Il romeno Cristian Mungiu non è un regista prolifico, ma compensa con il peso specifico dei suoi film. Gli abitanti di un piccolo villaggio arroccato sui Carpazi sembrano formare una comunità unita e solidale, nonostante la miscela storicamente infiammabile di etnie romena, ungherese e tedesca che la compone. In un grande panificio, gestito da una capace manager ungherese, Csilla, si cercano disperatamente lavoratori per accedere a dei fondi europei. Neanche il ritorno dalla Germania del burbero e volubile Mathias, che nel villaggio ha lasciato l’ex moglie e il figlio, sembra turbare la quiete. Ma invece Mungiu, lentamente, va oltre le apparenze per rivelare un substrato nascosto di xenofobia, nazionalismo e razzismo. Il titolo originale del film, R.M.N., è la sigla che indica la risonanza magnetica nucleare, un esame usato per rilevare tumori al cervello, come quello che ha colpito il padre di Mathias. Il cancro che aggredisce la comunità invece si radica quando tre operai dello Sri Lanka sono assunti dal panificio per risolvere la mancanza di forza lavoro. Un potente pianosequenza di diciassette minuti in cui 26 persone prendono la parola durante una riunione degli abitanti, mostra il malessere profondo. Solo in pochi si rifiutano di cedere alla deriva di minacce e intimidazioni. Ma Mungiu sembra volerci suggerire che loro, come l’intera Europa, stanno combattendo una battaglia persa.
Phil de Semlyen, Time Out
Romania / Francia / Svezia 2022, 125’. In sala
Francia 2022, 105’. In sala
In perfetta sintonia con l’aria che tira, Lola Quivoron, per il suo primo film, inventa un personaggio che sfugge alle etichette di genere: Julia è una donna totale, bella e tosta, tenera e sveglia. Basta vedere come, nelle prime scene del film, rivolta i pregiudizi degli uomini contro loro stessi per rimediare una nuova moto. Julia frequenta un gruppo di ragazzi che si diverte con i rodei urbani, gare illegali che si svolgono su strisce d’asfalto con le moto da motocross. L’incidente mortale di uno di questi ragazzi lascia un posto vacante in una crew che Julia prontamente occupa. Speculare al percorso della protagonista possiamo intravedere quello dell’autrice, che prova a farsi strada in mondi prevalentemente maschili, quello del cinema e quello dei rodei, a cui ha già dedicato due cortometraggi. Quivoron parte da una ricerca documentaristica e riesce a trovare nei ragazzi una certa dolcezza che ne cancella il machismo di facciata. Il personaggio di Julia non è sviluppato come avrebbe potuto essere, così come il tentativo di sfuggire completamente alle categorizzazioni binarie. Il film quindi segue la traccia di due relazioni più profonde che Julia riesce a stringere. E se questa traccia sembra condurre verso qualcosa di eccessivamente artificiale, Quivoron si salva con una deviazione finale esplosiva.
Olivia Cooper-Hadjian, Cahiers du Cinéma
Stati Uniti 2023, 93’. In sala
Il detective Danny Rourke (Ben Affleck) deve superare il trauma del rapimento della sua bambina di sette anni. Un evento che ha fatto naufragare il suo matrimonio e l’ha lasciato con tanti interrogativi senza risposta. Il lavoro sembra essere la sua ancora di salvezza, finché durante le indagini su una strana rapina in banca scopre l’esistenza di persone in grado d’influenzare gli altre attraverso l’ipnosi, facendogli compiere azioni contro la loro volontà. Praticamente dei cavalieri jedi. Questo è solo l’inizio dell’intrigo, che ovviamente comprende anche il rapimento della figlia del detective. Uno dei problemi con una storia come questa è che già nella premessa implica colpi di scena e attacchi alla percezione della realtà. Materiale delicato per un regista, che deve riuscire a farli funzionare dal punto di vista narrativo. Christopher Nolan, con Inception, c’era riuscito. Robert Rodriguez ci prova, ma non ce la fa.
James Berardinelli, ReelViews
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