“Chiudi il finestrino!”, mi ha ordinato Rahul, girandosi verso di me. “Sul serio, amico, subito! A meno che tu non debba vomitare: in quel caso puoi aprirlo”. Mentre mi parlava, ha schivato un’autocisterna rovesciata su un fianco, con le ruote che giravano ancora. Abbiamo proseguito lungo la pista tortuosa che s’inoltrava nella foresta attraversando il territorio degli jarawa, un popolo nomade che ancora oggi usa arco e frecce per cacciare. “Niente foto!”, mi ha detto Rahul, gridando per sovrastare il rombo del motore. “Macchina fotografica per terra! Telefono in tasca! Ti avverto: se abbassi il finestrino e li saluti… Prigione! Se gli offri una sigaretta… Prigione! Se chiedi alle donne di ballare nude davanti al tuo obiettivo…”. “Prigione”, ho completato la frase, mentre osservavo il groviglio di vegetazione che sfilava fuori dal finestrino. Rahul sapeva che sono uno scrittore di viaggi e nel corso degli anni aveva accompagnato troppi giornalisti e fotografi lungo la Andaman trunk road per potersi fidare di me.
Stavo viaggiando con un convoglio attraverso l’arcipelago delle Andamane, un gruppo di isole nel golfo del Bengala che fa parte del territorio dell’India. I veicoli erano partiti presto, come fanno ogni mattina, quando centinaia di camionette della polizia, mezzi militari, autobus, carri bestiame e camion si addentrano nella foresta pluviale, lungo l’unica arteria che collega le isole più grandi dell’arcipelago e che taglia il territorio degli jarawa.
Poco dopo ho visto le prime figure accovacciate sul ciglio della strada: donne, uomini e bambini intenti a intagliare lance, che guardavano passare quei cassoni di lamiera su ruote.
“La strada della vergogna”, ha borbottato Rahul. “È sempre la stessa storia: i turisti mi assicurano di ‘voler semplicemente andare a nord, a Kalipur beach’, ma poi, appena entriamo nella giungla, tirano fuori le videocamere e si mettono a filmare la pelle nera”.
Come un dipinto di Dalí
Delle numerose popolazioni indigene delle isole Andamane solo poche sono sopravvissute. Le altre sono state decimate dalle malattie portate dagli stranieri, dalle battaglie contro i colonizzatori e dalle attrattive della cosiddetta civiltà. Gli onge vivono chiusi nelle riserve. Gli ultimi grandi andamanesi sono stati trasferiti con la forza su un isolotto. I sentinelesi difendono il loro territorio scagliando frecce contro gli elicotteri.
Io, però, non ero partito per partecipare a un “safari umano”: ero interessato agli elefanti. Che alle Andamane hanno miracolosamente imparato a nuotare nell’oceano, non millenni fa, ma da circa 75 anni, cioè dopo che l’India ha ottenuto l’indipendenza. A spingermi a visitare l’arcipelago era stata la magia di questa storia vera, che mi aveva talmente affascinato da scriverci un romanzo.
Nelle profondità di internet avevo trovato una foto surreale come un dipinto di Dalí. Era stata scattata sott’acqua, dieci anni prima del mio viaggio nell’arcipelago, e ritraeva un elefante dalla stazza imponente che galleggiava nel mare blu. Ho saputo che era un maschio anziano, si chiamava Rajan ed era stato addestrato per lavorare. Mentre nuotava e sollevava mulinelli di sabbia bianca con le zampe, sembrava giovane e libero.
“Rajan lo conoscono anche i bambini”, mi ha detto Rahul. “Ma è morto. Ti dirò di più: alle Andamane non esistono elefanti selvatici”.
Le isole in cui è nato Rahul sono lontane centinaia di miglia nautiche dalla terraferma. Eppure l’India sembra molto vicina: ci sono foreste fiabesche come nel Madhya Pradesh e mangrovie come nelle Sundarbans. Gli elefanti, però, non fanno parte della fauna dell’arcipelago.
Nessun albero sarebbe mai entrato in contatto con la pelle di un pachiderma se, all’inizio degli anni cinquanta, dal porto di Calcutta non fosse salpato un piroscafo che dopo aver risalito l’Hoogli, l’ultimo tratto del fiume sacro Gange, fece rotta verso l’oceano. L’India era diventata indipendente dall’impero britannico e guardava con attenzione a quelle isole lontane e scarsamente popolate, più vicine a quelle che oggi sono la Birmania e la Thailandia. Considerandole troppo preziose per lasciarle ad altri, il governo indiano stabilì che chiunque fosse andato a vivere in quelle terre sconosciute avrebbe ricevuto una casa e un lavoro. Centinaia di coltivatori, pescatori, boscaioli che in India facevano la fame migrarono a est.
Insieme alle persone, su quel piroscafo c’erano anche degli elefanti. Sotto coperta erano stipati in gabbie di legno molto strette, così da non ruzzolare in caso di mare grosso. Accompagnati dai loro addestratori, i mahut, questi elefanti erano impiegati per prosciugare paludi, spianare sentieri e trasportare l’oro delle Andamane: il legname degli alberi tropicali che, si diceva, in nessun’altra parte del mondo raggiungevano quelle altezze. Dopo aver finito di disboscare una foresta, per spostare gli elefanti da un’isola all’altra, i mahut gli salivano in groppa e gli insegnavano a nuotare, facendogli compiere traversate anche di dieci miglia nautiche.
Ma com’è possibile? Come fa un elefante a trasformarsi in una creatura acquatica? Come si fa ad attraversare il mare sulla sua groppa? Sapevo che non avrei potuto vedere quello spettacolo con i miei occhi, perché Rajan era l’ultimo elefante nuotatore di tutto l’arcipelago. Tuttavia, si diceva che sulle isole vivessero ancora dei pachidermi, e volevo incontrarli. Anche se non sapevano nuotare.
Che fine hanno fatto?
Avevo cominciato la mia ricerca a Port Blair, il capoluogo delle Andamane, dov’ero andato per ingaggiare una guida. Lì, da qualche parte tra le mura tinteggiate di fresco di questa cittadina di 150mila abitanti, ho conosciuto Rahul. “Questa non è l’India dei mendicanti e dei bambini di strada”, mi ha spiegato. “Puoi tranquillamente lasciare la macchina fotografica incustodita e nessuno te la porterà via. Da noi i funzionari pubblici guadagnano così bene che non accettano bustarelle”. Cosa che quasi rimpiangevo, visto che stavo ancora aspettando di essere ricevuto da uno di loro. Ma prima Rahul mi ha portato in un posto che tutti i turisti finiscono per visitare: il carcere, forse la principale attrazione delle Andamane, ma anche la più macabra. La Cellular jail (carcere cellulare, dove in ogni cella è rinchiuso un solo detenuto) è una fortezza costruita intorno a una torre di guardia come una stella di pietra. I visitatori imparano la storia delle frustate e delle botole che si spalancavano di colpo nel cortile, dove penzolano le corde per le impiccagioni. Sotto la dominazione britannica l’arcipelago è stato a lungo un luogo di esilio, una colonia penale in cui furono rinchiusi prima ladri e assassini, e poi gli intellettuali indiani sgraditi. La prigione fu chiamata Kala pani, “acque nere” in hindi.
Lì vicino c’è la segheria Chatham, la più grande e antica di tutta l’Asia. C’è anche la sede del dipartimento forestale. Dopo il disboscamento indiscriminato del passato, oggi le foreste delle Andamane sono rigorosamente protette, e lo stesso vale per la fauna. Per andare a cercare gli elefanti, serve un permesso ufficiale.
Rahul mi aveva consigliato di vestirmi elegante, come i “babu bianchi”, e di mettermi una penna nel taschino della camicia per annotare, o almeno fingere di farlo, tutto quello che dicevano i funzionari. “Bianco è bello”, ha osservato con amarezza. Un’idea discutibile ma efficace: siamo stati ammessi subito nell’ufficio del direttore. “Complimenti”, ha osservato Rahul. “Se fossi stato solo, mi avrebbero lasciato a morire di fame in sala d’attesa”.
Abbiamo incontrato il capo del dipartimento, il forest officer. Senza il suo benestare, non si può neanche piegare un ramo. Il “signore dei boschi” ci ha ricevuto con indosso una camicia kaki e seduto a una scrivania con tre grandi telefoni. “E così vuole sapere che fine hanno fatto gli elefanti”, mi ha detto in tono divertito. “L’azienda di lavorazione del legname che li trasportava ha perso la licenza. Alcuni sono stati venduti sulla terraferma come elefanti da tempio. Altri sono stati liberati. Su Interview island ne rimane un branco allo stato brado”.
Ho alzato lo sguardo.
“Davvero? Si possono vedere?”.
“Impossibile”, ha risposto. “Perché?”.
In incognito
Bella domanda. Ero alle Andamane con un visto turistico, perché sospettavo che i giornalisti fossero graditi quanto i terroristi. Poco prima della mia partenza, l’arcipelago aveva fatto notizia in tutto il mondo dopo che un missionario cristiano era stato ucciso a colpi di frecce. Sembra che avesse corrotto dei pescatori per farsi portare su una delle due Sentinel island per predicare la parola di dio. Il suo corpo non è stato ritrovato.
“Perché amo gli elefanti”, ho risposto. Quand’ero ancora un giovane reporter avevo vissuto per un periodo ad Ayutthaya, in Thailandia, in un allevamento di pachidermi. Dandogli da mangiare, lavandoli e pulendo le stalle, avevo avuto modo di apprezzare il loro effetto tranquillizzante.
“Impossibile”, ha ribadito il direttore.
Si dice che l’India si muova lentamente, come un elefante. Lo stesso ha fatto il suo volto, che ha cambiato espressione quando ha saputo che ero di Amburgo.
“Amburgo!”, ha esclamato. “Ma lì giocano i calciatori professionisti!”.
“Eh, già! Però, dopo cinquant’anni, la squadra è retrocessa”.
“Ma come? L’Amburgo giocava in Champions league!”.
A un certo punto ha preso il telefono. “Su, facciamolo!”, ha esclamato. “Lungo la strada che va a nord ci sono ancora degli elefanti usati per abbattere alberi e impilarli. Laggiù il terreno è cedevole e i macchinari sprofondano. Lo sapeva?”.
Ho scosso il capo.
“Domani ci vada. Ci sarà qualcuno ad attenderla”.
E così abbiamo attraversato la giungla con il primo convoglio del mattino, percorrendo per ore piste tortuose fino al vecchio villaggio di boscaioli di Maya Bandar, in cui si pensa che, a suo tempo, approdò il piroscafo carico di persone e pachidermi.
Gli elefanti si trovavano ai margini della foresta: erano una madre e una nonna, che tenevano tra loro un esemplare più giovane. Ci hanno spiegato che la più anziana faceva parte di quell’antico carico. I pachidermi ci guardavano sospettosi, spostando il peso del corpo da una parte all’altra. Anche l’uomo in uniforme che ci aveva accolto mi guardava male. Prima che potessi fare domande, dalla boscaglia è spuntata un’altra femmina. Intanto, quella anziana continuava a dirigersi verso di noi. A un certo punto si è fermata piuttosto vicino.
“Devo preoccuparmi?”, ho chiesto spaventato a Rahul.
“Certo, ma non per gli animali. Per quella, piuttosto”, e ha indicato la macchina fotografica. Trovandomi finalmente al cospetto degli elefanti, avevo dimenticato gli avvertimenti e scattato delle foto. “Queste le cancelliamo”, ha ordinato l’uomo in uniforme. “Ora è meglio che se ne vada”.
Sospettavo che i giornalisti fossero graditi quanto i terroristi
Sono rimasto in zona per qualche altro giorno, alloggiando in una locanda. Ho studiato la vegetazione. Ho scoperto un punto d’attracco chiamato German jetty (molo tedesco), probabilmente perché progettato da un ingegnere venuto dalla Germania. Ma di elefanti non ne ho più visti.
Tornato a Port Blair, ho preso un traghetto per Havelock island, destinazione finale del mio viaggio. Era lì che era stata scattata la foto di Rajan mentre nuotava. “Forse”, mi ha detto Rahul al momento dei saluti, “il suo spirito sta ancora attraversando il mare.
Il traghetto era espresso, affollato e con un’aria condizionata fortissima. A bordo servivano samosa con il ketchup e proiettavano video di Bollywood. È stato un sollievo quando siamo sbarcati e ho preso un risciò a motore, che ha imboccato una strada fiancheggiata da palme che ondeggiavano al vento, fino alla spiaggia di Radnaghar. Per la sua sabbia bianca è considerata la più bella dell’arcipelago e ospita il resort più lussuoso. La direzione dell’albergo aveva rilevato Rajan alla fine degli anni del disboscamento. L’elefante da lavoro era un’attrazione per i turisti, che potevano richiederlo per le immersioni subacquee. È in quelle circostanze che era stato notato dall’autrice della foto appesa nella hall dell’albergo.
“Ci sono volute settimane per avere lo scatto perfetto”, mi ha detto il direttore dell’hotel. Aveva una sorpresa in serbo per me. “Certamente saprà che Rajan è morto di vecchiaia. Ma il suo mahut è ancora vivo, e lavora da noi. Le farebbe piacere parlarci?”.
Poco dopo mi sono trovato faccia a faccia con Chotu Ram, il conduttore del più celebre elefante nuotatore delle Andamane. Quell’omino con un po’ di pancetta e un sorriso malizioso si era preso cura di Rajan per quindici anni, dopo che il suo predecessore era stato ucciso da un cobra.
“Gli elefanti sono nuotatori nati”, mi ha detto, “come i pesci”.
“Già, ma senza branchie”, ho ribattuto.
“Esatto. Per respirare tirano fuori dall’acqua la proboscide, come un boccaglio”.
“Sì, ma come si fa a trasformare un elefante in un animale acquatico?”.
“Be’”, ha spiegato Chotu Ram, “gli elefanti amano l’acqua dolce, ma non quella salata. Bisogna abituarli spruzzandogliela addosso un po’ alla volta. Alcuni mahut troppo sbrigativi li spingevano in mare a bastonate. C’è chi ha provato con i polli”.
“I polli?”.
“Sì, prendevano due polli, gli spuntavano gli artigli e li legavano davanti agli occhi dell’elefante, come paraocchi. Poi montavano in groppa al pachiderma e lo conducevano in mare. Con due polli che si agitano davanti ai tuoi occhi, ti spaventeresti per un po’ d’acqua?”.
“D’accordo. Ma come si cavalca un elefante tra le onde?”.
“È facile: ti accucci sul suo collo, gli dai il comando e poi un calcetto con il piede dietro l’orecchio sinistro, se vuoi che vada a destra, con il piede destro, se vuoi che vada a sinistra. Quando t’immergi con lui, i segnali devi darli con le mani, perché ha le orecchie sott’acqua. Tutto qui”.
Mentre Chotu Ram raccontava, gli brillavano gli occhi. E mentre lo ringraziavo mi è venuta l’idea per l’inizio del romanzo: un vecchio elefante indiano a galla nell’oceano, circondato da un banco di sgombri argentati, in mezzo a giardini di anemoni di mare, pennacchi di gorgonie e coralli. ◆ma
Dennis Gastmann è uno scrittore tedesco. Ha pubblicato libri di viaggio
e il romanzo Dalee (Argon 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 154. Compra questo numero | Abbonati