L’anima del titolo è quella del violino: posta all’interno della cassa armonica, vicino al ponticello, trasmette le vibrazioni delle corde. E il violino – un Nicolas François Vuillaume del 1857 – è quello di Yu, che nel 1938 i soldati spaccano davanti ai suoi occhi a Tokyo perché, in piena guerra sino-giapponese, ha osato formare un ensemble con tre giovani musicisti cinesi per suonare Rosamunde, il quartetto per archi in la minore di Schubert. Yu è poi accusato di complottare con il nemico e di tradire la sua nazione e scompare per sempre. Nascosto in un armadio, il figlio undicenne di Yu, Rei, che aveva perso la madre, assiste a questa scena traumatica ed è salvato solo dalla compassione di un tenente amante della musica. Adottato da una coppia francese, Rei Mizusawa diventa Jacques Maillard. Studia letteratura alla Sorbona prima d’imparare, a Mirecourt, l’arte della liuteria e il suo sottile uso del legno: abete rosso per la tavola, acero per il ponticello, ebano per la cordiera. Nei Vosgi incontra la sua futura moglie, Hélène, un’archettaia. Ora è un rinomato maestro liutaio e realizza i suoi violini, ma non ha mai completamente abbandonato l’idea di rimetterne insieme i pezzi di quello di suo padre. Il lavoro di restauro si fonderà lentamente con quello di una ripresa interiore, spingendolo a tornare nella sua terra natale. Akira Mizubayashi è riuscito a fare di questo violino il protagonista del suo libro, unendo il naturalismo del romanzo francese all’incanto delle fiabe giapponesi.
Jérôme Garcin, L’Obs
L’inventore è Augustin Mouchot (1825-1912), ultimo figlio di un fabbro di Semur-en-Auxois (Côte-d’Or) che, troppo debole per quel lavoro, fu prima maestro elementare e poi insegnante di matematica. Fin dalla nascita aveva una passione per il Sole. Quando ad Alençon, nella biblioteca di un colonnello che aveva combattuto in Crimea e di cui aveva rilevato l’affitto, scoprì un resoconto del fisico e naturalista ginevrino Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), che aveva sviluppato un eliotermometro per cucinare i suoi pasti in cima alle Alpi, la sua vita fu stravolta. Dedicandosi con passione allo sfruttamento dell’energia solare, passò dal fallimento alla disillusione, fino a quando, per caso, uno dei suoi prototipi funzionò. Nel marzo 1861 registrò un brevetto per la sua eliopompa, un riflettore parabolico affiancato da una caldaia cilindrica in vetro – ma ogni dimostrazione pubblica si rivelò un fiasco. Tuttavia, la sua sfida suscitò interesse. Ogni volta che Augustin Mouchot subiva una battuta d’arresto, un miracolo lo rimetteva in sella. Il ciclo di successi e insuccessi continuò senza sosta. E anche se Mouchot finì per avere il suo momento di gloria all’Esposizione universale del 1878, ai margini di una storia politica e militare che gli era indifferente, continuò a inseguire il sogno di toccare il Sole con un dito. Bonnefoy offre una biografia romanzata di un visionario sprofondato nell’anonimato, di cui restituisce le intuizioni.
Philippe-Jean Catinchi, Le Monde
Ali Smith scrive storie che si trasformano in incantesimi e scambi di battute che diventano dialoghi platonici e chiacchiere da music-hall. Tocca temi moderni come la crisi climatica, la migrazione e la pandemia, ma in modo obliquo. In Coda ci sono due filoni narrativi che s’intrecciano in modo soprannaturale. La protagonista di quello principale è Sandy. Suo padre è malato, così lei si trasferisce a casa sua per prendersi cura del cane. Una sera riceve una telefonata da un’ex compagna di scuola, Martina, che vuole raccontarle una storia. Le due non si sono mai piaciute molto. Le loro conversazioni sono scontrose, ma le storie che si scambiano le trasformano. Coda è una storia di lockdown. Le persone, tra cui Sandy, siedono fuori dall’ospedale e guardano le finestre del reparto in cui probabilmente stanno morendo i loro cari. La trama secondaria introduce una fabbra che viaggia nel tempo capace di costruire cose bellissime. Tra loro c’è una famosa serratura, tutta ricoperta di foglie d’edera in ferro battuto, che è al centro della storia raccontata da Martina. Le visioni liriche si alternano alla farsa e poi al commento esasperato sull’incongruenza tra le due cose. Echi shakespeariani risuonano nel libro. Le favole lo arricchiscono: sui padri e sulle figlie, sui fratelli intercambiabili, sugli animali magici e sull’indeterminatezza sessuale.
Lucy Hughes-Hallett, The Guardian
Bridget è un’accademica che ha una relazione con lo psicoterapeuta John, ma l’attenzione si concentra sulle spiacevoli dinamiche tra Bridget e i genitori, che hanno divorziato prima che lei compisse due anni. Il padre è il tipo d’uomo che si riferisce a George Harrison come “il mio amico George”, perché l’ha incontrato una volta all’aeroporto, ed è anche un bullo. Ma il vero punto focale è la mamma, Hen. Non è una prepotente, ma un’artista la cui incapacità di dire qualcosa di autentico a Bridget durante la sua crescita ha spinto quest’ultima a considerarla una persona da gestire invece che da amare. Come altri personaggi di Gwendoline Riley, Bridget è dotata di una lacerante capacità di criticare gli altri e di un’incapacità di criticare se stessa. Ci sono dei fantasmi: Hen accenna al fatto che il suo matrimonio era più oscuro di quanto sembrasse; Bridget, in modo obliquo e confuso, allude alla possibilità che anche la sua infanzia possa esserlo stata. Ma spiegare o illuminare non è compito dell’autrice.
Claire Allfree, Evening Standard
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