Cultura Suoni
A light for attracting attention
The Smile (Alex Lake)

Finora i progetti paralleli dei Radiohead avevano sempre avuto uno scopo chiaro: Thom Yorke assecondava la sua fissazione per l’elettronica, Jonny Greenwood componeva colonne sonore, Ed O’Brien e Philip Selway provavano la strada del cantautorato. Gli Smile, l’ultimo progetto di Yorke e Greenwood insieme al batterista dei Sons of Kemet Tom Skinner, non hanno una ragione così ovvia per esistere. A light for attracting attention infatti suona molto simile a un ipotetico decimo album della band di Oxford. Tutti gli elementi familiari dei Radiohead sono presenti: The same e Waving a white flag sono cariche di sintetizzatori alla Kid A, We don’t know what tomorrow brings è un electro-rock stridulo che potrebbe essere apparso in Hail to the thief, You will never work in television again ricorda i momenti più sgangherati dei primi anni della band e Free in the knowledge è una ballata acustica orchestrale sulla scia di A moon shaped pool. Thom Yorke, come ha fatto spesso negli ultimi anni, canta soprattutto in falsetto, inseguendo melodie più simili a delle tessiture che a veri ritornelli. A light for attracting attention, prodotto dal fidato Nigel Godrich, suona troppo familiare per essere rivelatore, ma sei anni dopo A moon shaped pool — la pausa più lunga in assoluto dopo un album dei Radiohead — è un piacere riassaporare il talento di Yorke e Greenwood.

Alex Hudson,
Exclaim

We’ve been going about this all wrong
Sharon Van Etten (Michael Schmelling)

Sharon Van Etten è un’acrobata. Oltre a essere una cantautrice, una polistrumentista e una produttrice, fa anche la funambola. È una drammaturga in volo, o una palla di cannone che viene lanciata in una notte illuminata solo dai neon. La musicista statunitense ha già dimostrato di essere uno dei nomi più forti nell’indie rock degli ultimi anni e tutto questo è confermato dal suo ultimo album, il sesto, che ha prodotto con Daniel Knowles e sembra a tutti gli effetti il suo lavoro più riuscito. La sensazione che abbia fatto passi da gigante prevale dall’inizio alla fine, già con Darkness fades, in cui la chitarra morbida e la voce disadorna guidano un crescendo grandioso, come nelle migliori ballate degli U2. In una parola, è perfetta. Van Etten è sempre stata una brava cantante, ma mai come adesso sembra nel pieno controllo delle sue capacità. La maggior parte del disco è una catarsi appagante, come se si disfacesse di quello che non le serve per abbracciare quello che la rende più forte. Dal suo debutto abbiamo osservato un’artista che tira fuori il meglio di sé, raggiungendo sempre nuove vette. Ma le sue canzoni non sono mai state così significative.

Jeremy J. Fisette,
Beats Per Minute

At Esterházy palace: Haydn, Schubert

Mi ricordo di un recital in cui Grigorij Sokolov aveva eseguito tre sonate di Haydn senza soluzione di continuità, lasciando il pubblico tramortito. Su disco il problema è risolto: possiamo fermarci, riprendere fiato e ammirare meglio l’eleganza del tocco e la padronanza delle sfumature. Abbiamo sentito raramente splendere così il pianoforte di Haydn, raffinato e luminoso. Questo approccio furiosamente e maniacalmente pianistico è decisamente più discutibile in Schubert. Espanso fino a durare più di 13 minuti, il primo degli improvvisi D 935 è scrutato come se fosse in un caleidoscopio; i ritmi bizzarri del secondo sfiorano il manierismo; e il terzo, agghindatissimo, si trascina faticosamente. Non c’è nessuna spontaneità: Sokolov calibra, soppesa, gestisce con precisione millimetrica ogni dettaglio fino all’ultimo istante. Dei sei bis di questa serata del 2018 al castello di Eistenstadt ricorderemo il valzer di Aleksandr Griboedov (1795-1829), che era soprattutto un diplomatico e un drammaturgo, e di cui ci sono rimaste solo due partiture. È una scoperta da portare a credito di questo album, tanto pianisticamente sontuoso quanto musicalmente sconcertante.

Bertrand Boissard,
Diapason

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1460 - 13 maggio 2022

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