Gli archi di pietra si snodano solennemente sopra le loro stesse ombre. Alcuni sembrano in bilico sull’erba, altri ci sprofondano dentro. È un’assolata mattina di gennaio e sono nel parco degli Acquedotti, a venti minuti di metropolitana dal centro di Roma. Qui ci sono ancora le arcate di sei degli undici acquedotti che un tempo rifornivano la città eterna con un volume d’acqua sorprendente: secondo alcuni, il doppio della quantità pro capite distribuita in una tipica città statunitense del ventunesimo secolo.
Il mio obiettivo è ripercorrere il tracciato di uno di questi acquedotti: quello dell’Aqua Marcia, costruito tra il 144 e il 140 aC da Quinto Marcio Re, antenato di Giulio Cesare. L’acqua che trasportava era salutata da Plinio il Vecchio come “la più famosa del mondo per la sua freschezza e salubrità”. L’acquedotto era il più lungo della capitale, 91 chilometri dalla sorgente alla città, di cui solo dieci all’aperto.
Ho sempre pensato che gli acquedotti di Roma fossero una sorta di impianto idraulico aereo, con l’acqua incanalata sopra gli archi. Ma questo acquedotto, come quelli di oggi, scorreva in gran parte sottoterra. L’acqua era spinta dalla forza di gravità e archi e ponti, costosi e vulnerabili agli attacchi, erano usati solo per oltrepassare burroni, valli e avvallamenti del terreno che ne avrebbero interrotto il flusso.
Le antiche condotte sono ormai asciutte, ma la stessa acqua alimenta ancora alcune sorgenti montane a est della capitale. E nonostante ora viaggi attraverso una moderna rete di tunnel e di tubi, porta ancora il suo nome antico ed è considerata la migliore acqua potabile di Roma. Nel parco degli Acquedotti, che si estende su circa 240 ettari, ci sono pochi cartelli, mappe o altre indicazioni. I romani qui fanno jogging o portano a spasso i cani. I pochi turisti vagano attraverso un paesaggio bucolico che sullo sfondo ha le imponenti rovine. Il parco è apparso in film italiani famosi, come La dolce vita e La grande bellezza.
Michele Alfonsi, che dirige il Pons Iani, un gruppo di volontari italiani e spagnoli che si occupa di valorizzare il patrimonio culturale, storico e artistico della provincia di Roma e di quella di Cordova, in Spagna, si offre di accompagnarmi. “Vede quello?”, mi chiede indicando un canale di pietra in cima agli archi. “È lo specus dell’Aqua marcia”.
Specus è il termine latino che indica un canale coperto costruito con una leggera pendenza verso il basso, in modo che l’acqua possa attraversarlo senza fermarsi. Questo è alto abbastanza da permettere a una persona di stare in piedi al suo interno. Ci arrampichiamo sulla chiave di volta dell’arco, ad alcuni metri dal suolo. Quando fu completato, nel periodo d’oro della repubblica, l’acquedotto fu il primo a portare l’acqua fino al Campidoglio, il colle più sacro di Roma.
La casetta rossa
Su una piccola fontana è incisa la scritta “Acqua Marcia”, ma come nei moderni rubinetti di Roma, da lì esce una miscela d’acqua che arriva da cinque fonti diverse. Per assaggiare la vera acqua Marcia bisogna andare alla sua fonte.
Sesto Giulio Frontino, commissario per gli acquedotti del primo secolo dC, scrisse che la fonte di questo acquedotto si trovava vicino alla 36a pietra miliare dell’antica via Valeria (a circa 56 chilometri a est di Roma). Ma sapevo che i canali originali erano stati chiusi nel 1870, quando l’acquedotto, da tempo inutilizzato, tornò a nuova vita con il nome di Acqua pia antica marcia.
“Per arrivarci”, mi dice Peter J. Aicher, autore della Guide to the aqueducts of ancient Rome, “cerca ‘centro casetta rossa idrico’ su Google Maps”.
Trovo la “casetta”, una piccola costruzione in stucco rosso usata dai manutentori del moderno acquedotto, ai margini di un prato verde. A parte l’iscrizione “Acqua Pia Antica Marcia 1870” scolpita sopra la porta d’ingresso e le strutture a forma di capannone lungo la strada, non c’è alcuna indicazione che la migliore acqua potabile di Roma avesse origine qui. Ho ammirato le colline arrotondate, l’azzurro con la foschia in lontananza e i cipressi che proiettavano le loro ombre su una strada poco trafficata. “Dov’è l’acqua?”, ho chiesto a un addetto alla manutenzione. Ha puntato il dito verso il basso: le sorgenti sotterranee che Quinto Marcio Re incanalò per la prima volta più di duemila anni fa sgorgano ancora sotto questo luogo bucolico.
L’unico modo per scandagliare le profondità dell’acquedotto era andarci con uno speleologo. E così, pochi giorni dopo, mi sono ritrovato aggrappato alla radice di un albero sul lato di un burrone che scendeva verso il fiume Aniene, a est di Roma. “Metta il piede destro lì”, mi ha consigliato Alfonso Diaz Boj. “Ancora due passi e saremo allo specus dell’acquedotto Aqua Marcia”.
Diaz Boj, una guida dell’associazione Sotterranei di Roma, che offre tour per la città, ha organizzato una visita negli antichi canali dell’acquedotto ormai asciutti, sepolti vicino alla città di Vicovaro, tredici chilometri a ovest della sorgente. Dodici di noi si sono incontrati al convento di San Cosimato, dove ci sono i resti di parte dell’acquedotto, per indossare elmetti di protezione con lampade frontali.
Ci pieghiamo nello specus alto fino alle nostre spalle usando gli appigli per le mani e i piedi, e a quel punto Diaz Boj indica un fascio di luce che scende obliquo da un pozzo: “Due squadre di operai hanno scavato questi pozzi e quando hanno raggiunto la profondità giusta hanno continuato di lato per unirli”.
Passiamo accanto a pipistrelli aggrappati ai muri e alcuni aculei attestano la presenza di porcospini. Nel corso dei secoli, l’acqua Marcia aveva lasciato segni multicolori e strisce di calcio sul cemento che i romani usavano per sigillare gli specus. Diaz Boj ci indica i graffiti incisi sul cemento: croci misteriose, scarabocchi e la firma forse falsa di Thomas Ashby, l’archeologo britannico autore del libro Gli acquedotti dell’antica Roma (Quasar 1991), scritto nel 1935.
Dopo un pranzo al convento a base di lasagne, saltimbocca alla romana e patate arrosto, bevo da un rubinetto in giardino. Solo più tardi scopro che Vicovaro si trova nella zona che riceve l’acqua incontaminata dell’acquedotto Marcio. È deliziosa e fresca, anche se non posso dire di notare molta differenza rispetto all’acqua miscelata del centro di Roma.
Siamo passati accanto a pipistrelli aggrappati ai muri e ad aculei di porcospini
L’acquedotto affiora più volte tra archi e ponti tra Vicovaro e il parco degli Acquedotti, in modo più spettacolare sul ponte Lupo, sedici chilometri a sud di Tivoli. Questo grande ponte, che attraversa una profonda gola, appartiene alla famiglia Barberini dal 1633, quando papa Urbano VIII acquistò la tenuta circostante. Occasionalmente vengono proposte delle visite guidate, soprattutto durante le sagre che si tengono qui in estate. Per mia fortuna un amico romano ha organizzato una visita privata.
L’attuale proprietario del ponte Lupo, l’attore e attivista Urbano Barberini, ci aspetta sulla strada sterrata di accesso. Barberini ci racconta le recenti vicissitudini del luogo: quando dopo una lunga battaglia legale ha riottenuto il diritto alla proprietà, il campo e il ruscello intorno al ponte erano sepolti nella spazzatura e frequentati da prostitute.
Avevo visto le immagini di ponte Lupo, ma nulla mi aveva preparato alla sua grandezza e complessità. Gli originali archi di tufo trasportavano l’acqua Marcia, oltrepassando un ripido burrone. “È un’arrampicata difficile”, ha detto Barberini guardando la cima scoscesa e densamente ricoperta di vegetazione sopra un torrente asciutto. “Le piacerebbe provarci?”.
Vedendo i lati accidentati del burrone, rispondo: “Forse no.”
“Bene”, dice il principe sorridendo. E torniamo sulla strada.
L’acqua entrava a Roma attraverso gli archi di porta Maggiore, che era stata scelta come punto di ingresso per otto degli antichi acquedotti, vista l’elevazione del colle Esquilino. A prima vista questo trafficato incrocio vicino alla stazione Termini mi sembra piuttosto desolato, ma poi gli do un’occhiata più da vicino: gli archi dell’acquedotto convergono o si irradiano da ogni direzione. Lo specus dell’acquedotto Marcio è incastrato sopra un grosso pilone di tufo.
Se si esclude il traffico, non c’è posto migliore per assaporare ciò che uno storico ha definito il “talento romano per l’ingegneria su scala monumentale”.
Ci vuole mezz’ora a piedi per ripercorrere il tracciato dell’acquedotto attraverso l’antica Roma. Da porta Maggiore seguiva le mura Aureliane fino all’elegante arco augusteo di porta Tiburtina. Da lì deviava sull’attuale via Marsala prima di sfociare in un bacino di distribuzione ora sepolto sotto la stazione ferroviaria.
Piedi a mollo
Quando l’acquedotto rinacque come Acqua Pia Antica Marcia, nel 1870, in quella che oggi è piazza della Repubblica (a cinque minuti a piedi dalla stazione Termini) fu costruita la fontana delle Naiadi per mostrare la sua purezza.
Alcuni dei monumenti più amati della Roma barocca sono fontane che celebravano gli acquedotti recentemente restaurati e che ancora una volta portavano acqua dalle sorgenti a Roma. La fontana di Trevi è la mostra terminale dell’acquedotto Vergine, l’unico che funziona ininterrottamente fin dall’antichità.
Ma la fontana delle Naiadi è diversa. Contrariamente agli altri acquedotti antichi che sfruttavano la gravità, la sua acqua scorreva grazie alla pressione creata da pompe meccaniche, che permettevano ai getti di raggiungere un’altezza di più di due metri.
Katherine Rinne, l’autrice di Walking Rome’s waters, di prossima uscita negli Stati Uniti, afferma: “Se sei abbastanza coraggioso da affrontare il traffico terribile, durante una giornata calda puoi immergerci i piedi”. Basta non bere. Oggi le Naiadi danzano nell’acqua che viene periodicamente drenata per la pulizia e la manutenzione.
Se hai voglia di sorseggiare l’acqua della fonte, devi fare come i romani e mettere la mano sotto uno dei nasoni, le fontanelle sparse in tutta la città. Duemila anni dopo che Plinio elogiò l’acqua Marcia come un dono degli dei, gli acquedotti di Roma portano ancora acqua sorgiva fresca e limpida alla città eterna. ◆ bt
David Laskin è un autore statunitense. Ha pubblicato molti articoli su storia, cultura, arte e architettura di Roma.
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Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati