◆ Che bel verbo è “inventare”, con quel suo concentrato movimento verso un traguardo che si definisce avanzando e nel quale ci si imbatte, se va bene, solo agendo. Inventiamo storie, inventiamo leggi della natura e del vivere civile, inventiamo amori e odi, inventiamo mondi, inventiamo senso. L’invenzione è al centro anche di una bella sintetica definizione della scuola dovuta a Umberto Gastaldi, l’anziano insegnante di cui si è molto parlato la settimana scorsa per la bella storia di affetto e gratitudine che i suoi ex allievi hanno avuto e hanno con lui. Il professore ha detto a Simonetta Sciandivasci, sulla Stampa: “La scuola è e deve rimanere il luogo dell’invenzione di sé stessi, perché è lì che avviene il nostro primo incontro tra noi e mondi sconosciuti”. È così, la scuola non può essere che spazio pubblico d’invenzione. E chiunque ci metta le mani con il piglio del castigamatti, allarmato dai rischi della ricerca condivisa di sé, non fa che peggiorarla. Gastaldi deve avere insegnato per tutta la vita aiutando con intelligenza e sapienza i suoi allievi a inventarsi proprio mentre seguitava a quel modo, ogni giorno, a inventare sé stesso. E gli esiti felici del suo lavoro dimostrano che insegnare è tutt’altro che routine. Senza cercare, urtare, comporre, scomporre, la scuola, specialmente per i più fragili, rischia continuamente di essere un’occasione sprecata.
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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati