Ogni anno circa seimila contenitori arrivano in un laboratorio di Boulder, in Colorado. Ciascuno racchiude un campione d’aria prelevato da una rete di cinquanta stazioni di monitoraggio in tutto il mondo. Questi campioni potrebbero aiutarci a trovare la risposta a una delle domande più importanti per il pianeta: perché c’è tanto metano nell’atmosfera?
I contenitori blu e neri pieni di aria proveniente dall’Algeria, dall’Alaska, dalla Cina e da Samoa sono disposti in fila, pronti per essere analizzati. “Raccogliamo i campioni e poi li facciamo arrivare qui”, spiega Ed Dlugokencky, chimico del laboratorio di monitoraggio globale gestito dalla National oceanic and atmospheric administration. Il laboratorio misura i livelli di diversi gas all’interno dei campioni, dall’anidride carbonica al protossido di azoto e all’esafluoruro di zolfo, compilando meticolosamente un registro che rappresenta la base di grandi modelli climatici. Circa quindici anni fa i ricercatori del laboratorio hanno rilevato nell’atmosfera un aumento della quantità di metano, un potente gas serra con un effetto sul riscaldamento globale ottanta volte superiore a quello dell’anidride carbonica.
Inizialmente molti scienziati hanno pensato che l’incremento fosse dovuto alla produzione di combustibili fossili. Il metano è il principale ingrediente del gas naturale, ma viene emesso anche da altre attività umane come le discariche, le risaie e gli allevamenti di bestiame.
Negli ultimi anni, però, questo aumento ha accelerato bruscamente. Le implicazioni per il riscaldamento globale sono enormi: un terzo dell’incremento di 1,1 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale può essere attribuito al metano. Nel 2020 la sua presenza nell’atmosfera ha fatto segnare il più elevato tasso di crescita mai registrato, e nel 2021 questo record è stato battuto immediatamente. Nessuno sa davvero perché. “È sconvolgente”, ammette Lindsay Xin Lan del laboratorio di Boulder. “Molti scienziati stanno cercando una spiegazione”.
Una cosa che si comincia a capire è quale tipo di metano sia responsabile dell’incremento. Quello derivato dai combustibili fossili contiene una maggiore quantità di carbonio-13 rispetto a quello atmosferico, mentre quello prodotto da fonti microbiche (aree umide, discariche, animali) ne contiene meno.
Dall’inizio della rivoluzione industriale le emissioni legate ai combustibili fossili hanno alterato la proporzione tra i diversi tipi di carbonio verso una maggiore concentrazione di carbonio-13. Ma intorno al 2007, quando la presenza di metano nell’atmosfera ha ripreso a crescere, la tendenza si è invertita. L’aumento recente non deriva soprattutto dai combustibili fossili, ma da altre fonti. Questo suggerisce che il pianeta stesso stia emettendo più metano, e non accenna a rallentare. “Stiamo assistendo a un cambiamento sostanziale”, dice Dlugokencky. “Dopo duecento anni di crescita, all’improvviso stiamo osservando una diminuzione della proporzione di carbonio-13. Significa che è successo qualcosa di significativo”.
Per determinare cosa sia questo “qualcosa di significativo” bisogna studiare attentamente il metano emesso da una serie di fonti: dalle paludi e dai laghi poco profondi nei tropici allo scioglimento del permafrost nell’Artico, dalle discariche e dall’attività agricola all’industria dei combustibili fossili, oltre che ai “pozzi” chimici che lo catturano e lo rimuovono dall’atmosfera. “Il metano è un tipo di gas serra particolarmente affascinante, perché ci sono molte fonti e pozzi di cui tenere conto”, spiega Dlugokencky. “Bisogna comportarsi come un detective che vuole risolvere un caso”.
Svelare il mistero ci permetterà di stabilire se il mondo stia andando o no verso lo scenario più catastrofico, quello di una “bomba di metano”: un circolo vizioso in cui un pianeta sempre più caldo emette naturalmente una quantità maggiore di metano, alimentando ulteriormente il surriscaldamento. È una prospettiva terrificante, a cui gli scienziati che studiano l’argomento cercano di girare intorno, soprattutto nelle interviste. “Possiamo avere la sensazione che il circolo vizioso si stia innescando”, spiega Lan. “Ma è difficile distinguere i segnali dal rumore”.
Altri esperti sono più diretti. “Se le emissioni dovute ai combustibili fossili fanno cuocere il mondo a fuoco lento, il metano è una fiamma ossidrica”, spiega Durwood Zaelke, presidente dell’Institute for governance & sustainable development, che chiede misure più rigide per ridurre le emissioni di metano. “Il timore è che se riscalderemo la Terra abbastanza da cominciare a scaldarsi da sé, perderemo la battaglia”.
L’impronta del killer
Per anni il metano è stato piuttosto trascurato dalla comunità scientifica e dai politici, che si sono concentrati soprattutto sulle emissioni di anidride carbonica. Uno dei motivi è che tra il 2000 e il 2007 i livelli di metano nell’atmosfera sembravano essersi stabilizzati.
Ora i ricercatori stanno usando le misurazioni degli isotopi (atomi di uno stesso elemento, ma con un numero di massa diverso) di carbonio nelle molecole di metano e i dati satellitari per stabilire l’origine dell’aumento. Grazie al cambiamento nella proporzione di molecole con carbonio-13 sanno che l’incremento deriva da fonti microbiche. Ma quali esattamente? Le aree umide, il bestiame e le discariche producono metano “microbico”, generato dalla decomposizione della materia organica. Per capire quanto ognuna di queste fonti stia contribuendo all’aumento i ricercatori raccolgono dati locali in tutto il globo.
Secondo Paul Palmer, chimico atmosferico dell’università di Edimburgo, è come una partita di Cluedo, il gioco da tavola investigativo. “I dati dei satelliti ci svelano il luogo dell’omicidio”, spiega. “Gli isotopi, invece, ci dicono qual è l’arma del delitto, ovvero il tipo di fonte”.
Aree umide e bestiame sembrano i principali sospetti, sottolinea Euan Nisbet, professore di scienze della Terra alla Royal Holloway, University of London. “Le fonti biologiche stanno aumentando rapidamente. La crescita più intensa sembra provenire dai tropici”. Anche l’espansione dell’allevamento di bestiame e delle discariche in tutto il mondo sta alimentando l’aumento delle emissioni microbiche.
In uno studio di prossima pubblicazione, Lan e Dlugokencky sono giunti a una conclusione simile: l’85 per cento dell’aumento della quantità di metano nell’atmosfera dal 2007 è dovuto a fonti microbiche. Circa metà di questo metano proviene dai tropici.
Usando i dati satellitari, Palmer ha ristretto il campo all’Africa orientale, indicando in particolare gli acquitrini del Sudd, in Sud Sudan. “Assistiamo a un forte aumento delle emissioni dalle aree umide. Lo abbiamo scoperto solo nel 2019”, spiega Palmer.
Anche altre regioni tropicali caratterizzate dalla presenza di aree umide, come il sudest asiatico e l’Amazzonia, evidenziano una tendenza simile. Quando l’acqua nelle aree umide aumenta, aumentano anche le emissioni di metano, perché i microbi che producono il gas hanno più materia organica di cui cibarsi.
Queste fonti sono naturali, ma ad alimentare le emissioni è il riscaldamento dovuto all’attività umana. Il cambiamento climatico dovrebbe provocare precipitazioni più intense in Africa orientale. Diventando più calde e più umide, queste aree produrranno più metano. Altre fonti naturali – lo scioglimento del permafrost e gli incendi boschivi – sono anch’esse legate al cambiamento climatico.
Una bomba nel ghiaccio
Mentre Palmer lavora con i satelliti, altri scienziati operano sul campo, girando il mondo per raccogliere campioni di metano da inviare ai laboratori. Il laboratorio della Royal Holloway è pieno di scatole di campioni spediti dai quattro angoli del pianeta. “Questi sono affascinanti”, spiega Rebecca Fisher, ricercatrice in scienze atmosferiche, indicando una scatola appena arrivata. “Sono campioni di aria provenienti dalla stazione di ricerca Halley, in Antartide”.
Dato che in Antartide non esiste vegetazione, c’è pochissimo metano prodotto localmente, quindi è ideale come punto di riferimento.
Fisher sta per andare in Finlandia, quasi agli antipodi rispetto all’Antartide, per raccogliere campioni e rilevare quella che definisce “l’impronta digitale” isotopica delle emissioni delle aree umide nell’Artico. Analizzando non solo il carbonio-13 ma anche il deuterio, un isotopo dell’idrogeno detto anche idrogeno pesante, Fisher e altri scienziati stanno creando un archivio di queste impronte digitali. “Nell’Artico riscontriamo valori molto diversi rispetto ai tropici”, spiega Fisher. “Partendo da queste misure isotopiche possiamo verificare se rispecchiano ciò che troviamo nell’atmosfera”.
Oltre ad aiutare gli scienziati a comprendere l’attuale aumento delle emissioni di metano, l’Artico offre anche un’idea di come saranno le emissioni future: la regione si sta riscaldando tre volte più rapidamente rispetto al resto del pianeta. “Il permafrost da solo contiene 1.500 miliardi di tonnellate di carbonio”, sottolinea Katey Walter Anthony, professoressa di ecologia e biochimica dell’università dell’Alaska a Fairbanks. Man mano che si scioglie, il carbonio può essere trasformato in metano da microrganismi chiamati metanogeni.
Anthony ha viaggiato in tutta l’Alaska per misurare il metano emesso dai laghi, ed è rimasta sorpresa da quello che ha visto recentemente: “Negli ultimi cinque o sei anni ho osservato un cambiamento incredibile. Sembra che abbiamo superato una soglia e vediamo succedere cose strane”.
Una di queste cose strane è che a causa dello scioglimento del permafrost si stanno formando dei laghi, moltissimi laghi. Questi bacini, chiamati laghi termocarsici, si stanno diffondendo rapidamente. E i microbi che producono il metano prosperano grazie alla materia organica appena scongelata presente sui fondali. “Nell’interno dell’Alaska abbiamo registrato un aumento di quasi il 40 per cento nella superficie coperta da laghi rispetto agli anni ottanta, dovuto ai nuovi bacini termocarsici”, spiega Anthony. “Questi emettono almeno dieci volte più metano di un lago normale”.
Secondo Anthony i modelli climatici attuali sottovalutano enormemente il metano rilasciato da questi laghi. In uno studio pubblicato nel 2018 da Nature Communications, la scienziata ha calcolato che se la tendenza delle emissioni di gas serra da attività umane resterà invariata tra il 2050 e il 2070 il metano potrebbe diventare la fonte primaria di riscaldamento atmosferico a causa dello scioglimento del permafrost.
Per il momento le emissioni di metano dai laghi artici sono molto inferiori rispetto a quelle delle aree umide tropicali. “Teniamo d’occhio l’Artico, ma allo stato attuale non sembra essere la causa principale del problema”, spiega Nisbet. “Esistono diversi circoli viziosi potenziali. Nell’Artico dobbiamo tenere alta l’attenzione”.
Impegni insufficienti
I governi possono fare poco per il metano prodotto dalle aree umide e dai laghi termocarsici, ma si sono già impegnati a ridurre quello che deriva dalle attività umane. Circa metà delle emissioni di metano dipende da queste attività, mentre l’altra metà è legata a fenomeni naturali. Alla conferenza di Glasgow sul clima del 2021 più di cento paesi hanno firmato il Global methane pledge, impegnandosi a ridurre collettivamente le emissioni di metano del 30 per cento entro la fine di questo decennio.
Un taglio delle emissioni di metano avrebbe un impatto più immediato sulle temperature rispetto al taglio delle emissioni di anidride carbonica, perché il metano resta nell’atmosfera circa dieci anni (a seconda delle condizioni), mentre la CO resiste almeno un secolo. Secondo un rapporto pubblicato a maggio del 2021 dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, uno sforzo coordinato a livello mondiale per ridurre le emissioni di metano usando le tecnologie esistenti potrebbe diminuire le emissioni derivanti da attività umane del 45 per cento entro il 2030, evitando un riscaldamento di 0,3 gradi entro il decennio successivo.
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Le soluzioni più immediate riguardano il settore dei combustibili fossili, responsabile di un terzo delle emissioni prodotte dagli esseri umani. Sistemi di ventilazione speciali nelle miniere di carbone, rilevamento tempestivo delle fughe di gas, riduzione degli sfiati di metano durante la produzione di gas e petrolio, e altre misure già disponibili potrebbero ridurre le emissioni di metano di 40 milioni di tonnellate all’anno. Il costo della cattura del metano emesso dalle discariche potrebbe essere ripagato dai profitti della vendita del gas.
Ma non è chiaro se queste misure saranno sufficienti. I paesi che emettono più metano – Cina e Russia – non hanno sottoscritto l’impegno di Glasgow, e anche se lo avessero fatto, non è detto che la riduzione delle emissioni da attività umane basterebbe a compensare l’aumento dovuto alle fonti naturali. Se a causa del riscaldamento la Terra sta già cominciando a rilasciare più metano, allora questo circolo vizioso potrebbe perpetuarsi da solo. Anche se il punto di non ritorno fosse lontano decenni, una volta raggiunto sarà molto difficile invertire il processo.
In vista di questa eventualità, alcuni gruppi stanno studiando la possibilità di rimuovere il metano dall’atmosfera. Tra le idee, ancora allo stato ipotetico, c’è aumentare l’eliminazione chimica immettendo particelle di ossido di ferro nell’atmosfera. Altre soluzioni prevedono di usare batteri che si nutrono di metano come “filtri”, per esempio nelle aziende casearie.
Eppure, nonostante il metano sia ormai una priorità, i finanziamenti per gli studi di monitoraggio sono ancora inadeguati. “Negli ultimi 15-20 anni non c’è stata alcuna espansione della nostra rete”, sottolinea Dlugokencky. A causa dei tagli ai fondi federali statunitensi oggi è più limitata che in passato.
Ma i cacciatori di metano non si arrendono. “In questo momento stiamo cercando di individuare le tracce delle fonti. Dobbiamo creare un archivio globale”, spiega Nisbet. È appena tornato da un viaggio in Canada, dove ha raccolto campioni dalle aree umide.
Anche se è vicino alla pensione, Nisbet continua a lavorare sul campo, in cerca di una risposta all’enigma. “Il nostro livello di conoscenza primaria è ancora molto basso”, spiega. “Il metano continua a regalarci sorprese”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati