Cultura Suoni
Bright magic
Public Service Broadcasting (Alex Lake)

Le menti dei Public Service Broadcasting stavolta sono passate dai minatori gallesi e la corsa allo spazio dei precedenti album a un ritratto di Berlino. In Bright magic passano da un uso meticoloso di campionamenti d’archivio, messaggi di propaganda e vecchie trasmissioni radiofoniche a una travolgente spirale di krautrock, synth anni ottanta e power pop tedesco. Il duo si è fatto affiancare da musicisti locali per creare un’opera che evoca i fantasmi dei primi Kraftwerk, il lavoro di Vangelis per Blade runner e reminiscenze dei Daft Punk. Bright magic è diviso in due sezioni. La prima è introduttiva e culmina in Im licht; quella di Blixa Bargeld è la prima voce che ascoltiamo in Der rhythmus der maschinen, a cui dà forza con una performance irrequieta. People, let’s dance è uno dei momenti più azzeccati, insieme a Blue heaven, ma poi arriva un po’ di nebbia. La seconda sezione non è ricca come la prima, forse a causa della mancanza di cantanti e di una suite in tre parti (Lichtspiel) che si addentra in paesaggi post rock non troppo congeniali al gruppo. Sulla carta l’idea di fare un racconto noir e futuristico di Berlino è eccitante, ma alla fine resta la sensazione che la seconda parte avrebbe potuto essere concepita meglio. Bright magic è un’aggiunta interessante al catalogo della band britannica e ci lascia con una domanda: dove ci porteranno la prossima volta, sulla Luna?

Sputnikmusic

I’ll be your mirror. A tribute to the Velvet Underground and Nico

Se The Metallica blacklist, l’album di cover di 53 canzoni dei Metallica, ha dato spazio a chiunque lo volesse, questo tributo al capolavoro del 1967 dei Velvet Underground è una cosa più raffinata. ha posto le basi per quasi tutta la musica alternativa underground a venire. Per questo l’etichetta Verve Records ha messo insieme un’élite innovativa: Michael Stipe offre una versione meravigliosamente fragile di Sunday morning; Matt Berninger dei National sposta il tono di I’m waiting for the man. Altri invece, come Sharon Van Etten, Angel Olsen e St. Vincent reinventano i brani del disco in un modo che sarebbe piaciuto a Andy Warhol.
Mark Beaumont, Nme

Half God
Wiki (bandcamp)

A New York i bambini crescono in fretta. I preadolescenti viaggiano da soli sui treni, facendo la spola tra la scuola, il parco e casa. Impari a riconoscere truffatori, drogati, turisti e poliziotti da un miglio di distanza. Dal momento in cui impari a parlare, sei esposto alle lingue di tutto il mondo. Le strade sono un parco acquatico con idranti antincendio, un panorama di carretti stradali, un soggiorno per vecchi che giocano a domino, una discoteca all’aperto a colpi di perreo e drink ghiacciati. Un newyorkese può vivere diverse vite prima di compiere 18 anni. Pochi rapper riflettono questo spirito come Patrick Morales, il ventisettenne metà irlandese metà portoricano meglio conosciuto come Wiki. Il suo ultimo album, Half God, parla di cosa vuol dire diventare maggiorenni a New York: il modo in cui la città ti modella, ti rende più duro, t’invecchia prematuramente. Prodotto completamente da Navy Blue, il disco cattura i vari tempi della vita cittadina in vignette colorate. Un loop di chitarra fa da colonna sonora a una fumata contemplativa su Roof; i rullanti scattano in The business, mentre Wiki sputa veleno contro le persone che stanno gentrificando il suo quartiere e lo rendono irriconoscibile.

M. Ismael Ruiz, Pitchfork

La prima incursione mitteleuropea del violoncellista Nicolas Altstaedt con i suoi amici del festival di Locken­haus, nel 2019, ci aveva già entusiasmato. Oggi ne arriva un’altra: dopo Sándor Veress e Béla Bartók, è il turno di Zoltán Kodály e Antonín Dvořák. Il duo per violino e violoncello di Kodály c’immerge nelle radici del compositore. “È come vedere un documentario sulle tradizioni popolari ungheresi che ne rivela le emozioni più profonde”, dice il violinista Barnabás Kelemen. I due interpreti non hanno incertezze: potenza sonora, espressività, grande profondità dei timbri e precisione assoluta, anche quando l’intonazione si piega alla ricerca del carattere tipico della scrittura. Il trio n. 4 di Dvořák, per il quale ai due archi si unisce il pianoforte di Alexander Lonquich, sfoggia un grande rubato e dinamiche estreme, in un’ipereloquenza sinuosa quanto controllata. Un disco trascinante.

Nicolas Derny, Diapason

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1430 - 8 ottobre 2021
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