Nan Golding è sempre stata una figura dirompente della scena artistica statunitense. Ma come suggerisce questa avvincente e rivelatoria biografia realizzata da Laura Poitras, a rendere Golding una figura davvero radicale non sono le sue trasgressioni né il suo attivismo né che sia stata pronta a tutto. È il fatto che, da artista affermata, ha usato i suoi privilegi per andare all’attacco delle stesse istituzioni che la celebravano. Poitras sintetizza tutto ciò in un ritratto in cui intreccia elementi biografici con un resoconto della campagna di Golding contro il “riciclaggio” di reputazione compiuto attraverso la filantropia dalla famiglia Sackler, che ha fatto la sua fortuna miliardaria grazie all’ossicodone.
Wendy Ide, Screen International
Francia 2022, 122’.
Il primo film di fiction di Alice Diop, ultraradicale e volutamente poco spettacolare, parte dalla vicenda di Fabienne Kabou, la donna originaria di Dakar condannata a vent’anni di carcere nel 2016 per infanticidio. Diop mette in piedi un confronto tra la protagonista del film, una giovane scrittrice che assiste al processo, e il racconto dell’imputata. Contrariamente ai classici film processuali, Saint Omer non insiste sul terrore, sulle emozioni o sull’empatia, ma sulle parole dell’imputata (un linguaggio molto articolato che all’epoca destò uno stupore vagamente razzista). Diop non cede al linguaggio del documentario: attraverso un complesso insieme d’identificazioni e invocando la Medea pasoliniana, difende la forza curativa del ricorso alla finzione, ma anche la sua prossimità con la follia.
Laura Tuillier, Libération
Irlanda / Regno Unito / Stati Uniti 2022, 109’.
È davvero strano che una paranoia molto contemporanea – subire il ghosting – sia resa in modo perfetto da un film ambientato in un’isoletta irlandese negli anni venti. Oltre alla brillante sceneggiatura di McDonagh, che mette momenti memorabili a disposizione di ogni componente del piccolo cast, quello che fa funzionare così bene questa commedia assurda sulla rottura di un’amicizia è il ricongiungimento di Colin Farrell e Brendan Gleeson, i due protagonisti del film d’esordio di McDonagh, In Bruges.
Phil de Semlyen, Time Out
L’ultimo film di Jafar Panahi sarebbe stata un’opera forte anche se a luglio il regista non fosse stato arrestato per l’ennesima volta. Apparentemente semplice, Gli orsi non esistono si trasforma un po’ per volta in una complessa riflessione sul prezzo che deve pagare chi in Iran non vuole rinunciare alla sua libertà di espressione, sul divario fra tradizione e modernità, sulle differenze tra la vita a Teheran e nelle comunità rurali più remote. Il regista, che interpreta se stesso, sta cercando di realizzare in remoto un film su una coppia che vuole lasciare l’Iran, in una cittadina vicina al confine con la Turchia. Cerca di mantenere un profilo basso, ma la situazione è destinata a esplodere. La confusione tra racconto e documentario non è nuova per Panahi, che però qui modula tutto per arrivare a una conclusione sconvolgente. E la stoica presenza del regista, esiliato nella sua terra, scuote gli animi.
David Rooney, The Hollywood Reporter
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