Cultura Suoni
Gemini rights
Steve Lacy (Julian Klincewicz)

Nei giorni scorsi Missy Elliott ha dato alcuni consigli alle nuove generazioni. Il secondo album, ha detto, “è stressante da registrare, ma è l’occasione migliore per sperimentare” e ha aggiunto che è “fondamentale” per superare il successo del primo. “Non abbiate paura!”, ha concluso. Steve Lacy, chitarrista e mente del gruppo rnb di culto The Internet, sembra aver recepito il messaggio: Gemini rights ha tutte le carte in regola per essere un grande secondo album. Il lavoro segue Apollo XXI del 2019. La carriera da solista di Lacy era cominciata con alcune demo registrate sul suo iPhone e l’approccio moderno adottato per il suo singolo di successo del 2017 Dark red gli aveva attirato paragoni con Sly & The Family Stone, Stevie Wonder e Prince. Da allora sono seguite collaborazioni con Vampire Weekend, Kali Uchis e Kendrick Lamar nel brano PRIDE, pubblicato sull’album DAMN. Gemini ­rights è un’opera più raffinata e sicura del suo debutto. Il momento clou dell’album, Sunshine, è la cosa più pop che Lacy abbia mai fatto, nella quale la voce della stella nascente dell’rnb Fousheé balla attorno al suo vivace assolo di chitarra. Mercury invece assume un sapore di bossa nova con ritmi strascicati e fiati vibranti. È la chitarra di Lacy a guidare l’intero disco, offrendo uno strato ipnotico sotto il falsetto su Buttons. Mentre la sua musica da solista e il lavoro con The Internet si sono infiltrati nel mainstream in modi più discreti, Gemini rights, che presenta le composizioni di Lacy più dirette di sempre, renderà ancora più superata l’etichetta di “artista di culto” che lo circonda.
Thomas Smith, Nme

Hellfire
Black Midi (Atiba Jefferson)

Il terzo album dei Black Midi è follemente eclettico. Ritmi tango influenzati da Kurt Weill, chitarre seducenti e cinematografiche, passaggi di spoken word farneticanti, pianoforti dissonanti oppure da piano bar, percussioni metal e una voce da crooner. Questa non è la descrizione dell’intero disco, ma solo dei primi cinque minuti. Cercando il termine migliore per definirlo, Hellfire è un’opera rock che non rispetta nessuno standard e procede come una serie di jump-cut musicali per 38 minuti. E, come spesso succede nelle opere rock, la trama non ha senso, è una fantasmagoria d’immagini terribili che riflettono il caos del nostro mondo. Ascoltando la musica di questo gruppo si cambia opinione più volte. Le idee ci sono e sono anche eseguite in maniera eccellente dal punto di vista tecnico, ma a volte non riescono a coinvolgere l’ascoltatore sul piano emotivo. Forse dal vivo guadagnerà qualcosa, ma per ora Hellfire suscita più ammirazione che amore.
Alexis Petridis, The Guardian

Stella cadente nel firmamento dei più grandi interpreti del novecento, Jacqueline du Pré (1945-1987) ebbe un destino folgorante, interrotto presto dalla sclerosi multipla. Quando aveva ventun anni, ed era già famosa, incontrò Daniel Barenboim: fu un colpo di fulmine e un esempio di osmosi musicale. Diventarono il punto di riferimento di un gruppo di amici (Pinchas Zukerman, Itzhak Perlman, Zubin Mehta, Vladimir Ashkenazy) che avrebbe radicalmente ringiovanito il mondo della musica classica. Ma nel 1971 le prime manifestazioni della malattia l’obbligarono a rallentare l’attività e nel 1973 a interromperla. La Warner raccoglie qui tutti i dischi che la violoncellista realizzò per la Emi dal 1962 al 1972, con in più qualche registrazione radiofonica. Aveva una musicalità elettrizzante e apparentemente istintiva, anche grazie al suo maestro William Pleeth, a cui si unirono Paul Tortelier, Mstislav Rostropovič e i consigli di Pau Casals. Interprete apertamente romantica, aveva un tocco intenso e personale: alta e slanciata, usava il corpo e tutta la lunghezza dell’archetto per assaltare ogni esecuzione come una questione di vita o di morte. Era una musicista da camera di altissimo livello e una solista la cui eloquenza non ha ancora smesso di travolgere gli ascoltatori.
Patrick Szersnovicz, Diapason

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1470 - 22 luglio 2022
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