Dopo la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni italiane gli appelli per la collaborazione tra il Movimento 5 stelle (M5s) e il Partito democratico (Pd) sono andati ben oltre le pagine del Fatto Quotidiano. È una reazione inevitabile di fronte a una destra che ha la maggioranza in parlamento, ma non nella società. Un tema sollevato anche da Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia-Romagna e potenziale futuro segretario del Pd. Una persona che di sicuro non può essere sospettata di vicinanza al leader dell’M5s Giuseppe Conte, e che già prima delle elezioni parlava di una ridefinizione dell’opposizione.
Goffredo Bettini è un veterano del Pd ed è tra i fautori del dialogo con l’M5s. Si fanno spesso paragoni con il “modello Roma” degli anni novanta, quando lui e il suo partito sostennero il sindaco Francesco Rutelli, dei Verdi. Il 10 settembre Bettini ha dichiarato al Manifesto che la ricostruzione di un “campo democratico” ampio deve combinarsi con una sinistra più “terragna”, ossia più vicina ai “ceti deboli, le vittime di un modello capitalistico vorace”.
I governi sostenuti negli ultimi anni dal Partito democratico hanno puntato all’abbassamento del costo del lavoro, riducendo le protezioni per i ceti più bassi
Il paragone con gli anni novanta però non regge. Il Pd oggi è un altro partito, con una base diversa. Indubbiamente il segretario Enrico Letta (e Nicola Zingaretti prima di lui) hanno posto l’attenzione sul lavoro. Tuttavia, anziché fare da argine agli effetti descritti da Bettini, i governi sostenuti negli ultimi anni dal Pd ne sono stati gli architetti. Tutti (non solo Matteo Renzi) hanno puntato all’abbassamento dei costi del lavoro, riducendo le protezioni per i ceti più bassi e dando poche risposte su questioni come l’accessibilità ai servizi per l’infanzia. La pandemia ha colpito un mondo del lavoro già in crisi.
Dopo la pandemia c’è stato un aumento d’investimenti pubblici, oltre a un allontanamento dai dogmi dell’austerità. Nonostante questo, i risultati elettorali dicono che gli indici di gradimento di Mario Draghi non corrispondono di certo a una diffusa convinzione che il Pd, orgoglioso sostenitore dell’ex presidente del consiglio, incarni gli interessi popolari. Lo strappo di Giuseppe Conte con il governo Draghi, e il modo in cui questa decisione è stata condannata dal Pd, hanno aiutato il leader del Movimento 5 stelle a ridefinire il posizionamento “sociale” del suo partito, nonostante un percorso pieno di contraddizioni. I cinque stelle hanno fatto una campagna centrata su un leader dal volto “progressista”, diversa da quelle del 2013 o del 2018. Chi si ricorda di quando Beppe Grillo condannava i sindacati e sosteneva che pensionati e dipendenti pubblici “non erano stati toccati dalla crisi”? In alcune interviste prima delle elezioni Conte ha contestato l’idea che la sua campagna ruotasse solo attorno al reddito di cittadinanza. Eppure è stato questo il suo messaggio più importante, anche dopo il risultato: “Chi tocca il reddito di cittadinanza troverà in noi un argine insuperabile”, ha commentato la notte del voto, sottolineando come il partito avesse difeso il sud.
A causa delle divisioni dell’opposizione non c’è stata competizione e la campagna elettorale si è impoverita, ruotando solo attorno all’inevitabile vincitrice. Se i timori per le idee di estrema destra di Giorgia Meloni sono più che giustificati, il tema del “voto utile” è stato indebolito dall’incapacità di costruire un blocco che avesse anche una minima speranza di fermarla.
Inoltre, sommare i voti di partiti d’opposizione diversi ha un che di autoconsolatorio. Anche al di là della caduta di Draghi, le loro posizioni sull’Ucraina erano più distanti di quelle all’interno della destra. E non possiamo sapere come si sarebbe comportato l’elettorato del Movimento 5 stelle in caso di alleanza con il Pd. All’interno della coalizione di centrosinistra l’Alleanza verdi e sinistra ha eletto persone meritevoli come Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro, ma non ha superato i limiti dell’elettorato storico. E nonostante il M5s avesse detto di volere un’intesa con Pd e Alleanza verdi e sinistra, una volta che questo non è stato possibile ha rifiutato anche l’idea di formare un polo alternativo con altri partiti antisistema come Unione popolare, preferendo monopolizzare lo spazio alla sinistra del Pd.
Tuttavia, le radici delle difficoltà del centrosinistra si trovano anche altrove. I mali del presente riflettono uno svuotamento della capacità d’incanalare il malcontento popolare nella mobilitazione, e perfino di quella che potremmo definire una concezione spirituale del bene pubblico, tutti elementi su cui la sinistra si è storicamente formata. Per dirla senza mezzi termini: perfino una sinistra socialdemocratica degna di questo nome dovrebbe preoccuparsi molto più del 36 per cento di italiani che non ha votato che del 7 per cento che ha scelto Carlo Calenda. Il punto non è solo essere più “terragna”: l’astensionismo è il frutto di decenni di abbandono. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati