Alla fine di gennaio Lonnie Holley doveva esibirsi a Tulsa in occasione del cinquantesimo anniversario dell’album Blood on the tracks di Bob Dylan insieme ad altri musicisti come Elvis Costello e Lucinda Williams. Holley, venerato artista di 75 anni le cui opere sono state esposte al Metropolitan museum of art di New York e alla National gallery of art di Washington, canta e suona le tastiere da tutta la vita, ma ha cominciato a pubblicare musica solo nel 2012. All’inizio non voleva andare a Tulsa. “Era terrorizzato”, racconta il suo manager, Matt Arnett. “Non aveva mai cantato una cover. Non ha mai eseguito le sue canzoni due volte nello stesso modo”.

L’approccio di Holley alla musica è al tempo stesso estremo e molto semplice. Dal vivo o in studio di registrazione improvvisa sempre. Ha pubblicato otto album ipnotici e profondi che hanno superato i confini tra i generi, compreso l’ultimo, Tonky, uscito il 21 marzo. Ha eseguito le canzoni del disco solo una volta, mentre le registrava. Alla fine, convinto da Arnett, Holley ha partecipato al tributo in onore di Dylan, usando i brani del cantautore di Duluth come spunto per le sue improvvisazioni.

“Quando sono sul palco mi perdo nei miei pensieri. Ho un sacco di roba nella testa”, mi racconta Holley ad Atlanta in un pomeriggio d’inizio febbraio.

Il cantante è alto, ha un portamento regale e una voce gentile. Ha i capelli raccolti in trecce e sfoggia diverse collane e occhiali dalla montatura tonda che lo fanno somigliare a un professore distratto. È seduto su un divano del Grocery on Home, un piccolo locale che un tempo era un negozio di alimentari nel quartiere di Grant Park. Inizialmente Arnett aveva acquistato il Grocery per abitarci, ma nel 2010 l’ha restaurato e trasformato in un locale di musica dal vivo. “Questo è il divano su cui ho dormito la prima volta che sono arrivato qui”, racconta l’artista.

Prima di trasferirsi ad Atlanta, nel 2010, Holley viveva in Alabama. Il padre di Arnett, Bill, famoso curatore e collezionista, l’ha scoperto a metà degli anni ottanta e ha lavorato incessantemente per fare in modo che le opere di Holley e quelle di altri artisti neri del sud ricevessero lo stesso riconoscimento di quelle di artisti bianchi. All’epoca Holley era considerato un artista popolare con una biografia che attirava più attenzione delle sue opere.

In effetti i dettagli dell’infanzia di Holley sono impressionanti. Nato in Alabama nel 1950, era il settimo di 27 figli. Da bambino sua madre lo affidò a una ballerina nomade di burlesque, che tre anni dopo lo diede a una donna che gestiva un bar in cambio di una bottiglia di whisky. La donna morì quando Holley aveva sette anni. Suo marito incolpava Holley per la morte della moglie e lo picchiava. Quando il bambino provò a fuggire, fu investito da un’automobile. Per tre mesi rimase in coma in ospedale, dove i medici lo dichiararono cerebralmente morto.

Dopo una ripresa miracolosa, fu affidato di nuovo all’uomo che lo picchiava. Così scappò di nuovo, stavolta salendo a bordo di un treno diretto a New Orleans. A undici anni si ritrovò nella Alabama industrial school for negro children, un campo di lavoro dove le violenze erano all’ordine del giorno e dove Holley passò quattro anni terribili prima di essere affidato al nonno, che gli permise di ricongiungersi con la madre.

È tutto vero

Quando Matt Arnett ha incontrato Holley per la prima volta e ha ascoltato la sua storia, ha pensato che gran parte di quello che diceva fosse inventato. Le vicende di Holley “somigliano a leggende per chiunque non conosca la vera storia dell’America”, dice. Ma nel corso degli anni Arnett ha incontrato i fratelli ancora in vita di Holley e ha fatto altre verifiche. “È tutto vero”, garantisce.

Biografia

1950 Nasce in Alabama, negli Stati Uniti, settimo di 27 figli. A quattro anni viene dato a una donna in cambio di una bottiglia di whisky.
1979 Comincia a realizzare sculture con materiali di recupero.
1981 Espone le sue opere per la prima volta al Birmingham museum of art.
2006 Registra delle canzoni usando solo una tastiera e un microfono.
2012 Pubblica il suo primo album, Just before music.


Comunque Arnett detesta l’attenzione rivolta alla vita di Holley a discapito della sua arte. “È un modo per sminuirlo, insinuando che abbia bisogno di essere salvato”, spiega.

Holley non si fa problemi a parlare del passato. Al Grocery indica alcune opere piazzate sui banconi o appese ai muri di mattoni, associandole ad aneddoti della sua gioventù per spiegarne il significato. I ricordi sono anche una fonte dei testi delle sue canzoni. Seeds, il primo brano di Tonky, è una meditazione di nove minuti che nasce dalle sue esperienze nella Alabama industrial school for negro children. The burden, che contiene un’inebriante melodia di clarinetto su una base ritmica ricca di atmosfera, si domanda se riusciremo mai a lasciarci alle spalle il passato e si conclude con il verso “Ho trasformato il niente in qualcosa”, come se fosse il crescendo di un inno gospel.

Nei racconti come nelle canzoni, le parole di Holley costituiscono un flusso poetico e libero. “Cerco di non trattenere nulla, perché se lo faccio tutto diventa…”, chiude gli occhi per un attimo, poi continua: “Ho provato a cancellare dalla mia testa quasi tutto quello che è successo in Alabama, ma non ci riesco. Devo continuare a combattere quegli incubi”.

Durante la difficile giovinezza di Holley la musica si è profondamente radicata nella sua psiche, offrendogli un balsamo lenitivo. “Cantavo perché sono cresciuto in un bar. Il mio letto si trovava accanto a un jukebox”, racconta. “Ma quando sono stato investito, a sette anni, ho dimenticato tutto. Non ricordo più cosa ascoltavo, so solo che me ne stavo a letto e canticchiavo finché non mi addormentavo”.

Jacknife Lee, produttore di Tonky e dell’album precedente, Oh me, oh my (2023), aveva apprezzato gli eclettici dischi di Holley, ma voleva creare insieme a lui qualcosa di diverso. Nel suo studio di Los Angeles, Lee riproduceva musica pre-registrata per stimolare Holley e gli chiedeva di parlare della sua vita o del mondo. “La sua mente funziona così, va in molte direzioni diverse”, spiega il produttore, che ha lavorato anche con gli U2, i R.E.M. e i Killers. “Io però volevo tenerlo su un unico argomento. Ci è voluto un po’ prima che trovassi il coraggio d’interromperlo nelle sue divagazioni”.

T onky combina elementi jazz, gospel, blues, rock, hip-hop e ambient in un composto oscuro puntellato dai contributi di ammiratori di Holley come Isaac Brock dei Modest Mouse, la cantautrice Jesca Hoop e i rapper Open Mike Eagle e Billy Woods. Angus Fairbairn, che suona con il nome d’arte Alabaster DePlume, ha contribuito con la melodia dolente del sassofono alla salvifica Strength of a song.

Registrare Holley è come catturare un fulmine in una bottiglia. La sua musica è un atto di devozione nei confronti della creazione. Lo stesso si può dire della sua arte. Produce costantemente. Il segreto è capire come gestire quello che crea. “Lonnie non è uno che si alza e si mette a lavorare. Lavora in continuazione, senza sosta. La sua arte e la sua musica sono la sua vita”, dice Fairbairn.

Per Holley la musica e l’arte rappresentano due percorsi diversi per dare un senso al suo incredibile viaggio. “Tutto viene da qui”, spiega appoggiando due dita alla tempia. “Creare era l’unica cosa che potevo fare”. ◆ as

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati