua tesi di dottorato in endocrinologia e pochi mesi dopo diede alla luce la prima figlia. Nel 1976 l’università della California a Berkeley le negò la promozione che lei era convinta di meritare, a vantaggio di un uomo. Così Gopalan accettò un incarico all’università McGill e si trasferì con le figlie a Montréal, in Canada, una città francofona coperta di neve per buona parte dell’anno. Dieci anni dopo tornò in California, dove si fece conoscere per le sue ricerche sul ruolo dei recettori ormonali nello sviluppo del cancro al seno. “Non ha mai chiesto a nessuno il permesso di inseguire i suoi sogni”, ha scritto la figlia, che non manca mai di rendere omaggio alla scienziata, morta nel 2009 a causa di un tumore al colon.
Harris parla invece raramente del padre, intellettuale di sinistra che oggi ha 86 anni. Alla fine della procedura di divorzio, nel 1973, Donald Harris aveva ottenuto il diritto di trascorrere con le figlie sessanta giorni in estate. Nel corso degli anni ha portato le ragazze in Giamaica e gli ha spiegato le “contraddizioni” delle economie del terzo mondo, dove la povertà e la ricchezza più estreme si sovrappongono.
Harris ha deciso di non perseguire le prostitute ma i locali che le sfruttavano
Nel 1972 Donald Harris era stato il primo afroamericano a vincere una cattedra alla facoltà di economia di Stanford, anche grazie a una petizione degli studenti che chiedevano la presenza di un insegnante marxista tra i docenti. Il suo ultimo intervento pubblico risale al 2019, quando ha criticato la figlia, all’epoca senatrice, per aver ammesso di aver fumato marijuana. “Metà della mia famiglia viene dalla Giamaica”, si era giustificata Kamala in quell’occasione, e Donald aveva manifestato il suo fastidio per quello che riteneva uno stereotipo sulla sua isola d’origine. “I nostri antenati si rivoltano nella tomba”, aveva dichiarato. Da allora ha promesso di tenersi alla larga dal “circo della politica” e di non rilasciare più dichiarazioni ai mezzi di informazione. Subito dopo aver ottenuto la candidatura presidenziale per il Partito democratico, Harris ha telefonato ad Amos Brown, il pastore della Third baptist church, una delle più antiche chiese afroamericane di San Francisco. “Mi ha chiesto di pregare per lei, per suo marito e per le elezioni”, ha dichiarato Brown alla rivista cristiana Sojourners. “Le ho detto di mantenere lo sguardo fisso sull’obiettivo”. Il pastore, allievo di Martin Luther King, era tra gli invitati alla cerimonia per l’insediamento dell’amministrazione Biden organizzata il 20 gennaio 2021 a Washington. La Casa Bianca aveva affittato un aereo per trasportare gli ospiti provenienti dalla California, con un equipaggio interamente femminile “su richiesta della vicepresidente eletta”, aveva spiegato il comandante.
I repubblicani hanno già cominciato a spulciare i discorsi di Brown, come avevano fatto nel 2008 con Jeremiah Wright, il pastore di Barack Obama, alla ricerca di dichiarazioni discutibili sulla questione razziale. Il 4 agosto, nel suo sermone, Brown ha ricordato il ruolo delle donne nella Bibbia. “Bisogna mettere fine a questa guerra culturale contro la possibilità che una donna sia eletta presidente degli Stati Uniti”, ha detto. Con una retorica cadenzata dalle ripetizioni, il pastore ha invitato i fedeli a “tenersi pronti, pronti per fare in modo che l’America sia pronta, pronta oggi, pronta presto, pronta il più presto possibile per accogliere una donna nera alla guida del paese”.
Dal Texas alla California
Kamala Harris è entrata nelle cronache di San Francisco dalla porta di servizio, il 22 marzo 1994, grazie a un breve articolo firmato da Herb Caen, leggendario giornalista locale. Caen, che ha lavorato per il San Francisco Chronicle per più di sessant’anni, aveva scritto che durante la festa per i sessant’anni del politico Willie Brown, organizzata nel castello del miliardario Ron Burkle, nei pressi di Los Angeles, l’attore Clint Eastwood aveva rovesciato la sua coppa di champagne sulla compagna di Brown, Kamala Harris. All’epoca Harris aveva 29 anni e lavorava come procuratrice aggiunta della contea di Alameda, al confine con San Francisco. Brown era il potentissimo capo della maggioranza democratica al parlamento californiano, e nessuno poteva immaginare che quella donna un giorno sarebbe stata candidata alla presidenza degli Stati Uniti.
Brown è uno dei mostri sacri della politica californiana. Nel 1951, a 17 anni, fuggì dal Texas della segregazione razziale per cercare fortuna nell’ovest. A San Francisco diventò avvocato e difensore dei poveri e degli emarginati (all’epoca i grandi studi legali non facevano la fila per reclutare un avvocato afroamericano). Dal 1960 ha partecipato a tutte le convention del Partito democratico, e in California è una sorta di burattinaio del partito. Fu lui ad aiutare Nancy Pelosi, futura presidente della camera dei rappresentanti, a organizzare la sua prima campagna elettorale nel 1987, e fu lui a lanciare Gavin Newsom, attuale governatore dello stato, facendolo entrare in una commissione sul traffico del municipio di San Francisco. La città adora i suoi abiti italiani, la sua Ferrari e le sue battute.
Il nome di Kamala Harris riapparve sui giornali il 29 novembre 1994, nelle pagine del Los Angeles Times, quando il giornalista Dan Morain rivelò che Brown, costretto a lasciare il suo incarico al parlamento della California (si diceva che i parlamentari avessero introdotto un limite al numero di mandati con il solo obiettivo di escluderlo), aveva nominato Harris nella commissione di vigilanza dei contratti con le assicurazioni sanitarie, con un salario di 72mila dollari all’anno. Secondo Morain era la seconda volta che promuoveva la sua compagna dell’epoca. Harris, infatti, aveva già ottenuto un incarico (retribuito con 97mila dollari all’anno) presso l’ufficio per la disoccupazione. Tra i vari regali di Brown alla compagna c’era anche una Bmw.
All’epoca il discusso politico democratico (che viveva separato dalla moglie, aveva diversi flirt ma non aveva mai divorziato) era impegnato nella campagna elettorale per diventare sindaco di San Francisco. Harris e Brown partecipavano insieme alle cene a Pacific Heights, quartiere alla moda affacciato sul ponte Golden gate, e alla cerimonia degli Oscar a Hollywood. Un giorno, mentre era a Boston per una conferenza, Brown aveva ricevuto un invito da Donald Trump, che voleva parlargli di un progetto immobiliare. Trump aveva mandato il suo aereo privato per portarlo a New York insieme ai collaboratori, compresa Harris. I giornalisti non sono mai riusciti a stabilire se Harris abbia effettivamente partecipato all’incontro, ma è accertato che l’attuale candidata democratica abbia viaggiato a bordo dell’aereo dell’uomo che affronterà alle elezioni del 5 novembre.
Dopo aver completato gli studi di diritto a San Francisco, Harris ha lavorato nell’ufficio del procuratore della contea di Alameda. Sorprendendo tutti quelli che l’avevano vista crescere tra le contestazioni di Berkeley, non ha scelto la difesa delle vittime ma quella della legge. In seguito ha dichiarato che in quel momento il suo obiettivo era umanizzare il sistema di giustizia penale. Quando era ancora una stagista, Harris capì fino a che punto una singola persona poteva fare la differenza. Era un venerdì sera – racconta nella sua biografia – e la squadra antidroga aveva arrestato per sbaglio una ragazza che si trovava per caso nella casa dove era in corso la perquisizione. Rischiava di dover restare in stato di detenzione fino al lunedì successivo senza nemmeno sapere se i suoi figli fossero stati avvertiti dell’arresto. In quell’occasione Harris fece di tutto per far arrivare in tribunale un giudice che potesse scarcerarla. “Fu un momento determinante della mia vita”, ha scritto.
Nel 1998 fu incaricata da Terence Hallinan, procuratore di San Francisco, di dirigere la divisione affari penali. Harris decise di trasferirsi nel centro di San Francisco e seguire il consiglio del suo ex mentore Willie Brown (avevano interrotto la loro relazione sentimentale nel dicembre 1995) per entrare nel giro che contava a San Francisco: avvicinarsi al mondo delle associazioni, della cultura e della beneficienza. Harris entrò nel consiglio di amministrazione del Moma di San Francisco, prestigioso museo di arte moderna dove sviluppò un programma per far scoprire l’arte ai giovani provenienti da contesti poveri. In seguito si è iscritta all’associazione SF Jazz, ha presieduto la cena annuale dei mecenati dell’orchestra sinfonica, ha diretto un’organizzazione contro la violenza domestica e ha fatto parte del consiglio di amministrazione di Women count, un’associazione per la promozione delle donne in politica. Al tempo la Nob Hill Gazette ha elogiato l’attivismo di quella giovane donna estremamente glamour.
Senza timore
In quel periodo l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti ha costruito una rete di contatti che la sostiene ancora oggi. Il ricchissimo imprenditore immobiliare Mark Buell la considerava “una donna mondana con una laurea in legge”, ma cambiò idea dopo averla incontrata. Nel 2003, quando Harris ha deciso di candidarsi a procuratrice di San Francisco, Buell è diventato tesoriere della campagna elettorale. Mentre corteggiava l’élite di San Francisco, Harris ha stabilito la sua sede operativa nel quartiere nero e ispanico di Bayview, lontano dalle luci del centro città. La scommessa si è rivelata vincente, perché grazie a un sostegno multiculturale Harris ha ottenuto la sua prima vittoria e ha intrapreso il percorso che l’avrebbe portata a correre per la Casa Bianca. Ancora oggi sostiene di voler avvicinare realtà che sono agli antipodi: raccoglie somme da record sfruttando i contatti nell’establishment e allo stesso tempo, durante i comizi, ripete le parole d’ordine dell’epoca del Black power: no going back, non si torna indietro.
Se Barack Obama coltivava “l’audacia della speranza” (titolo del suo secondo libro), Kamala Harris rivendica un impegno estremamente concreto. I suoi spot elettorali la descrivono come fearless, impavida nella sua missione di rinchiudere i criminali dietro le sbarre o di tenere testa alle grandi banche. Dal 2003 Harris ha ripetutamente dato prova della sua temerarietà. Non ha esitato a candidarsi contro il suo ex capo Hallinan, che si presentava come il procuratore più progressista del paese. Dopo aver lavorato per due anni al suo servizio, Harris conosceva benissimo i problemi della procura: gli inquirenti erano demotivati e sotto organico, non esisteva un sistema di classificazione dei documenti e il tasso di condanna era il più basso della California (29 per cento contro il 67 per cento della media statale). Il principale sfidante di Hallinan era Bill Fazio, che aveva posizioni molto più conservatrici.
“Era una battaglia piuttosto tradizionale tra due linee di pensiero sulla criminalità: massima repressione contro minima repressione”, racconta il giurista Rafael Mandelman, attuale consigliere municipale di San Francisco. “Poi è arrivata questa donna intrigante, saltata fuori dal nulla e capace di cambiare i termini del dibattito”. Kamala Harris ha proposto una politica anticrimine intelligente – smart on crime – sostenendo che era inutile essere punitivi o permissivi per partito preso. “Il suo messaggio era: ‘Cerchiamo di capire cosa funziona, di trovare il modo di reinserire nella società le persone con precedenti penali e di ridurre il tasso di recidiva’”. Mandelman racconta che un giorno ha portato la candidata in un bar gay. Era la “serata dell’abbigliamento intimo”, racconta, ma quell’ambiente trasgressivo non ha impedito a Harris di discutere di politica come se tutti fossero in giacca e cravatta. “Fin dall’inizio mi è sembrato chiaro che nessuno poteva fermarla”, sostiene il consigliere.
◆ Tra il 19 e il 22 agosto 2024 a Chicago si è tenuta la convention del Partito democratico statunitense in cui Kamala Harris è stata scelta ufficialmente come candidata alle elezioni presidenziali del 5 novembre, quando sfiderà il repubblicano Donald Trump. “Harris ha preso il posto del presidente Joe Biden, che alla fine di luglio si è ritirato dalla corsa, cedendo alle pressioni dei finanziatori e dei politici del partito, secondo i quali era troppo debole e anziano per ricandidarsi”, ricorda The Atlantic. Biden, accolto da un lungo applauso dei delegati democratici, ha tenuto un discorso il primo giorno della convention, in cui ha rivendicato i risultati ottenuti nei tre anni e mezzo del suo mandato e ha detto che scegliere Harris come vicepresidente è “la cosa migliore che abbia fatto da presidente”.
◆ Tra i discorsi più attesi c’erano quelli dell’ex presidente Barack Obama e della moglie Michelle. “Entrambi hanno cercato di associare il loro percorso personale e politico a quello di Harris”, scrive Politico. “I sondaggi mostrano che la vicepresidente ha rapidamente conquistato i consensi degli elettori democratici scontenti della candidatura di Biden. Ma per vincere dovrà ricomporre quella base di consenso – formata da giovani, minoranze ed elettori moderati – che nel 2008 e nel 2012 permise a Obama di vincere le elezioni”.
◆ Nei giorni della convention ci sono state le proteste degli attivisti filopalestinesi contro la guerra israeliana nella Striscia di Gaza. “La protesta a Chicago, organizzata per il 19 agosto, è stata meno partecipata di quanto ci si aspettasse”, scrive la Bbc. Le parole più importanti sulla guerra durante la convention sono arrivate dal senatore progressista Bernie Sanders, che ha chiesto un cessate il fuoco e il rilascio immediato degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.
Come era prevedibile, durante quella campagna elettorale gli avversari di Harris l’hanno attaccata per la sua relazione passata con Willie Brown. Nel 1995 Brown aveva festeggiato la sua elezione a sindaco di San Francisco con uno sfarzo principesco, percorrendo Market street su una carrozza trainata da cavalli davanti a più di centomila spettatori e indossando un cilindro. In occasione di un dibattito tra i candidati organizzato in una chiesa del quartiere di Noe valley, i rivali di Harris le hanno rinfacciato il conflitto d’interessi che sarebbe inevitabilmente emerso se avesse dovuto indagare sulle attività del comune. In una città dove la competizione era feroce e si diceva che la politica somigliasse a “una scazzottata in una cabina telefonica”, i due rivali di Harris hanno scoperto che quella donna era perfettamente capace di assestare colpi bassi.
Invece di rispondere alle insinuazioni, Harris si è alzata in piedi e ha cominciato a parlare muovendosi dietro ai due candidati, ricordando tutte le volte che si erano presi di mira reciprocamente: uno era stato arrestato in un centro massaggi, mentre l’altro non aveva preso provvedimenti quando due magistrati erano stati colti in flagranza di reato per “condotta inappropriata” nel palazzo di giustizia. Harris ha concluso il suo intervento piazzandosi al centro del palco, tra i due uomini, e ha dichiarato: “Prometto che non userò mai la stessa strategia contro i miei avversari”. Il pubblico ha applaudito.
I mezzi d’informazione erano impressionati. Il San Francisco Chronicle ha pubblicato un editoriale intitolato: “Harris, per la legge e l’ordine”. Con un’intuizione azzeccata, la sua campagna elettorale ha mandato in onda uno spot in cui venivano mostrate le foto dei dieci procuratori di San Francisco che si erano alternati dal 1900, tutti uomini bianchi. “È il momento di cambiare”, recitava lo slogan.
Campagne denigratorie
Dopo essersi insediata, Harris ha comprato computer per i suoi collaboratori e ha introdotto un nuovo sistema per classificare i casi. Gli inquirenti della procura hanno avuto un account di posta elettronica sette anni prima dei dipendenti del dipartimento di polizia. Harris ha deciso di non perseguire le prostitute ma i locali che le sfruttavano, e ha creato un programma per rimettere in carreggiata le persone con precedenti penali – chiamato Back on track – che in seguito è stato adottato in molte altre città del paese. Durante i primi quattro anni del suo mandato, il tasso di condanna è salito al 67 per cento, un risultato su cui ha basato la sua candidatura per la rielezione ma che le organizzazioni antirazziste non le hanno mai perdonato.
Sul piano politico l’episodio cruciale della carriera di Harris resta il suo braccio di ferro con i sindacati di polizia, appena tre mesi dopo il suo insediamento.
Tutto è cominciato il 10 aprile 2004, quando Isaac Espinoza, agente di polizia di 29 anni, è stato ucciso nel quartiere di Bayview. Fedele alle promesse fatte durante la campagna elettorale, Harris ha deciso di non chiedere la pena di morte per il ragazzo che aveva sparato, scatenando la rabbia dei poliziotti, che si sentivano traditi, e di molti politici, compresi alcuni democratici. “Ha subìto una pressione enorme”, ricorda Mandelman. “Ma ha saputo resistere e mantenere la sua promessa, dando prova di grande carattere”. Harris ha avuto bisogno di dieci anni da procuratrice per risanare la frattura con i sindacati di polizia.
Durante la sua carriera, Harris è stata oggetto di varie campagne denigratorie organizzate dai repubblicani, incentrate quasi sempre sul suo rapporto con Willie Brown. La candidata alla Casa Bianca non ha mai risposto direttamente alle accuse, e nella sua autobiografia non nomina mai l’ex sindaco di San Francisco. Arrivato alla soglia dei 90 anni, Brown continua a disinnescare elegantemente gli attacchi. Dopo che Harris si è affermata nella politica nazionale, ha detto di essere pronto al peggio. “Ha promesso che mi incriminerà anche se dovessi attraversare la strada lontano dalle strisce”, ha dichiarato al San Francisco Chronicle nel 2019. “Mi espellerà dal paese”, ha detto ironicamente in un’intervista pubblicata il 31 luglio 2024 da Politico mentre sui social network circolavano le foto che li mostravano insieme negli anni novanta. Brown, in ogni caso, potrà sempre vantarsi di aver previsto per primo che un giorno Kamala Harris sarebbe arrivata alle porte della Casa Bianca. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati