Irie Fuyuko, una correttrice di bozze di 34 anni, riceve per due volte una bottiglia di profumo del marchio di lusso Chloé. Entrambi i flaconi sono regali di colleghe di lavoro: prima l’affascinante Hijiri, una femminista neoliberista che dimostra il suo affetto commissionando regolarmente a Fuyuko lavori da freelance; e poi Kyoko, redattrice della casa editrice di Tokyo che Fuyuko lascia all’inizio del romanzo per lavorare in proprio. Per chi non lo sapesse, i profumi Chloé sono commercializzati come “quintessenza della femminilità”, con pubblicità che ritraggono modelle dall’aspetto naturale e arruffato. Una sera, davanti a un drink, Hijiri nota che Fuyuko non è truccata e le chiede: “Non sei una di quelle tipe naturali, vero?”. Il libro di Kawakami è incentrato su questo doppio vincolo creato dall’ideale femminile: la tristezza generata dall’inevitabile fallimento di una donna nell’essere all’altezza di standard impossibili di bellezza e simpatia, unita alla mancanza di qualsiasi altro punto di riferimento attraverso cui vedere se stessa o le sue coetanee. Fuyuko ne soffre in modo estremo. Con pochi amici, nessun hobby e una carriera solitaria, è derisa dalle altre donne per il suo aspetto scialbo e per la sua assoluta mancanza di abilità sociali, di vita familiare o sentimentale. Questa presa in giro, tuttavia, non le impedisce di giudicare privatamente gli altri sulla base del loro peso, dell’età, dell’abbigliamento e delle norme sociali. Ciò che rende il romanzo di Kawakami così brillante è la comprensione del motivo per cui le donne possono aderire volentieri a modalità regressive di femminilità performativa, anche quando le criticano. È impietoso nel descrivere il male che le donne s’infliggono a vicenda, senza mai perdere di vista le strutture generali che le spingono a farlo. Un’opera di straordinaria intelligenza.
Jo Hamya,The New York Times
Dopo la guerra è una raccolta di testi in parte inediti che compongono una narrazione personale cupa, sobria e potente sul tema dell’amata e odiata Germania. Come si può essere tedeschi? Philippe Claudel pone questa domanda attraverso i suoi personaggi, uomini o donne, vecchi o bambini, come se fossero dei ritratti in una intrigante galleria narrativa: figure realmente esistite e qui rivisitate, come il pittore Franz Marc, o più semplicemente immaginarie, come il fuggiasco ferito che s’interroga sulla sua colpa di soldato troppo obbediente. Tutti i personaggi portano le tracce – cicatrici o stimmate – di una violenza costitutiva, a volte appena consapevole. La giovane infermiera che maltratta un vecchio nazista costretto a letto, o il piccolo orfano di guerra nel magnifico racconto conclusivo, dicono qualcosa su un conflitto che anche dopo la fine continua sotto lo sguardo dell’altro… il vicino, il fratello nemico, il possibile amico? La Germania nel suo complesso appare quasi come un territorio immaginario: un possibile luogo di scrittura di sé nella reinvenzione della storia, la cartografia interiore di una pura finzione. In altre parole, la Germania è prima di tutto un (bel) libro.
Fabrice Gabriel, Le Monde
Sophie Daull conosce l’arte di raccontare vite che fuggono via e destini che vanno fuori strada. Quella di sua figlia, Camille, scomparsa all’età di sedici anni. E quella di sua madre, Nicole, uccisa a 45 anni. Sa tutto della breve vita di Camille. Dei primi 26 anni di Nicole, invece, non sa quasi nulla. Dopo la morte della figlia aveva scritto un primo libro luminoso, Camille, mon envolée. Per il suo secondo libro, La sutura, si mette sulle tracce di Nicole, munita di pochi e scarni indizi tutti raccolti in una scatola da scarpe. Da lì parte una ricerca meticolosa che ha la forma di un road movie attraverso la Francia più profonda. Da Coulommiers a Contrexéville, da Belfort all’Alsazia, Sophie Daull usa la sua capacità di trovare la parola giusta e la frase capace di toccarci. Una finzione-ricostruzione in cui l’autrice tira l’ago dei ricordi fino alla fine della sutura che lega madre e figlia, riempiendo i vuoti di un passato ricostruito. Il lettore diventa il testimone di una toccante genealogia di sentimenti.
Olivier Milot, Télérama
La trama di Mammut, terzo romanzo di Eva Baltasar, segue due fili narrativi che sembrano combaciare un po’ a malincuore, come due colleghi di lavoro che non si capiscono molto bene ma si devono sopportare. La protagonista è una ragazza che aspira a essere una madre single perché non vuole che “nessun padre reclami mai la mia parte”, che si stanca del suo lavoro all’università, in un gruppo di ricerca della facoltà di sociologia, e che poi accetta impieghi poco significativi fino a quando ha un’illuminazione: “Era chiaro per me che il mondo del lavoro era un incubo”. Decide così di fuggire dalla città e si stabilisce in un villaggio, in una vecchia casa su una collina isolata, a poca distanza da un pastore. Mammut segue le vicissitudini domestiche della ragazza nel suo nuovo habitat, racconta come riesce a sopportare le avversità quotidiane. Lo stile di Baltasar oscilla tra l’effervescenza della prosa poetica e il gusto per l’aforisma trascendentale. In Mammut tutto vorrebbe essere intensità, un torrente d’immagini potenti, un continuum di colpi verbali che cercano di scuotere lo stomaco dei lettori sensibili. Ma l’autrice si perde in mezzo a una natura improbabile come le relazioni tra i personaggi o come il romanzo stesso.
Ponç Puigdevall, El País
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