Nel pop degli ultimi anni, dominato dalla triade di Taylor Swift, Beyoncé e Olivia Rodrigo, Dua Lipa è un’eccezione. I suoi testi non ci restituiscono nulla, ha l’immagine pubblica di una modella da Instagram e l’aspetto più notevole della sua vita personale è che le piace viaggiare. Di sicuro è rilassante, ma è anche frustrante che nel 2024 una popstar donna abbia due opzioni: essere una macchina da gossip o un personaggio del videogioco The Sims (versione espansa). In Radical optimism l’artista londinese non va oltre questa dicotomia. Descrive il disco come debitore della cultura rave e della psichedelia, e il coinvolgimento di Kevin Parker dei Tame Impala fa pensare che le sue intenzioni fossero serie, però purtroppo queste influenze non vengono fuori. Certo, Houdini è irresistibile, ma già Whatcha doing sembra la replica di Dance the night, scritta per il film Barbie. Falling forever vorrebbe essere dance d’avanguardia ma fallisce, con una batteria rubata da Running up that hill la cui solennità non aiuta. Quando Dua Lipa prova a uscire fuori dallo stampo dance-pop, la sua sicurezza crolla. Nessuno ha bisogno di conoscere i dettagli della sua vita personale per dare peso alle sue canzoni, ma ci dovrebbe essere qualcosa nella performance, nella scrittura o nella produzione che la distanzi dal rumore di fondo. Ha dimostrato di saper essere pop, ma la star ancora non c’è.
Claire Biddles, The Line of Best Fit
Con il suo ampio seguito, si potrebbe pensare che il sassofonista, bandleader e compositore statunitense Kamasi Washington abbia pubblicato tantissimi dischi registrati in studio, ma non è così. Fearless movement è il suo primo lavoro in sei anni. Finora abbiamo imparato alcune cose su di lui: è ambizioso, quindi anche stavolta ci troviamo di fronte a un doppio album; è fedele ai suoi compagni di band; sceglie sempre ospiti di alto profilo provenienti dal mondo del rap, dell’rnb e del jazz, da Andre 3000 a George Clinton. Washington ha definito Fearless movement il suo “album dance”, ma non deve essere preso alla lettera: è il solito miscuglio di generi, ma stavolta è più ancorato a terra che rivolto verso il cosmo. Si apre con una preghiera etiope, Lesanu, dedicata a un amico scomparso, uno dei pochi brani senza ospiti del primo disco che evoca inevitabilmente gli album spirituali di John Coltrane. Fearless movement ha due anime. Il primo disco mescola i generi, mentre il secondo è dominato dal jazz appassionato. I momenti per il ballo, invece, arrivano raramente.
Glide Magazine
Nato in Romania e morto a Parigi, George Enescu (1881-1955) era violinista tra i massimi del suo tempo, pianista, direttore d’orchestra e pedagogo. È stato anche un compositore prolifico, di cui oggi capita di sentire soprattutto i capolavori assoluti come l’opera Œdipe, la sonata per violino e piano n. 3 e le due rapsodie romene, che hanno avuto un ruolo fondamentale per la sua reputazione. Non capita spesso invece d’incontrare le sue tre sinfonie, composte tra il 1905 e il 1918. Malgrado la forma e la sintassi convenzionali, Enescu dà a questi lavori un tono da poema sinfonico, del quale in un primo momento è difficile cogliere la coerenza. Emerge l’influenza della musica tedesca (Brahms, Richard Strauss) e francese (Franck, Roussel, Debussy, Ravel), ma anche a tratti quella di Dvořák, Mahler, Čajkovskij, Liszt o Skrjabin. Il genio di Enescu fonde queste eco stilistiche in un’alchimia alimentata da generosità espressiva e intensità lirica, con una poesia epica o introversa. E ogni nuovo ascolto ne conferma l’autenticità. In questo album Cristian Măcelaru rende omaggio al suo compatriota insieme all’Orchestre national de France, svettando sulla sua concorrenza discografica delle altre integrali sinfoniche del maestro romeno.
Gérard Belvire, Classica
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