Charlene Turner è una studente impacciata e fuori moda. Non capisce la letteratura ma ne discute con il professore, parlando dei personaggi come se fossero amici che disapprova. Per esempio scrive un tema insistendo sul fatto che Medea era egoista: “Non avrebbe dovuto uccidere i figli. Avrebbe dovuto suicidarsi”. Quel momento è ricordato vent’anni dopo dal suo professore, Arthur Opp, che era rimasto affascinato e più che innamorato di Charlene. Opp adesso pesa più di cinquecento chili, non esce mai dalla sua casa di Brooklyn e non vede nessuno se non i fattorini e i corrieri. Il suo legame con Charlene – basato principalmente sulla consapevolezza che entrambi sono persone che non si adattano alla società – rimane il punto culminante della sua vita, anche se ha posto fine alla sua carriera d’insegnante. Quando lei lo chiama dopo decenni di corrispondenza, Arthur osserva il suo peso, il disordine della sua casa, la mancanza di amici e li confronta con tutte le bugie che ha raccontato a Charlene. Decide di cambiare qualcosa prima d’incontrarla di nuovo. La voce di Arthur è coinvolgente. La sua onestà è divertente, anche se le rivelazioni della sua infelicità sono dolorose. Non sa cosa pensare della fotografia che Charlene gli invia del figlio adolescente di cui non sapeva nulla. Quando la storia si sposta nel mondo di Charlene, è suo figlio Kel a prendere il sopravvento. Il suo imbarazzo nell’avere una madre strana e sempre più problematica, che lui ama, è rappresentato in modo acuto e commovente. Nonostante la sua abilità nel farsi degli amici, Kel è un altro pesce fuor d’acqua. L’umanità e la speranza rendono il libro avvincente e piacevole.
Carole Burns,The Washington Post
La scena iniziale della Cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch, in cui la figlia dell’autrice nasce morta, immerge il lettore direttamente nei temi del libro: la vita e la morte, legate in modo così fluido all’acqua. Questo libro è un labirinto di ricordi. La voce unica di Yuknavitch, che suscita emozione e inquietudine, vi coinvolgerà, condividendo qualcosa di universale: il dolore. I traumi della vita dell’autrice ci scuotono, così come la sua natura candida. Senza riserve, Yuknavitch si chiede come i ricordi alimentino il presente e se i suoi siano accurati o meno, cosa che tutti ci chiediamo quando riflettiamo. Ma lei si spinge oltre. Dopo aver descritto nei dettagli situazioni particolari, ne riconosce la falsità. È una caratteristica dello stile inventivo dell’autrice, capace di descrivere la gioia di nuotare tutto il giorno, tutti i giorni, all’età di sei anni, in una frase che si estende per più di dieci righe, e che finisce per togliere il respiro. Pochi scrittori potrebbero fare quello che fa Yuknavitch. Pochissimi dovrebbero anche solo provarci. È un’opera che non piacerà a tutti. Ma per le donne che hanno lottato con il lutto, in questa storia c’è una fluidità così reale che mette da parte i preconcetti, senza scuse, e ti chiede di sederti con te stessa.
Rebecca Curtis, The New Englander
Questa raccolta di racconti è popolata da outsider – intrusi che si muovono ai margini della società, dell’amore, della felicità e della vita – le cui storie traboccano di desiderio. Si tingono di rimpianto come le dita dei fumatori si tingono di nicotina. Stuart Evers evita l’impatto stridente dei colori primari e le pennellate decise degli oli, scegliendo invece acquerelli macchiati di ricordi nebbiosi. Il protagonista di uno dei racconti, Ray, sta morendo di cancro. Immagina di essere a Reno, appena sposato, e di essere pianto nel futuro dal figlio, dalla figlia e dalla sua ex, tutti devastati per la perdita. In realtà la sua ex lo odia, sua figlia non si fa sentire da dieci anni e suo figlio può contare sulle ali di un aereo il numero di volte che suo padre gli ha comprato un gelato da bambino. La selettività della memoria, l’abilità umana nel riscrivere la storia e la nostra capacità di autoillusione sono messe a nudo. La memoria, difettosa o causa di tormento, e i suoi riflessi gemelli, l’idealizzazione e la demonizzazione, sono spesso presenti. Evers evita i cliché, illuminando i racconti con scintille di sorpresa. I rari difetti sono facilmente dimenticati grazie alla potenza ossessionante dei racconti: il fumo ti entra nel cuore.
Leyla Sanai, The Independent
Quando i fratelli Liv, Ellen e Hakon arrivano a Roma con i loro partner e figli per festeggiare il settantesimo compleanno del padre, non si aspettano che i genitori annuncino il loro divorzio. Ciò che segue in questo romanzo emotivamente intelligente sono le conseguenze – sia individuali sia collettive – dell’improvvisa rottura di una famiglia norvegese e il mutevole prisma attraverso il quale ciascuno dei personaggi vede il proprio posto al suo interno. Il romanzo di Helga Flatland è narrato alternativamente dalle sorelle Liv ed Ellen. Liv, giornalista, è la maggiore e si considera la principale confidente della madre, nonostante l’evidente attrito tra loro. È una donna che ha fatto della rimozione la sua comfort zone, e non si accorge delle tensioni che la circondano. Ellen, invece, è spesso trattata con condiscendenza da Liv, anche se hanno quasi la stessa età. Vuole un figlio ma non riesce a restare incinta, così la sua relazione è sempre più sotto pressione. È nella gestione dell’interazione tra i fratelli che il romanzo dà il meglio di sé. Ciascuno aderisce ancora al ruolo in cui è cresciuto e non vuole o non può liberarsene.
Hannah Beckerman, The Guardian
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