Non bisognerebbe mai fidarsi a scatola chiusa delle immagini, tanto meno delle immagini di guerra. Oggi questa lezione non vale solo per i giornalisti, ma anche per gli utenti dei social network e per chi si occupa di mezzi di comunicazione. Un’immagine è sempre un frammento della realtà, che viene intenzionalmente racchiusa in una certa cornice. Le immagini si prestano a essere manipolate, costruite o distorte. Possono trasformare in modo decisivo la percezione generale di un evento, magari già noto. Le immagini, insomma, non sono oggettive.
Con le immagini si fa politica, soprattutto nel caso di una guerra, che “è la continuazione della politica con altri mezzi” (in momenti come questi, la vecchia citazione di Carl von Clausewitz è quanto mai attuale). Le immagini mettono pressione sulla “politica”, perché prenda posizione e agisca di conseguenza. Le immagini non si limitano a mostrare la realtà, ma ne producono una tutta loro e perciò riescono a influenzare il corso degli eventi. Le immagini hanno un potere.
Tutto questo vale anche per le atroci fotografie scattate a Buča, nella periferia di Kiev, che hanno fatto il giro del mondo. Mostrano cadaveri, quasi esclusivamente di ucraini, apparentemente uccisi da soldati russi. Il 27 febbraio (tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina) la città, che allora aveva 25mila abitanti, è stata raggiunta dalle truppe russe. Circa un mese dopo i russi si sono ritirati. Così, per la prima volta dall’inizio della guerra, giornalisti e fotografi di tutto il mondo sono entrati a Buča.
Le immagini che hanno raccolto sono difficili da sopportare. I mezzi d’informazione possono vederle attraverso i siti delle agenzie fotografiche e quindi decidere in autonomia se e quali pubblicare.
Nelle foto di agenzia il soggetto più frequente sono i cadaveri in abiti civili, abbandonati sulle strade, apparentemente dove sono morti. Alcuni sono appoggiati al bordo del marciapiede, altri sono stesi sull’asfalto, alcuni sono accanto a una bicicletta e altri hanno le mani legate dietro la schiena. A giudicare dalle immagini, sembra che alcuni siano stati uccisi in modo mirato e altri in modo casuale, per poi essere abbandonati sul posto per motivi non chiari: forse per intimorire i sopravvissuti, forse perché la furia dei combattimenti impediva di recuperarli o forse per semplice, disumana pigrizia. Alcune foto mostrano una fossa comune, che secondo le testimonianze sarebbe stata scavata dagli ucraini: dentro ci sono sacchi di plastica neri contenenti cadaveri. In altre si vedono gambe e braccia che spuntano dalla terra. Infine, ci sono le immagini scattate in un cortile che sembra essere stato il teatro di una vera e propria esecuzione: per quel che si riesce a vedere, tutti i cadaveri hanno le mani legate dietro la schiena.
Le atrocità non sono inevitabili, ma sono spesso parte della guerra
Problemi etici
Una foto, scattata per il New York Times a Buča dal pluripremiato fotografo irlandese Ivor Pickett, ritrae una donna in un giardino: secondo l’autore la donna ha 76 anni e il cadavere che ha di fronte è quello di sua figlia, uccisa dai soldati russi all’inizio delle ostilità. A quanto pare, il corpo non è stato seppellito a causa dei combattimenti ed è rimasto nel giardino per settimane, coperto alla bell’e meglio da un telo di plastica da cui spuntano le gambe: ai piedi indossa calzini di lana beige e scarpe nere. Tra le infinite immagini intollerabili, questa foto è particolarmente atroce perché non mostra un cadavere anonimo, ma una donna morta, con un nome, e una donna viva, una madre a cui è stata sottratta la figlia.
Allo stesso tempo, però, questa immagine non è un documento fotografico oggettivo, e non solo perché dal punto di vista teorico i documenti fotografici oggettivi non esistono. La foto pone soprattutto dei problemi di carattere etico, perché contiene elementi di una possibile messa in scena: la madre si trova lì, accanto al cadavere di sua figlia, perché le è stato chiesto di mettersi lì? A questa domanda possono rispondere solo il fotografo e la donna ritratta: ma chiederglielo non è facile, e intanto l’immagine fa il giro del mondo.
Da lontano e senza interrogare testimoni e carnefici non si può neanche stabilire con esattezza in quali circostanze siano state uccise (o piuttosto assassinate) le persone ritratte. Sembra fuori di dubbio che a sparare siano stati dei soldati russi, ma non sappiamo, per esempio, se lo abbiano fatto su ordine dei superiori, con la loro approvazione o contravvenendo alle loro disposizioni. Non sappiamo nemmeno cosa abbiano dovuto subire le vittime prima di morire. Non c’è ancora nulla di certo, eppure le immagini sono già onnipresenti e stanno già trasformando la percezione di questa guerra. Sta succedendo adesso. E queste immagini vanno contestualizzate adesso. Perché è adesso che vengono usate.
Organizzazioni come Human rights watch stanno tentando di accertare e documentare le esatte circostanze dell’accaduto, mentre il procuratore generale della Corte penale internazionale dell’Aja indaga già da settimane sui possibili crimini di guerra in Ucraina. I morti di Buča non sembra fossero soldati e questo, secondo l’attuale definizione, fa della loro uccisione quasi automaticamente un crimine di guerra. Ma a valutarlo dovranno essere, in un secondo momento e se i fatti verranno portati alla loro attenzione, i tribunali: la Corte penale internazionale o eventuali istituzioni create ad hoc per giudicare i crimini di questa guerra. Le fotografie scattate a Buča, a quel punto, sarebbero certamente delle prove e i presunti colpevoli andrebbero sottoposti a giudizio, proprio come i responsabili politici. Se questo non avvenisse sarebbe ancor più intollerabile delle immagini stesse.
In questa come in altre guerre le immagini vengono prima; le spiegazioni, e anche le indagini, arrivano dopo. Per ora l’unica cosa evidente è che le persone ritratte sono morte di morte violenta e che non c’è nulla che possa riportarle in vita.
È altrettanto evidente che in occidente queste immagini hanno conseguenze politiche. La ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha chiesto di inasprire le sanzioni contro la Russia e di aumentare gli aiuti (presumibilmente militari) all’Ucraina, e ha annunciato l’espulsione di diversi funzionari dell’ambasciata russa. Più prudentemente, il cancelliere Olaf Scholz ha commentato su Twitter che bisogna chiarire “i crimini dell’esercito russo” e portare i responsabili davanti alla giustizia.
Anche il presidente francese Emmanuel Macron si è espresso in modo analogo, mentre il suo collega ucraino Volodymyr Zelenskyj ha parlato di crimini di guerra e lo statunitense Joe Biden ha chiesto l’apertura di un processo. Secondo l’agenzia di stampa russa Tass, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha invece accusato l’Ucraina di aver allestito una messa in scena: quello di Buča sarebbe un “attacco fittizio” allo scopo di screditare la Russia. Lavrov non sembra curarsi della totale mancanza di plausibilità delle sue accuse, a sostegno delle quali non ha portato nessuna prova. Del resto, non c’era bisogno delle dichiarazioni che ha reso finora sulla guerra in Ucraina per dimostrare che ha una concezione non convenzionale della verità. Niente è vero, tutto è possibile è il titolo che il giornalista Peter Pomerantsev, nato in Ucraina, ha dato al suo libro sulla Russia all’inizio del ventunesimo secolo. Riassume alla perfezione la propaganda del Cremlino durante la guerra in Ucraina.
La vanità dei carnefici
È ampiamente dimostrato che non esiste guerra moderna senza vittime civili – e che nessuna guerra, seppur giustificata dal diritto internazionale, può essere considerata “pulita”. Le atrocità non sono inevitabili, ma sono spesso parte della guerra, così come le immagini di tali atrocità, anche se non sono mai chiare come uno vorrebbe.
Quando si parla di sfruttamento propagandistico delle immagini si cita spesso l’uso che i nazisti fecero delle fotografie del massacro di Katyn, dove nel 1940 gli agenti del Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) dell’Unione Sovietica fucilarono migliaia di prigionieri polacchi. Nel 1943 i prigionieri polacchi costretti ai lavori forzati scoprirono le fosse comuni e i nazisti diffusero le foto dei cadaveri riesumati – anche per distogliere l’attenzione dalle uccisioni di massa di cui, come sappiamo, si macchiavano loro stessi.
Le prove dei crimini nazisti non furono rivelate fino al 1945, quando furono pubblicate le foto dei campi di concentramento liberati. Dal canto suo, per cinquant’anni l’Unione Sovietica negò le sue responsabilità nel massacro di Katyn. Ci sono voluti altri vent’anni perché un premier russo, nel 2010, partecipasse per la prima volta a una commemorazione delle vittime di Katyn e, in un’immagine simbolica e potente, porgesse la mano in segno di pace al primo ministro polacco, Donald Tusk.
Quel premier era Vladimir Putin, che oggi, in veste di presidente e capo delle forze armate, è responsabile della guerra di aggressione che il suo paese sta conducendo contro l’Ucraina, e quindi anche di ciò che si vede nelle immagini di Buča.
A scattarle sono stati fotografi inviati da mezzi d’informazione e agenzie internazionali. In passato, invece, la documentazione fotografica delle atrocità belliche è stata spesso fornita da persone coinvolte nelle atrocità oppure – come nel caso di Katyn – da chi si proponeva di sfruttarle a proprio vantaggio; solo in un secondo momento le foto finivano in mano ai mezzi d’informazione, che poi le pubblicavano. Questo vale anche per le foto che documentano il massacro perpetrato nel 1968 dall’esercito statunitense a My Lai, in Vietnam, e per quelle delle torture e degli abusi inflitti sempre dai soldati americani ai prigionieri nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, pubblicate nel 2004. Ai colpevoli, a quanto pare, piace fissare in immagini le loro azioni, e questo è un altro degli orrori della guerra. Ancora più terribile è il sospetto che immagini di questo tipo possano rivelarsi più vere di altre, perché per potersene vantare i colpevoli documentano con precisione le atrocità che commettono.
La giusta punizione
Nei casi citati, le vittime erano persone che il diritto internazionale umanitario e in particolare la convenzione di Ginevra definisce “civili”, ma durante la guerra in Iraq gli Stati Uniti hanno fatto un uso piuttosto creativo del concetto di “combattente” in contrapposizione a quello di “civile”. Ne deriva che in un conflitto asimmetrico tra un esercito regolare, come quello statunitense, e gruppi ribelli classificabili più o meno oggettivamente come terroristici, non è affatto chiaro chi possa essere considerato un civile.
C’è il rischio che anche i russi cerchino di sfruttare una definizione allargata di “combattente”, soprattutto se il conflitto si sposterà nelle grandi città, com’è successo a Mariupol. Ripensiamo con timore alle foto scattate all’inizio della guerra: le immagini di donne e uomini ucraini che preparano bombe molotov, celebrati come eroi in Ucraina e in occidente, potrebbero fare il gioco della propaganda russa.
E mentre si teme che le immagini di Mariupol possano confermare quello che viene riferito da settimane, la propaganda russa, nella forma di un commento pubblicato dall’agenzia ufficiale Ria Novosti, si sta già preparando a disumanizzare ulteriormente gli ucraini, estendendo alla popolazione l’accusa di nazismo rivolta da Putin al governo di Kiev. Parte delle “masse” ucraine, sostiene l’articolo, è composta da “nazisti passivi”, e la “giusta punizione” per questo sono proprio le “asprezze” che dovranno sopportare nel corso della “giusta guerra contro il sistema nazista”.
Le immagini di Buča sono arrivate anche in Russia, dove i mezzi d’informazione hanno confermato la tesi di Lavrov secondo cui si tratta di una messa in scena ordita dall’Ucraina. Ma se il governo russo dovesse cambiare idea, potrebbe sempre passare all’altra versione: gli abitanti di Buča hanno solo dovuto sopportare le “asprezze” di una “guerra giusta”. La tv pubblica lo ha già fatto. Niente è vero, tutto è possibile. Una sola cosa è certa: la propaganda russa mente.
Certi di non sapere
Ma qual è la verità delle intollerabili immagini che stiamo vedendo? Anche la risposta a questa domanda è intollerabile: la verità delle immagini di Buča dev’essere ancora accertata. La guerra è così: le immagini arrivano sempre prima che la verità sia stabilita, non solo a livello legale. Ciò è ancora più vero oggi che le immagini sono diffuse immediatamente in rete, anche se alcuni governi stanno diventando sempre più bravi a ostacolare il flusso di informazioni su internet. In seguito la verità può rivelarsi semplice o complessa, ma arriverà sempre troppo tardi per chi deve o vuole gestire immediatamente le immagini e i loro effetti.
In questo senso, la verità non necessariamente è la prima cosa che si perde in tempo di guerra, e non è mai al sicuro nemmeno in tempo di pace. Ma in guerra arriva troppo tardi per riuscire a salvare vite e impedire nuove atrocità. Il contrario della verità non è sempre la menzogna, ma piuttosto la certezza di non sapere tutta la verità proprio quando sarebbe più necessario che mai. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1455 di Internazionale, a pagina 25. Compra questo numero | Abbonati