Aaron Jerome ha sempre seguito la sua strada. Dopo vari esperimenti nei primi anni duemila con il suo vero nome, si è imposto alla fine del decennio con lo pseudonimo SBTRKT. Nei suoi lavori ricorre una certa irrequietezza. Jerome, produttore britannico di origini asiatiche, compone musica capace di pescare da indie, dance, dub e soul, quindi occupa una categoria a sé. Da quando sette anni fa è uscito il suo disco precedente, però, sembra che il resto del mondo si stia allineando al suo ritmo. Con Arlo Parks, Little Simz, The Comet Is Coming e altri, sembra che gli artisti neri britannici abbiano capito cosa possono essere, senza diventare ostaggi del mercato. I confini tra i generi sono sempre meno definiti e questo diventa il territorio ideale per The rat road, dove Jerome decide di non scendere a compromessi e mette in risalto la sua identità creativa. In questo disco spiccano voci come quella di D Double E, tesoro britannico del grime, Little Dragon, Toro Y Moi e dell’amico Sampha. Il bello è che tutto suona naturale e queste ventidue brevi canzoni lasciano la sensazione di un viaggio travolgente nel cuore della notte londinese.
Joe Muggs, The Arts Desk
Date a Billy Woods un filo e lui tesserà un labirinto. Le sue narrazioni navigano in mezzo alle divertenti assurdità dell’esistenza attraverso metafore e minotauri, senza vicoli ciechi, solo corridoi che si snodano a spirale verso l’interiorità. Nei diari di viaggio di Woods, raccontati attraverso ricordi confusi e rivisitazioni in colori saturi, non si capisce mai chiaramente dove sia diretto, ma è bello perdercisi dentro con lui. Maps, la seconda collaborazione del rapper statunitense con il produttore Kenny Segal, è una sequenza di road movie coinvolgenti e introspettivi. È un’odissea rappresentata attraverso gli occhi annebbiati di un artista in tour in Europa, da Bratislava a Utrecht, a base di dispacci dai ristoranti etnici e cucchiai unti, backstage dissoluti e voli in classe economica. Woods fa da spettatore in un lussuoso afterparty nel brano FaceTime, e opportunamente consegna il ritornello a Samuel T. Herring dei Future Islands, uno che sa raccoontare la foschia mondana della vita in tour. Ma solo un paio di canzoni dopo, in NYC tapwater, Woods è a casa sua, felice di trovare finalmente tranquillità e di tenere in grembo un gatto che fa le fusa. Non c’è un posto come casa, nel bene e nel male, ma durante il viaggio dall’altra parte del mondo il rapper ha trovato una poesia profonda e sottile nelle immagini, nei suoni e nelle sensazioni.
Jeff Terich, Treblezine
Stephen Hough aveva già dedicato un disco a Federico Mompou nel 1996. Oggi torna sul compositore catalano con questa registrazione integrale di Música callada. Il titolo della raccolta, che significa musica silenziosa, viene dal Cantico spirituale del mistico Giovanni della Croce, e fu scelto da Mompou per indicare un suono che esprime qualcosa che le parole non sanno trasmettere. Questi 28 pezzi, riuniti in quattro raccolte tra il 1958 e il 1967, sono senza dubbio il punto più alto dell’opera pianistica di Mompou, e ne impongono il ruolo centrale nella storia della musica della penisola iberica, dopo i gioielli di Albéniz, Granados o De Falla. Hanno un minimalismo che può ricordare Satie, ma con ben altra profondità umana. Tra tutte le registrazioni disponibili, quella dell’autore è irraggiungibile, anche se quando la fece aveva ottant’anni e un pianoforte mediocre. Senza cercare di riprodurre l’incomparabile rubato di Mompou, Hough realizza qui uno dei suoi dischi più belli. Il pianista britannico immerge in un crogiolo da alchimista le sonorità che definisce “musica dell’evaporazione” e ne estrae una materia fatta di una quantità infinita di sfumature dinamiche. Scolpito in un registro ombroso, il pianoforte alimenta un respiro misterioso e sensuale, che illumina la Música callada come una scia lunare.
Gérard Belvire, Classica
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