Quasi tutte le giurie letterarie hanno notato La regina del silenzio di Marie Nimier che alla fine ha vinto il Prix Médicis, un premio assegnato ad autori debuttanti o dal talento non ancora riconosciuto. Non è propriamente un romanzo? Non importa perché il libro è bellissimo. Forse è il miglior lavoro di Nimier, come se la sua immaginazione letteraria eccellesse nel confrontarsi con la realtà, anche quella incerta dei suoi ricordi. “Mio padre è morto un venerdì sera, aveva 36 anni”. Marie Nimier, nata nel 1957, aveva cinque anni. Su quella Aston Martin, al fianco di Roger Nimier, famoso scrittore, c’è la giovane scrittrice Sunsiaré de Larcône, la sua nuova compagna. Quando morì, Roger Nimier aveva già lasciato il tetto coniugale, la favola era finita. Non aveva grandi slanci paterni, tranne che con il figliastro, il maggiore di tre fratelli. “Né realmente presente quando era presente né realmente assente quando ci ha lasciato”. L’indagine di Marie Nimier ricostruisce i contorni di un eroe spettrale. Gli eroi sono amati e Roger Nimier, che ha generato “figli tristi” nella vita come nella letteratura, ha degli amici che mantengono il ricordo di un essere luminoso. Ma Roger è un padre degli anni cinquanta: non gioca. La regina del silenzio (dal nomignolo che il padre avveva dato a Marie) rientra nel filone delle autobiografie filiali. Ma non tutti sono figli di Roger Nimier: “Piango il suo silenzio come non ho mai pianto la sua scomparsa”.
Claire Devarrieux, Libération
Prima di leggere Fantasmi di New York pensavo che dire “La città stessa è un personaggio del romanzo” fosse un luogo comune. Questa ammaliante raccolta di episodi vagamente legati tra loro mette in discussione tutti i cliché sullo scrivere di una città. La metropoli pulsante di Fantasmi di New York è così straripante da rendere impensabile che i suoi abitanti possano avere la minima possibilità di essere felici, o anche solo soddisfatti. Eppure sono lì che continuano a provarci. Incontriamo un mercante d’arte indigena che perde attività e reputazione per amore di una donna; il figlio di una ricca famiglia dell’Africa occidentale, formato alla Columbia university, perseguitato dalle ombre del passato; un ragazzo di strada dell’East Village con una voce così pura da sembrare già destinato alla fama; un fotografo che torna in città dopo un decennio all’estero e affronta il ricordo del suo migliore amico. Quando queste vite e altre cominciano sottilmente a intrecciarsidalla cacofonia urbana emerge una sorta di senso etico: nel nostro mondo di disconnessione, solitudine e desiderio siamo sempre tutti interconnessi. Perché ci tiene insieme la grande città, che dà e toglie e che alla fine sopravviverà a tutti quanti noi. Le frasi di Lewis sono eventi e il suo occhio per il dettaglio più minuscolo è sopraffino. Allo stesso tempo ammanta la sua New York di un impercettibile strato di sotterfugio. Ed è esattamente così che si vive a New York.
David Goodwillie, The New York Times
L’ambientazione (Glasgow) e l’argomento (il sesso) sono quelli di sempre ma Povere creature! è il primo romanzo storico di Alasdair Gray. Le attività di ospedali, bordelli e tribunali del 1880 sono accuratamente ricostruite come sfondo di avvenimenti che nella realtà non sarebbero mai potuti accadere. Al centro del libro c’è un testo intitolato Episodi dalla giovinezza di un ufficiale sanitario scozzese stampato a proprie spese nel 1909 da un tale Archibald McCandless. Racconta l’amicizia di uno studente di medicina con il solitario Godwin Baxter, mezzo Frankenstein e mezzo Elephant man, che ha creato una Venere-bambina di 26 anni trapiantando il cervello del feto nella testa della madre che si era uccisa. Questa è Bella, la donna che McCandless sposerà però solo dopo una lunga “luna di miele” con un noto donnaiolo, per il massimo scorno del suo promesso sposo. Ma questo finto memoir è solo una parte di un complicato marchingegno narrativo. L’introduzione di Gray è una piacevole descrizione di come il memoir sia stato ritrovato. Ci sono 40 pagine di “note storiche e critiche” giocosamente pedanti che obbligano cinquant’anni di cultura britannica a inchinarsi all’inventiva di Alasdair Gray con, tra le altre cose, poesie di Tennyson (vere) e di Kipling (false). La parte più apertamente parodistica ma anche più fresca del romanzo è la narrazione di McCandless, un necrofilo mix di malinconia scozzese, melodramma manipolatorio e fanta-medicina. Il tentativo di Gray di essere sempre malizioso alla lunga può stancare ma il lettore è premiato da una scrittura visionaria, ornata e meravigliosamente oltraggiosa.
Mick Imlah, The Independent
Nel secondo thriller dell’autore australiano Benjamin Stevenson, l’amichevole narratore è Ernest Cunningham, uno scrittore di gialli. Ernest e la sua ragazza sono su un treno che ospita un festival di letteratura poliziesca. Il viaggio dura diversi giorni e attraversa il centro dell’Australia, da Darwin ad Adelaide, e i vagoni sono popolati di autori e gente dell’editoria. Tra gli ospiti di maggior riguardo ci sono un leggendario e schivo scrittore di thriller scozzese, un autore di gialli psicologici e una scrittrice di thriller legali che sta tentando un rilancio dopo vent’anni di inattività. C’è anche un romanziere “vero” che trova tutto molto dozzinale. A un certo punto qualcuno muore in modo spettacolare e le cose per Ernest cominciano a deragliare. The Au Review
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