Cultura Suoni
Átta
Sigur Rós (Tim Dunk)

È facile dare per scontata la forza emotiva dei Sigur Rós. Il loro pezzo del 2015 Hoppípolla è diventato così onnipresente, dai talent show ai documentari sulla crisi ambientale, che si è trasformato nell’archetipo della musica strappalacrime. Tutto quello che fa la band islandese è carico di un impatto emotivo universale. E poi c’è la voce androgina di Jónsi, che cantando nella sua lingua inventata, il vonlenska, sembra creare canzoni folk per tutte le culture e nessuna, come se abitassero uno spazio mitico condiviso. Adesso, a dieci anni da Kveikur, sono tornati e sono esattamente come ce li ricordavamo, ma con meno chitarre e batteria per fare largo agli archi. In ogni brano di Átta l’orchestra funziona così bene da colonna sonora dei quattro elementi che sembra di sentire la voce del documentarista David Attenborough; poi arriva Jónsi con una nota più alta e abbiamo tutto quello che serve. In alcuni momenti i glissati sono troppo improvvisi, ma va bene così. Come in un film della Pixar, è un trucco così efficace da sembrare manipolatorio, ma ci ricorda anche che al centro batte un cuore umano. A volte quando qualcosa funziona, funziona e basta, e qui i Sigur Rós ci mostrano cosa sanno fare meglio.
Joe Muggs, The Arts Desk

Fountain baby
Amaarae (Chanel Moye)

In un’intervista del 2020 con la rivista online Pitchfork, Amaarae si chiedeva se la musica africana stesse per raggiungere la popolarità internazionale. Dopo il suo ultimo lavoro, Fountain baby, l’artista ghanese-statunitense forse deve smettere di farsi questa domanda, perché sta contribuendo in prima persona a rendere questa popolarità un fatto concreto. Fountain baby non è un semplice album afrobeats, anche se grazie alle percussioni martellanti e ai fiati l’influenza dell’Africa occidentale è sempre presente. Ma quello di Amaarae è semplicemente pop globale. Come un’abile alchimista, la cantante fonde folk giapponese, flamenco spagnolo, rock statunitense e altro ancora per creare un suono stratificato e originale, che però resta sempre coerente. C’è una linea sottile tra sperimentazione e insensatezza, e Amaarae sta sempre attenta a non oltrepassarla. La filosofia della cantante è ben riassunta da un verso del brano Sex, violence, suicide: “Faccio quello che voglio così posso fare a modo mio”. Anche se la produzione di Fountain baby è complessa, l’abilità di Amaarae di creare melodie orecchiabili e battute divertenti (in particolare in canzoni come Co-star o Water from wine), iniettando ovunque divertimento e intimità. Fountain baby è più sperimentale del disco d’esordio della cantante di origine ghanese, ma al tempo stesso è un ascolto rinfrescante.
A. Harmony, Exclaim!

The American project. Teddy Abrams, Michael Tilson Thomas

Compagno di studi di Yuja Wang al Curtis institute di Filadelfia, quindici anni dopo Teddy Abrams dedica alla pianista un concerto. È immaginato per essere eseguito insieme a Rhapsody in blue, che però nel disco non c’è. Peccato, anche perché così da ascoltare ci resta solo il lavoro di Abrams, lungo il doppio di quello di Gersh­win. Il grande ventaglio d’influenze del pezzo, nere e latino­americane, si dispiega in una scrittura orchestrale che ricorda quella di una big band, con tre sassofoni, chitarre elettriche e basso, piano Rhodes e organo elettrico. Il compositore dirige la sua orchestra di Louisville con un ottimo swing, ma l’incontro concertante con il pianoforte non arriva mai. Abrams ha scritto per la sua solista quattro grandi cadenze che le permettono di mettere in luce i suoi mezzi sbalorditivi, ma le fanno anche correre il rischio di un eccesso di narcisismo. L’album comincia con You come here often?, un pezzettino solista che sembra più che altro un bis. Michael Tilson Thomas, anche lui direttore d’orchestra, offre a Yuja Wang una parte birichina e molto dinamica, piena di pause da piano bar. Questo “progetto americano” è troppo corto da tutti i punti di vista.
Benoît Fauchet, Diapason

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1517 - 23 giugno 2023

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