La ecoparabola enigmatica e mistica di Ryūsuke Hamaguchi sfugge alle facili spiegazioni, ma forse anche a quelle difficili. È un dramma complesso, realistico che tende al limite dell’inspiegabile. Anche il titolo sembra indicare che in ogni nostro giudizio si celano infinite sfumature. A prima vista sembrerebbe un classico film di denuncia del capitalismo che saccheggia l’ambiente: Takumi vive con la figlia Hana in un villaggio bellissimo e incontaminato, non lontano da To-kyo. Si guadagna da vivere tagliando legna e prendendo a una fonte acqua limpida che poi fornisce a un ristorante, che la ritiene un ingrediente fondamentale per i suoi noodles. È chiaro che questo paradiso non può durare a lungo. La crisi scoppia quando Takumi e i suoi vicini scoprono che un’azienda di Tokyo ha comprato dei terreni nei pressi del villaggio per trasformarli in un camping di lusso. In un’assemblea cittadina organizzata dall’azienda si scopre che le fognature della nuova struttura avveleneranno l’acqua. Ma poi la direzione narrativa scelta da Hamaguchi diventa poco chiara. I funzionari mandati dall’azienda al villaggio meritano la simpatia degli spettatori, mentre l’atteggiamento di Takumi diventa ambiguo. Hamaguchi affronta tutto questo con un ritmo lentissimo e a volte indugia sul cielo o sulla foresta. Perché? Qual è lo scopo di queste stranezze compositive? Qual è il punto della storia? Il regista non sembra interessato a dare spiegazioni. Il suo film è più simile a un poema. Forse non è il migliore dei suoi lavori ma è portato avanti con una tale sicurezza e abilità artistica che è impossibile non andargli, malinconicamente e incomprensibilmente, dietro.
Peter Bradshaw, The Guardian
Giappone 2023, 106’.
Francia 2023, 96’. In sala
Il cinquantesimo lungometraggio dell’infaticabile Woody Allen è stato girato integralmente (in francese) in Francia, paese che funge da terra d’asilo per registi con un passato problematico. In questo film parigino il regista newyorchese torna al filone della metà degli anni duemila (Match point, Scoop), trapiantandone gli elementi in una rive droite che Allen immagina come un nido di miliardari e poeti.
Fanny, moglie del ricchissimo Jean, comincia a tradirlo con Alain. All’inizio tutto sembra ultra-artificiale, un succo dei luoghi comuni più abusati. Almeno finché non compare Valérie Lemercier nei panni dell’astuto grillo parlante (in qualche modo un alterego di Allen). Il tutto prende definitivamente corpo quando Jean si rivela una specie di psicopatico (e Melvil Poupaud eccelle in questo genere di ruoli). Una canzone che conosciamo, che però funziona e continua a funzionare anche a forza di ripetersi. Qual è l’ossessione di questo regista per gli uomini che non sono quello che dicono di essere e che nascondono i segreti più oscuri sotto una maschera di affabilità?
Laura Tuillier, Libération
Giappone 2023, 125’. In sala
Nei suoi quasi settant’anni di storia, Godzilla è stato tante cose. Il film di Takashi Yamazaki ha nostalgia per i tempi andati in cui il mostro era una semplice forza distruttrice. Torna anche all’ambientazione classica delle sue origini nel dopoguerra in un Giappone sconvolto dall’atomica. Koichi (Ryunosuke Kamiki) è un kamikaze che ha eluso i suoi ordini, riparando su un’isola dove (cadendo dalla padella alla brace) assiste alla prima apparizione del mostro. Dopo la carneficina iniziale, il regista adotta una narrazione quasi ellittica. Koichi torna a casa, a Tokyo, dove costruisce accidentalmente una famiglia con una senzatetto e un orfano. Insieme cercano di sopravvivere alla devastazione che Godzilla scatena sulla città ancora segnata dal conflitto. I tentativi satirici sono banali, ma Yamazaki sfruttando al massimo la sua esperienza nell’animazione prova a rilanciare la saga del mostro in un modo molto umanista e nostalgico. È notevole anche l’uso degli effetti visivi, che hanno lo scopo preciso di creare un’atmosfera particolare.
Kambole Campbell, Empire
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