In Schiavi di New York (romanzo uscito originariamente nel 1986) tutti sono pittori, performance artist, disegnatori di gioielli o truccatori. Sicuramente c’è almeno una scrittrice che si nasconde da qualche parte, ma siamo in una cultura più visiva che verbale, come appunto rivela il gergo piuttosto povero che si parla da queste parti. Schiavi di New York disseziona una classe di esteti materialisti, pittori in carriera o galleristi senza scrupoli la cui idea di tradizione si spinge al massimo ai cartoni animati di Hanna-Barbera e che seguono modelli più nuovi dei nuovi ricchi. Il più antipatico tra questi esteti è Marley Mantello, narratore di cinque racconti. Marley si considera un genio e usa il suo grottesco egotismo per rendere la vita impossibile a chi gli sta intorno. Tama Janowitz gli dà abbastanza corda da permettergli di impiccarsi da solo. Marley si sente sempre sul punto di “essere scoperto” e c’è qualcosa di accattivante nella sua garrula fiducia in se stesso. Sebbene i protagonisti delle storie di Tama Janowitz cambino spesso fidanzati o mezzi d’espressione, e si aspettino sempre di essere scoperti, non vivono mai momenti di autentica catarsi o epifanie. Leggendo molte di queste storie non posso non immaginare l’autrice che osserva tutti con gli occhiali da sole e a distanza di sicurezza. Alcuni lettori forse avrebbero preferito che Janowitz incalzasse i suoi personaggi con più convinzione, avvicinandoci di più ai loro segreti e ai loro sogni. Altri le saranno grati per l’acuto senso di osservazione e l’inventiva un po’ distorta, entrambi doni di un talento singolare.
Jay McInerney, The New York Times
Isadora si era ripromessa di morire nella casa in cui era nata. Per lealtà verso chi ci viveva. Senza dubbio anche per giustificare tanto al mondo quanto a se stessa la decisione di vivere lì da sola per molti decenni. Nella casa di riposo dove si è rassegnata a trasferirsi, l’anziana donna non sa se la sua decisione sia un tradimento o un segno di pacificazione. Colei che riteneva che “il passato fosse l’unica cosa per cui valesse la pena vivere” immagina, alla fine della sua vita, un futuro più sereno. In questo primo romanzo dalla scrittura densa e sinestetica, lo sguardo di Perrine Tripier sullo scorrere del tempo dimostra una notevole profondità di campo. A 24 anni, la giovane scrittrice si afferma, con Le guerre preziose, come una penna delicatamente malinconica e di sicuro
talento.
Florence Bouchy, Le Monde
Ho qualche domanda da farti è allo stesso tempo un romanzo di ambientazione universitaria, una pungente riflessione etica sul fascino del true crime e una storia che fa i conti con il MeToo. Ed è anche uno dei romanzi più avvincenti che abbia letto negli ultimi anni. La lingua letteraria di Makkai è un misto d’intelligenza, capriccio e saggezza. La narratrice, Bodie Kane, ha un tono arguto ed effervescente sempre però accompagnato alla comprensione per la fragilità umana e l’onnipresente minaccia della perdita. Bodie ha quarant’anni, due figli e vive in California. È uscita da una storia di traumi e povertà per diventare “una docente universitaria saltuaria con un podcast molto apprezzato”. Il titolo del suo podcast è Starlet fever e parla di “come Hollywood ha masticato e sputato le donne”. Nel passato scolastico della protagionista c’è un terribile delitto, la morte della sua compagna di stanza Thalia Keith, per la quale viene condannato un allenatore nero di nome Omar Evans. Questa vecchia storia di cronaca nera viene riesumata da una trasmissione televisiva e da una serie di investigatori del web su Reddit e YouTube. Sensi di colpa, responsabilità e complicità cominciano ad assillare le giornate di Bodie. In più il suo ormai ex marito e padre dei suoi figli viene “cancellato” da internet a causa di una vecchia storia con una ragazza giovanissima che era stata da lui circuita. Capire cosa sia successo a Thalia diventa un’ossessione per Bodie e tutti, ex compagni di scuola, amici, ex insegnanti possono essere sospettati. La scrittura di Makkai è densa e precisa e centra alla perfezione tutti i riferimenti agli anni novanta. Ma soprattutto affronta di petto quesiti spinosi sui mezzi di comunicazione, la legge, le questioni di genere e quelle razziali.
Priscilla Gilman, The Boston Globe
Il mio gatto Jugoslavia è il primo romanzo di Pajtim Statovci, nato in Kosovo e fuggito a due anni con la famiglia in Finlandia nel 1992. Il libro parla di esilio raccontando due storie parallele. I protagonisti sono una ragazza musulmana di nome Emin, sposata con Bajram, un uomo che credeva di amare ma che poi si rivela violento. Come i genitori di Statovci anche loro fuggono dal Kosovo in Finlandia e la storia la racconta il loro unico figlio, Bekim. Una sera, in un locale gay, Bekim conosce un gatto parlante antropomorfo di nome Jugoslavia e ne rimane affascinato nonostante sia come suo padre: omofobo, xenofobo, egoista e violento. Ma proprio come sua madre Bekim lo nutre e lo accudisce. Il romanzo all’inizio è caldo e vivace, ma poi si indurisce fino a diventare glaciale nel momento in cui Bekim e sua madre arrivano, separatamente, a un punto di rottura. Quando pensiamo di esserci lasciati un mondo alle spalle ci accorgiamo invece che stiamo ancora camminando lungo i suoi margini.
Gabrielle Bellot, The New Yorker
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