Molte volte nella sua vita Andreï Makine deve essersi sentito diviso tra un qui e un altrove. Nato in Unione Sovietica nel 1957, rifugiato in Francia all’età di trent’anni, lo scrittore si è stabilito a Parigi e ha adottato la lingua francese. In L’amico armeno organizza un gioco di sguardi ed emozioni tra luoghi e tempi lontani. Il risultato è un testo classico nella sua costruzione, ma pieno di uno strano fascino. L’atmosfera del romanzo contribuisce a questo spaesamento, spingendo immediatamente il lettore in un luogo lontano, in un passato mezzo reale e mezzo sognato che il giovane protagonista scopre per caso. Ospite di un orfanotrofio, fa amicizia con Vardan, un suo coetaneo di una famiglia armena in esilio. La storia di questi armeni perseguitati finisce per invadere la sua vita. Tanto che il “progetto messianico dell’uomo nuovo” sovietico s’infrange sull’esito tragico di questa “parentesi fugace”. Il libro si snoda con grazia tra un presente brutale e le ceneri di un passato devastato dal genocidio armeno tra il 1915 e il 1923. Mentre i due adolescenti scavano un pozzo per portare alla luce un ipotetico tesoro, tornano a galla anche i segreti della storia sovietica. La morale non è sorprendente, ma è suggerita con delicatezza e vera poesia: “Le nostre vite stavano sempre scivolando verso il bordo dell’abisso”, nota il narratore. Eppure, non importa quanti modi siano usati per cancellarle e distruggere i ricordi, “niente sparirà”.
Raphaëlle Rérolle, Le Monde
“Perché c’innamoriamo di qualcuno? Quali sono le chiavi nascoste, quelle zone segrete e inaccessibili a noi stessi, i recettori che si accendono?”. Le pianure dell’argentino Federico Falco è un romanzo di bellezza sottile e potente. I ricordi di Ciro – l’amore perduto di Federico, protagonista che ha lo stesso nome dell’autore – lo assalgono all’improvviso, a volte cogliendolo alla sprovvista: sono lampi che piombano su di lui in mezzo alla solitudine, mentre cerca di sviscerare le ragioni della separazione e si chiede cosa ne sarà di lui. In questo viaggio doloroso, mentre coltiva l’orto di una casa di campagna nel paese di Zapiola – la storia comincia in estate e culmina in primavera –, il protagonista ripercorre la propria storia e quella della sua famiglia. A volte gli sembra di capire tutto quello che è successo, ma gli fa ancora male fisicamente: qualcosa si spezza o si secca, come nell’orto a cui ha deciso di dedicarsi, in cui la natura sembra ricordargli che la vita impone i propri cicli. Altre volte ciò che lo assale sono ricordi felici, che lo trasportano in un altro tempo: con Ciro sono anche cresciuti insieme, si sono tenuti compagnia. Cosa ne sarà delle loro vite, torneranno a com’erano prima, come se non si fossero mai incrociati? Il protagonista non lo sa. Intorno a lui crescono verdure e piante, anche se a volte la maturazione si ferma o ristagna, o è attaccata da parassiti, formiche, insetti. È il giardino che ha creato per tornare da qualche parte, anche se a volte non sembra avere un posto in cui tornare.
Verónica Abdala, Clarín
Annie Ernaux riesce a essere sempre accattivante. Stavolta la seguiamo in un supermercato gigante, mentre si aggira vivace e stanca tra mucchi di merce, ma anche sensibile agli esseri umani che soffrono le conseguenze di questo commercio sleale. Tutti abbiamo fatto le esperienze che la scrittrice registra nel suo diario. Eppure è come se inciampassimo per la prima volta in questi oggetti quotidiani dell’economia globalizzata che siamo costretti a consumare. Ernaux parla per tutti noi: “Ho sentito l’eccitazione segreta di trovarmi nel cuore dell’ipermodernità, di cui questo luogo mi sembrava un emblema affascinante”. Chiunque abbia vissuto negli anni settanta sa, come Ernaux, che questi grandi magazzini sono peggiorati. Tutto è cambiato. Guarda le luci, amore mio è più di una testimonianza sulla “comunità di desideri” che abita un supermercato; è anche una riflessione sulla folla, le classi sociali, i volti delle persone, i luoghi di controllo, la stanchezza dell’abbondanza e dell’eccesso del consumismo.
Guylaine Massoutre, Le Devoir
L’acclamato fotografo Rye Adler, uno dei personaggi centrali di Punto di fuga, è stato salutato come “l’occhio di una generazione”. Julian Ladd è ossessionato da Rye Adler da quando i due si sono incontrati decenni prima durante il Brodsky workshop di Filadelfia, tra addetti ai lavori. Intimorito dalla genialità di Rye, Julian ha abbandonato la fotografia e ha avuto una fortunata carriera nella pubblicità. Ma ancora rabbrividisce al ricordo del verdetto di Rye sui suoi sforzi di studente: “Il tuo lavoro non ha anima”. Per Julian, quella frase è suonata come una “condanna a morte”. Anni dopo, Rye si sente estraneo alla sua stessa vita, alle persone ricche e famose che ora fotografa, alla moglie che tiene a distanza. Forse ha perso la sua empatia, pensa. Finché Magda Pasternak, altra veterana del workshop, contatta Rye e lo prega di aiutarla a trovare il figlio scappato di casa. Rye si precipita a Manhattan e si ritrova a visitare un mondo sotterraneo di droga e violenza. Punto di fuga si sviluppa in sezioni che si muovono avanti e indietro nel tempo, e sappiamo dal primo capitolo che Rye è sparito. Si è suicidato? È stato ucciso, per caso o di proposito? E cosa ne è stato del giovane scomparso cresciuto da Magda e dall’uomo che ha sposato, Julian Ladd? Un thriller letterario emotivamente potente.
Tom Nolan, The Wall Street Journal
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