Leggere il nuovo romanzo di Yannick Haenel è come entrare in un affresco di Chagall, pieno di cieli, colori e donne eteree, un universo un po’ delirante, tenero e mistico. Addirittura religioso. Il personaggio principale, l’ufficiale Bataille, è a metà strada tra lo starec Zosima dei Fratelli Karamazov e il principe Myškin dell’Idiota, diverso da tutti gli altri, guidato dalla fede, che dedica la vita al bene. Il paradosso è che è un banchiere. Durante uno stage presso la Banque de France, sente tutti i sintomi di una vocazione – la chiamata, il fuoco, l’estasi – e, rendendosi conto che il denaro ha preso il posto di Dio, decide di abbandonare gli studi di filosofia per quelli di economia. L’economia si può sciogliere nella metafisica? È ciò che il tesoriere, folle e saggio allo stesso tempo, si propone di dimostrare. E lo fa smantellando l’energia alla base del sistema che invita a sperperare denaro. La critica al capitalismo prende spunto dai testi fondanti di Marx, Proudhon, Adam Smith e William Morris, ma trasfigurati dalla poesia. Bataille è l’agente di una resistenza interna al sistema che vuole ripensare l’umanità sulla base di una metafisica negativa della merce, nella quale possedere significa perdere. Volendo, il libro può essere letto come una versione romanzesca del pensiero di Georges Bataille. Ma la macchina narrativa funziona così bene che non importa se il lettore non se ne accorge. In virtù della sua stessa economia, il romanzo si arricchisce senza perdere nulla.
Tiphaine Samoyault, Le Monde
Il terzo romanzo di Nina Wähä ruota intorno ai legami familiari. Racconta di un gruppo di dodici fratelli (o quattordici, a seconda di come si conta) più i genitori. Le grandi e dolorose questioni dell’eredità, del senso di colpa e della comunità sono affrontate attraverso una famiglia povera di agricoltori nella Finlandia degli anni ottanta. Il tema è classico, l’ambientazione se non nuova è tristemente insolita, ma il modo in cui Wähä ne scrive è fenomenale. Non è facile rendere vivi quattordici personaggi, soprattutto non questi, che sono tutt’altro che simpatici. Chi vorrebbe leggere quattrocento pagine su un padre cattivo, una madre logorroica che fa finta di niente, su dei ragazzi che scompaiono nel bosco per tormentare gli animali? Eppure Il testamento è un puro piacere. Siamo coinvolti nella storia con l’aspettativa che avvenga un omicidio, ma in breve tempo ce ne dimentichiamo, tanto siamo presi da altre cose. Ogni membro della famiglia diventa protagonista per un momento, ed è così convincente che ci dimentichiamo degli altri. Nina Wähä ricorda che ogni essere umano porta dentro di sé un piccolo universo, qualcosa di così grande e profondo che non potrai mai capire davvero.
Valerie Kyeyune Backström, Expressen
È un incontro tra un venezuelano e il suo paese. Tra un uomo e una donna. Tra un analfabeta e la parola scritta. Tra un uomo e un mito. Tra un popolo e la sua storia. In Il meraviglioso viaggio di Octavio, un romanzo d’esordio dallo stile elegante e poetico, Miguel Bonnefoy – lui stesso cittadino venezuelano, anche se vive a Parigi e scrive in francese – orchestra una storia luminosa che è allo stesso tempo semplice e complessa, e che risuona con la ricca tradizione letteraria dell’America Latina. Octavio è un contadino solitario con una vita modesta. Per sfuggire alla vergogna di non saper né leggere né scrivere, nasconde la sua disabilità sotto una benda, fingendo di avere una mano ferita. Fino al giorno in cui incontra Venezuela, un’attrice dell’alta società. Lei sa bene che lui appartiene a un mondo diverso dal suo, ma si diverte a condividere la sua compagnia. È stata lei a fargli conoscere la parola scritta. Un giorno, però, sotto gli ordini di Guerra, il capo di una confraternita di scassinatori per cui lavora, Octavio si ritrova nella casa della sua amata, che deve svaligiare. Finisce per fuggire. Per Octavio comincia il grande viaggio. Dopo l’inaspettata introduzione all’amore e alla parola scritta, parte inconsapevolmente alla scoperta del suo paese, della maestosa bellezza dei suoi paesaggi, della sua gente e della sua storia. C’è qualcosa di epico, lussureggiante, meraviglioso e onirico.
Geneviève Simon, La Libre
Non capita spesso di trovare bei romanzi su persone comuni che vivono una vita tranquilla. Nessuna scoperta sconvolgente, nessuna crisi, nessun confronto con un passato oscuro. Il debutto dell’irlandese Rónán Hession è una calorosa celebrazione di ciò che è prezioso nella vita di tutti i giorni, “storie di persone trascurate che hanno semplicemente vissuto la loro vita come meglio potevano”. I protagonisti sono due single di trent’anni: Leonard, che scrive enciclopedie per bambini, desidera entrare in contatto con qualcuno in grado di condividere lo stupore che prova per la bellezza dell’universo; Hungry Paul, che è un uomo chiuso in se stesso: premuroso, affezionato alla famiglia, perfettamente soddisfatto dell’“ordine innato delle cose”. Il ritmo lento si affievolisce ulteriormente quando si passa alle sottotrame, che coinvolgono parenti ancora meno degni di nota. È il problema del libro: per un autore, anche bravo come Hession, è difficile rendere entusiasmante una discussione dettagliata su chi ordinerà il menù fisso e chi sceglierà quello alla carta. Eppure il libro è reso interessante dallo stile di Hession, che si muove con leggerezza nella gamma delle emozioni come un arpista che pizzica le corde.
Carrie O’Grady, The Guardian
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