Cosa vuol dire essere un musicista mancato? Che non ci si è attivamente impegnati per dare un corso a un abbozzo di talento o che la musica non vi ha visti affatto anche se aveva l’opportunità di farlo, calandosi su di voi come una luce divina? (A proposito di luce divina che cala su un artista, qualche giorno fa era l’ottantesimo anniversario della nascita di Franco Battiato). Il premio Nobel per la letteratura Jon Fosse, di passaggio in Italia per ricevere delle onorificenze, racconta l’origine della sua scrittura, improntata alla ripetizione melodica come quella di una musica mancata, evolutasi nelle sue digressioni ipnotiche fino a somigliare più alla preghiera, che in fondo è un tipo particolare di scrittura musicale.
Dal minimalismo della musica classica contemporanea Fosse forse prende anche vuoti e silenzi, attimi “negativi”, che spesso hanno fatto accostare il suo lavoro a pensatori della crisi come Beckett, per non dire Heidegger e Nietzsche. Ma sono somiglianze di superficie, un po’ da algoritmo di Spotify, perché a proposito di Battiato molto nella sua scrittura fa pensare a quel Tutto l’universo obbedisce all’amore o a un vuoto funzionale, lontano dal nichilismo, da cui discende la pace: i personaggi di Fosse, artisti che rasentano la follia e che si avviluppano su pensieri ricorrenti nel tentativo d’incontrare ipotesi di loro stessi in dimensioni temporali parallele, proprio come nei sogni, sono eredi di quell’emanciparsi dall’incubo delle passioni con cui il cantautore siciliano ci ha consegnato la sua canzone d’amore migliore. Come Fosse, anche lui stava nel realismo mistico. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati