Mohammed, 32 anni, protagonista di Le donne della famiglia, è un uomo sotto pressione. È il figlio più giovane di Mennan, il capo del clan al-’Abd al-Lat con sede a Ras al-Naba’, vicino a Gerusalemme. Nel 1982 l’anziano patriarca sta per morire e vuole che Mohammed diventi il capo dopo la sua morte. Il riflessivo Mohammed, amante dei libri, sa che non può diventare una copia di suo padre. È più interessato alla sua carriera di scrittore. Per quindici anni, a partire dal 1958, ha lavorato al tribunale della sharia di Gerusalemme, ma poi ha lasciato tutto per dedicarsi alla scrittura e al giornalismo. L’impiego al tribunale gli ha permesso di avere una visione unica della vita delle donne e ha fornito molto materiale alle sue imprese letterarie. Mohammed ha sfidato i suoi genitori per sposare Sanaa, una donna divorziata, che non può avere figli e che ha tre anni più di lui. Ha subìto pressioni da parte della famiglia affinché divorziasse o almeno prendesse una seconda moglie. Un elemento ricorrente del romanzo è il dolore provato dalle mogli nei matrimoni poligami. Le donne della famiglia è composto da testimonianze in prima persona, avvincenti e commoventi, che hanno una qualità intima e colloquiale. Con abilità consumata, Mahmud Shukair intreccia il tumulto della Palestina con la storia del clan e dei suoi componenti, che hanno vissuto la dominazione ottomana, il mandato britannico, la rivolta del 1936, la nakba del 1948, quando migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case in seguito alla nascita dello stato di Israele, il dominio repressivo della Giordania, la guerra del 1967 e infine l’occupazione israeliana.
Susannah Tarbush,Banipal
Tutto comincia con una scena a dir poco biblica: un neonato, figlio illegittimo di una ragazza la cui vita è nel caos totale, piange per la prima volta nella capanna accanto alla casa di una coppia che non può avere figli, mentre un asino gli soffia sopra come per avvolgerlo in un calore materno. Nel cielo, le costellazioni brillano. È la domenica di Pasqua su un’isola delle Indie Occidentali. La coppia senza figli vede nel bambino un “dono di Dio”. Lo chiamano Pascal. Prende forma il presepe. Nascono le parabole. Ed è così che nasce un vangelo alla Condé, con uno stile di scrittura vivace che punge e accarezza. Un vangelo che rivela le peregrinazioni agrodolci dell’inesauribile immaginazione di una scrittrice desiderosa di verità e di chiarezza sui fatti e sui misfatti che uniscono il nostro mondo. C’è qualcosa nel piccolo Pascal, cresciuto come pescatore sulle coste della sua isola nativa dei Caraibi, che lo rende prodigioso quanto Gesù stesso: il colore della sua pelle. Pascal è bianco e nero. O né bianco né nero. È la riconciliazione. Maryse Condé cerca di dare risposta a enigmi che la assillano da tempo. Cosa fare in questo mondo che ha visto infrangersi la négritude? Ci consegna così una storia in cui il dramma si mescola all’ironia, le domande non richiedono risposte ma il silenzio del buon senso, in cui “l’essere umano non è né del tutto bianco né del tutto nero”, la felicità e gli orrori della religione sono messi in discussione, in cui infine il mistico si scontra con la realtà.
Katia Dansoko Touré, Libération
La trama di Simón va avanti con un’ammirevole attenzione al contesto degli anni dal 1992 al 2018, ai cambiamenti della città di Barcellona e a quelli dei ragazzi che ci vivono, protagonisti di una storia di perdenti. L’ambientazione è quella del mercato di Sant Antoni, con i suoi libri usati e antichi. Ma è il personaggio principale, Simón, che cattura davvero il lettore. La grazia del romanzo risiede nella cura con cui ogni personaggio si fa carico delle proprie debolezze, dei complessi e delle paure. Otero evita la demagogia (nonostante i colpi invisibili che sferra qua e là) e preferisce attaccarsi amorevolmente e dolorosamente alla pelle di una manciata di personaggi, alle loro sconfitte e alle loro disillusioni. Ma tutti fanno perno su Simón e sulla sua educazione sentimentale legata ai libri erotici ottocenteschi. C’è qualcosa di triste nell’epopea della sconfitta di questi moschettieri di quartiere, che hanno contro di sé tutte o quasi le carte in tavola. E quando alcune carte sono più benevole, si portano addosso il profumo di un crimine, e allo stesso tempo di una biblioteca.
Jordi Gracia, El País
Il romanzo si apre con il funerale di una delle due protagoniste, a cui assiste l’altra, e prosegue tracciando le loro traiettorie parallele nell’arco di quarant’anni. Cusset non esita a usare il vecchio trucco del manoscritto ritrovato, di cui il libro è una trascrizione. Una volta che il lettore si trova su un terreno familiare, l’autrice può fare ciò che le interessa: osservare il tempo, il suo effetto sulle persone, la consistenza dei giorni, l’allungarsi degli anni. La scrittrice francese, nata nel 1963, ha il gusto e il talento per romanzi che si estendono per decenni o generazioni. Questo spazio temporale le offre ampie possibilità di continuare a esplorare i temi che le stanno a cuore: i legami familiari, l’effetto della storia collettiva sui destini individuali, la durata dell’amore, la durata del desiderio, la percezione che gli altri hanno di noi e l’importanza che attribuiamo loro. Tutto questo è al centro di La definizione della felicità e delle vite incrociate di Clarisse ed Eve. Cusset descrive il loro ardore e le loro rinunce, l’effetto della contingenza sui loro destini, le loro evoluzioni e ciò che, in ognuna di loro, non cambia. Raphaëlle Leyris, Le Monde
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