Dopo il viaggio negli anni settanta con Daddy’s home, era inevitabile che Annie Clark sentisse di nuovo l’attrazione di sintetizzatori, chitarre sporche e modernixtà. Clark ha realizzato un disco più difficile del precedente, interamente autoprodotto e ispirato a un non meglio specificato trauma personale. Il folk rock britannico di Hell is near, in cui l’artista assume toni vocali in debito con Beth Gibbons, è un’apertura fuorviante. Nel secondo brano, Reckless, l’oscurità comincia a chiudersi, in una rappresentazione impressionistica del lutto. In Broken man, con le sue pulsazioni di sintetizzatori e la batteria sincopata di Dave Grohl, assume il ruolo di un macho che in realtà non è quello che sembra. Stilisticamente All born screaming oscilla follemente tra dream pop, prog, grunge, elettronica e industrial, creando un ascolto elettrizzante. La seconda parte del disco cerca la bellezza nel caos e nella tragedia. Sweetest fruit è un tributo all’artista elettropop scozzese SOPHIE, morta cadendo da un tetto ad Atene nel 2021 mentre cercava di fotografare la luna piena. Il supporto artistico viene dal bassista Justin Meldal-Johnsen (Beck, Nine Inch Nails) e da Cate Le Bon, che conferisce il suo tocco a una manciata di brani e guadagna un cameo vocale nella title track di quasi sette minuti, in cui lei e Clark sovrappongono una coda operistica a un ritmo da rave. Il finale dimostra ulteriormente che Clark ha un talento brillante e poliedrico.
Tom Doyle, Mojo
Non succede spesso di ringraziare dio per l’esistenza di Twitter (non lo chiamerò mai in altri modi), perché a volte ci trovi tesori nascosti, come Diamond jubilee, disponibile solo su YouTube oppure su un sito antiquato. È una strategia promozionale? Oppure no? L’autore è Cindy Lee, il progetto in drag del musicista canadese Patrick Flegel, che l’ha composto e suonato tutto da solo. Il disco è un mix di stili e atmosfere. È come se fossero stati ritrovati dei vecchi nastri. Sicuramente c’è l’influenza dei primi girl group e i testi, che parlano di desideri e delusioni, sono cantati su armonie semplici e tormentate. Diamond jubilee è impregnato da riverberi simili a quelli di certi album degli anni sessanta. In due ore e una trentina di brevi canzoni, l’atmosfera sognante non s’interrompe mai. Se lo si toglie da questo suo mondo interiore non resta nulla, perché è questa la sua forza e la sua bellezza. Sono canzoni suonate a un ballo nelle profondità marine, dove la palla da discoteca gira in una sala quasi vuota.
Matt Hanson, The Arts Fuse
In venti cd questo cofanetto offre un ottimo panorama dell’universalità e della ricchezza dell’arte di Aaron Copland (1900-1990), che merita ben più dell’etichetta di “padre della musica classica statunitense”. Copland rimase tutta la vita avido di conoscenza e d’incontri, e fu anche un formidabile ispiratore per le nuove generazioni. Lo dimostra già il primo disco: ci sono il concerto per clarinetto, eseguito con il suo committente Benny Goodman, che mescola fino allo stordimento jazz e lirismo, il trio per piano e archi Vitebsk, ricco di radici ebraiche e russe, e il quartetto per piano, fusione originalissima di Schönberg e Stravinskij. Gli indimenticabili balletti, come Rodeo, Billy the kid e Appalachian spring, e altri pezzi emblematici, come Lincoln portrait (con Henry Fonda) o Fanfare for the common man, sono il cuore del suo repertorio sinfonico. Ma troviamo anche esempi della visione transfrontaliera dell’America del nord di Copland, dal New England al Messico e ai Caraibi, e pezzi più astratti, come Statements. Opere come la breve The tender land sono testimonianze del suo sforzo costante per una musica al servizio della comunità. Grazie anche a un bellissimo libretto, questo album ci restituisce una personalità generosa e di schiettezza entusiasmante.
Thomas Deschamps, Classica
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