Nel 2014 un’intera sala del Foundling museum di Londra era occupata da un murale di Lemn Sissay intitolato Superman was a foundling (Superman era un trovatello): una lista di centinaia di personaggi letterari cresciuti da persone diverse dai loro genitori naturali, da Heathcliff a Oliver Twist, da Harry Potter a James Bond. Diversi visitatori fecero notare alla direttrice del museo, Caro Howell, che mancavano tanti eroi dei fumetti. Fino al 28 agosto, la mostra Superheroes, orphans and origins colma quella lacuna. L’esibizione include tavole originali e fumetti da nove paesi tra cui Cina, Giappone e Svezia. Ma gli esempi più numerosi arrivano dagli Stati Uniti, dove, nel 1895, comparvero le prime strisce di Yellow Kid. Per i supereroi poi essere orfani sembra quasi un requisito essenziale: Superman, Batman, Spiderman, Hulk, Black Panther, la lista dei supereroi orfani è lunghissima. I benefici narrativi e le ragioni pratiche di queste scelte sono evidenti. Del resto, come sottolineano i curatori della mostra rovesciando il concetto, tutti i trovatelli sono dei supereroi.
The Economist
Senza famiglia
I supereroi sono quasi tutti orfani. Una mostra a Londra li celebra insieme agli altri trovatelli dei fumetti
Siamo tutti perversi
Aude Picault, un’artista della nuova leva francese venuta fuori nel corso degli anni duemila, è capace di creare prossimità, consapevolmente o meno, con i grandi momenti della storia del disegno. Qui si pensa soprattutto ai disegnatori, ormai considerati autori fondamentali, del cosiddetto fumetto delle origini, come il raffinato Caran d’Ache, maestro di un calligrafismo del segno grafico, talvolta minimale, che sconfinava nel pittorico. Il tratto morbido di Picault, sinuoso e aereo, ma al contempo pulito ed essenziale, è al servizio di un’indagine visiva, spiritosa ma tutt’altro che priva di profondità, della perversione sessuale come strumento gioioso di liberazione della donna. A lei, e alla contessa del settecento di cui narra le gesta impertinenti, anzi osé, spetta quindi il compito d’inaugurare la collana Fumetti zozzi delle edizioni Comicon, che porta in Italia una serie di libretti erotici, anarchici e insieme problematici, dove autrici e autori francesi coabitano in modo paritario. Flirtando con la pantomima, Picault lavora su sequenze, situate tra realtà e fantasma sessuale, dove abbondano allusive metafore grafiche che equivalgono ad altrettanti minuetti o danze del piacere espresse dal segno grafico nella sua purezza. Purezza al servizio della gioia della perversione erotica, che si fa un baffo del controllo maschile grazie alla complicità della servitù. Morale della parabola “zozza”: il sesso al femminile è interclassista.
Francesco Boille
Lo sanno tutti che tua madre è una strega
All’inizio del seicento, nella città tedesca di Leonberg, la vedova analfabeta Katharina fu arrestata per aver avvelenato un compaesano con una pozione demoniaca. Fu imprigionata per più di un anno e minacciata di tortura prima che suo figlio ottenesse il suo rilascio. Conosciamo questi dettagli perché il figlio di Katharina era Johannes Kepler, che mentre difendeva sua madre, stava rivoluzionando la scienza dell’astronomia. Il terrificante calvario di Katharina è ora il soggetto del romanzo di Rivka Galchen. Quel caso di stregoneria è un’occasione irresistibile per riflettere sulla paranoia sociale, le dinamiche familiari e il potere femminile. Non è cambiato molto in quattrocento anni. Le donne – in particolare quelle intelligenti e di carattere – sono ancora bollate come cattive, pericolose e innaturali. Non c’è da stupirsi che in città si siano sollevati contro Katharina. Se fosse stata solo la sua cattiveria, l’avrebbero perdonata. Ma lei aveva anche un perfido senso dell’umorismo. La sua ironia nel liquidare gli accusatori la tenne in piedi ma infiammò i suoi nemici. Il romanzo è una miscela magica di assurdità e brutalità. Galchen ha un senso kafkiano del modo in cui l’esercizio del potere gonfia l’ego e distorce la logica. Il problema, allora come adesso, è epistemologico. “Sappiamo tutti che è una strega”, dice un inquisitore. “Lo abbiamo sempre saputo. La questione di come siamo arrivati a saperlo è semplice: lo sapevamo già”.
Ron Charles,The Washington Post
“Le madri hanno un sapore orribile”, esordisce la nuova satira oltraggiosa di Shalom Auslander. Settimo Seltzer è il settimo figlio di quella che potrebbe essere l’ultima famiglia Can-Am (Cannibale-Americana), una minoranza un tempo fiorente, anche se clandestina. È stato convocato insieme ai suoi undici fratelli al letto di morte della madre. Mudd, come la chiamano, si è ingozzata di Whopper (doppio bacon, formaggio extra, niente lattuga) per prepararsi a essere divorata alla morte, un rito sacro nella loro comunità. I fratelli Seltzer hanno deluso Mudd macchiandosi di colpe come l’assimilazione, il matrimonio e la transizione, ma si riuniscono per onorare il suo ultimo desiderio: essere mangiata. Lei li ha incentivati rendendo il suo consumo una condizione per ottenere la loro eredità: il ricavato della vendita di una preziosa casa con cinque camere da letto a Brooklyn. Con un metro e ottanta e più di duecento chili, Mudd è l’incarnazione di una madre prepotente. L’impresa di mangiarla è complicata da varie restrizioni dietetiche: uno dei suoi figli è vegano, uno ha il colesterolo alto, un altro è kosher dopo essersi convertito all’ebraismo. Il cannibalismo è sempre sconvolgente, e Auslander usa questo tabù radicato per sbeffeggiare la politica dell’identità. Mamma per cena fa morire dal ridere. Oltre a sfidare un tribalismo che privilegia ciò che ci distingue rispetto a ciò che abbiamo in comune, Auslander coglie le dinamiche difficili comuni a tutte le famiglie.
Mia Levitin, Financial Times
Ci sono quartieri squallidi adiacenti a grandi complessi residenziali. C’è una figlia che evita di fare a sua madre le domande che la farebbero vergognare di tutta la sua vita. C’è un’adolescente sovrappeso che soffre l’indifferenza del ragazzo di cui è innamorata. Ci sono anche i freaks, e ci sono ragazze escluse dalle feste migliori, che invidiano la mancanza di libertà delle più belle, che sono gelose dei loro uomini ma finiscono per cavalcare nude su di loro come cavalieri che corrono sul mondo per distruggerlo. In Sacrifici umani c’è tutto questo: situazioni che María Fernanda Ampuero illustra con la certezza che tutti possiamo diventare, prima o poi, il demone dell’altro. E quella violenza segna le nostre vite: genera odio, disuguaglianza, abuso, morte. Ma la letteratura può creare anche forme di bellezza selvaggia, che possono servire come consolazione o esorcismo. Questi dodici racconti sono basati sul terrore quotidiano e associati alla violenza di genere. Si pensa sempre agli aztechi o agli incas, ma anche il sistema capitalista esige sacrifici umani.
Clarín
I romanzi sui premi e i convegni letterari sono diventati un sottogenere. Mona, scrittrice peruviana in un momento complesso della sua vita (tossicodipendente, vittima di un blocco letterario), è candidata a un premio svedese per il suo primo romanzo di successo. In un ambiente idilliaco, una sorta di “purgatorio degli scrittori”, sarà raggiunta da vari ospiti: “Quattro giorni di intrighi e disperazione tranquilla, per vedere chi vincerà il montepremi di 200mila euro”. Pola Oloixarac gestisce due trame parallele. La più accattivante ha a che fare con la satira del mondo letterario. Mona demistifica i mali che minacciano uno scrittore di successo: l’autocoscienza dell’esposizione sui social network, la convenzione di una certa idea di stile internazionale con tracce locali riconoscibili, la competitività pettegola. L’altra trama riguarda la relazione tra la scrittura e la vita ferita. Il talento di Oloixarac nell’andare oltre il politicamente corretto, l’agilità della sua scrittura, le sue espressioni felici e gli sprazzi di saggezza narrativa sono innegabili. Ma sono qualità messe al servizio di una storia troppo piccola e troppo schematica. La narrazione oscilla tra due elementi male assortiti: la presa in giro degli scrittori e un esercizio di autocommiserazione empatica con la protagonista, alter ego dell’autrice.
Carlos Pardo, El País
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