Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno annunciato che la Russia stava per invadere l’Ucraina, indicando perfino il giorno dell’offensiva: il 16 febbraio. Sulla data c’è poi stata qualche incertezza, ma decine di paesi hanno cominciato il rimpatrio di diplomatici e cittadini residenti in Ucraina. Misure ingiustificate per Kiev, che ha invitato tutti a non farsi prendere dal panico.
In tutto questo Mosca sostiene che l’Ucraina, o qualcun altro, stia preparando una provocazione nel Donbass per causare una reazione militare russa. Tre mesi dopo l’inizio delle pressioni diplomatiche e militari sull’occidente, che dovevano servire a ottenere garanzie di sicurezza, la Russia è in una situazione complicata.
Tutto è cominciato il 18 novembre 2021, quando Vladimir Putin ha incaricato il suo ministro degli esteri, Sergej Lavrov, di chiedere agli Stati Uniti e alla Nato “serie garanzie di sicurezza a lungo termine”. Secondo il presidente russo era necessario mantenere l’occidente “in uno stato di tensione il più a lungo possibile”. Per farlo, Mosca ha accumulato soldati e mezzi militari in prossimità del confine ucraino.
A giudicare dalla situazione attuale, l’obiettivo è stato raggiunto. L’11 febbraio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avvertito gli alleati che la Russia era pronta a invadere l’Ucraina, indicando la data del 16 febbraio. Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, non ha parlato di un giorno preciso, ma ha fatto intendere che l’attacco ci sarebbe stato entro il 20 febbraio, durante le Olimpiadi di Pechino.
Alle domande dei giornalisti sulle prove dell’imminente offensiva russa, Sullivan ha risposto con una certa vaghezza: le conclusioni di Washington, ha detto, si basano sul dispiegamento di forze e attrezzature russe ai confini ucraini e sulle “informazioni ricevute dai servizi segreti”. Tuttavia, il 13 febbraio, parlando alla Cnn, il consigliere di Biden non è sembrato più tanto sicuro delle dichiarazioni che aveva fatto due giorni prima. “Non possiamo prevedere con precisione il giorno dell’invasione”, ha detto. “Diciamo solo che in quest’arco di tempo un’invasione, una grande operazione militare russa in Ucraina, potrebbe cominciare in ogni momento prima della fine delle Olimpiadi. Ma potrebbe anche succedere dopo”.
Il 13 febbraio il dipartimento di stato americano aveva invitato gli statunitensi a lasciare l’Ucraina, seguito a ruota da quasi quaranta stati europei, mediorientali e asiatici. Si è poi saputo anche che gli Stati Uniti e il Regno Unito stavano ritirando i loro rappresentanti dalla missione di monitoraggio dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) nel Donbass, e perfino, insieme al Canada, gli istruttori che erano stati inviati in Ucraina per addestrare il personale militare locale. Nel fine settimana si è parlato anche di una possibile chiusura dello spazio aereo ucraino.
Per le autorità di Kiev queste misure sono ingiustificate, come si deduce da una dichiarazione del presidente Volodymyr Zelenskyj, che ha invitato gli alleati a fornire al suo paese “ulteriori informazioni su questa invasione russa del 16 febbraio”. In un videomessaggio il primo ministro Denys Šmigal ha chiesto agli ucraini di mantenere la calma. “Viviamo in un mondo in cui le notizie si diffondono molto velocemente, e se ci abbandoniamo al panico facciamo il gioco del nemico”.
Sabato 12 febbraio la situazione è stata discussa al telefono da Mosca e Washington. Prima dai ministri degli esteri, Sergej Lavrov e Antony Blinken, poi da quelli della difesa, Sergej Šojgu e Lloyd Austin, e infine dai presidenti Vladimir Putin e Joe Biden. Jurij Ušakov, consigliere di Putin per la politica estera, ha definito il confronto tra i due leader “equilibrato e costruttivo”: a sentir lui, Biden avrebbe detto di essere “un sostenitore della via diplomatica” e avrebbe fatto “una serie di considerazioni che tengono conto di molte delle preoccupazioni russe”. Il presidente russo ha risposto che Mosca analizzerà attentamente le parole di Biden. “Ma, purtroppo – e anche questo è stato esplicitato – le considerazioni fatte non toccano gli elementi centrali delle iniziative russe”, ha precisato Ušakov.
Secondo il consigliere del Cremlino, il presidente russo ha anche accusato le autorità ucraine di “sabotare, ormai da sette anni, gli accordi di Minsk”, puntando poi il dito contro i paesi occidentali, che non farebbero abbastanza per convincere Kiev a rispettare l’accordo siglato in Bielorussa l’11 febbraio 2015 per risolvere il conflitto nel Donbass.
Secondo la Casa Bianca, Biden “ha fatto chiaramente intendere che, se la Russia invaderà di nuovo l’Ucraina, gli Stati Uniti e i loro alleati risponderanno in modo deciso”.
A conti fatti Mosca è riuscita benissimo a creare tensione in occidente
Obiettivi raggiunti
A conti fatti, insomma, Mosca è riuscita benissimo a creare tensione in occidente. Ma non otterrà facilmente le garanzie di sicurezza che voleva. La Russia aveva ufficialmente trasmesso le sue richieste a Washington e alla Nato a metà dicembre: nessuna nuova espansione dell’Alleanza atlantica in Europa, l’assicurazione che nel continente non sarebbero stati installati sistemi missilistici in grado di minacciare Mosca e il ritorno delle forze e delle infrastrutture della Nato alle posizioni del 1997, l’anno del primo allargamento a est. Il testo scritto era accompagnato da un ultimatum trasmesso a voce: alla mancata soddisfazione di queste istanze, seguirà una risposta tecnico-militare.
È piuttosto improbabile che a Mosca si aspettino davvero che le richieste siano soddisfatte esattamente nella forma in cui sono state avanzate. Indipendentemente da quanto è stato dichiarato in pubblico, tutti sono consapevoli che nessun presidente degli Stati Uniti può annunciare la fine della “politica delle porte aperte” alla Nato, neppure in relazione a un singolo paese, in questo caso l’Ucraina.
Tuttavia, l’obiettivo del Cremlino – ottenere garanzie giuridicamente vincolanti del fatto che Kiev non entrerà nell’Alleanza atlantica – può essere soddisfatto anche in un altro modo, indirettamente e in un contesto più ampio: attraverso l’attuazione degli accordi di Minsk sulla risoluzione del conflitto nel Donbass.
Il fatto è che il ritorno del Donbass all’Ucraina – previsto dagli accordi di Minsk – chiuderebbe a Kiev la strada verso la Nato per molto tempo. Il piano per la soluzione del conflitto presentato nel 2020 al Gruppo di contatto trilaterale (Ucraina, Russia, Osce) dalle repubbliche separatiste non riconosciute di Luhansk e Donetsk prevede che le due regioni abbiano uno status speciale all’interno dell’Ucraina fino al 2050. Le due repubbliche chiedono anche che la data possa essere prorogata con un referendum.
Gli accordi di Minsk e le proposte avanzate da Donetsk e Luhansk (a cui Kiev non ha ancora risposto) fanno immaginare la nascita di uno stato nello stato sul territorio ucraino. Questo comporterebbe la creazione di nuovi centri di potere alternativi a Kiev, fonti di potenziali conflitti: tra la capitale e le province autonome ci sarebbero attriti e incomprensioni su ogni argomento. In un contesto simile l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sarebbe impensabile.
L’attuazione degli accordi di Minsk potrebbe inoltre spingere altre regioni, in particolare quelle abitate anche da minoranze etniche, ad avanzare richieste di autonomia. Per uno stato con un governo debole, com’è oggi l’Ucraina, vorrebbe dire rischiare il caos. Anche per questo in un’intervista con l’Associated Press il segretario del consiglio di sicurezza ucraino, Aleksej Danilov, ha esortato l’occidente a non fare pressioni su Kiev riguardo agli accordi di Minsk. Finora l’Ucraina non ha dato prova di voler rispettare l’intesa raggiunta sette anni fa.
Le concessioni di Washington
Ci sono poi i negoziati del cosiddetto formato Normandia, che coinvolge Russia, Ucraina, Francia e Germania. In seguito alle pressioni diplomatiche e militari di Mosca, i colloqui sono ripresi e il primo incontro dopo un lunga pausa, il 25 gennaio, è stato salutato con grande ottimismo. L’ultimo vertice è stato però un fallimento, e questo fa il gioco di Kiev, la cui tattica consiste semplicemente nel non applicare gli accordi di Minsk, senza però rifiutarli esplicitamente. In vista delle elezioni legislative, che si terranno nel 2023, e delle presidenziali, in programma nel 2024, oggi il presidente Zelenskyj e i suoi collaboratori sono impegnati soprattutto a restare al potere. Sanno bene che qualsiasi compromesso sul Donbass può far saltare gli equilibri politici e portare altre forze al governo. La paura di una nuova Maidan è chiaramente più forte del desiderio di mettere fine al conflitto che dura dal 2014.
Tutto questo irrita molto Mosca, che chiede esplicitamente all’occidente di esercitare maggiore pressione su Kiev. A giudicare dalle dichiarazioni dei politici occidentali, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, questa pressione c’è, ma finora non è servita a far cambiare strategia a Zelenskyj.
In compenso gli Stati Uniti hanno accettato di discutere con la Russia “il dispiegamento e l’uso delle forze armate in Ucraina”. Così si legge nel documento con cui Washington ha risposto alle richieste russe, offrendosi di avviare negoziati con Mosca “sulle misure di trasparenza reciproca” in merito alla presenza militare in Ucraina. Gli statunitensi si sono detti pronti a rinunciare a schierare sistemi missilistici offensivi da terra e a mantenere forze permanenti sul territorio ucraino.
Dal punto di vista russo, anche solo l’inizio di un dibattito sull’opportunità che la Nato smetta di allargarsi può essere considerato un dato positivo, come il riconoscimento che l’Europa ha bisogno di una nuova architettura di sicurezza al posto di quella nata dopo la fine della guerra fredda. Un altro risultato confortante è la disponibilità espressa dagli Stati Uniti (anche per iscritto) a confrontarsi con la Russia sul controllo degli armamenti e delle attività militari.
Ma la pressione diplomatica e militare russa degli ultimi tre mesi ha avuto anche molti effetti negativi. E a differenza dei vantaggi, che finora sono solo sulla carta, molti problemi si sono già manifestati.
Per esempio, la fornitura di armi dai paesi occidentali all’Ucraina si è notevolmente intensificata. Aerei per il trasporto di attrezzature militari sono già arrivati all’aeroporto di Kiev-Boryspil dagli Stati Uniti e da altri paesi della Nato. Il 12 febbraio, il ministro della difesa ucraino Oleksij Reznikov ha twittato che Washington da sola ha consegnato all’Ucraina 1.300 tonnellate di aiuti militari. Per la Russia questo è ovviamente un elemento preoccupante. Negli ultimi mesi c’è stato anche un rafforzamento delle presenza militare sul versante orientale, il cosiddetto eastern flank, della Nato. Migliaia di soldati sono arrivati direttamente dagli Stati Uniti.
A Mosca è stato detto che questi contingenti servono ad aumentare la capacità di difesa dei paesi dell’Europa orientale appartenenti alla Nato e non saranno assolutamente coinvolti in un eventuale conflitto in Ucraina.
Un’altra conseguenza negativa per la Russia è l’aumento del sentimento anti-russo in Ucraina. Secondo un sondaggio effettuato a dicembre dall’Istituto internazionale di sociologia di Kiev, il 59,2 per cento degli intervistati è favorevole all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il 49,2 per cento considera molto probabile un’invasione russa e il 57,8 per cento afferma che le autorità ucraine dovrebbero opporsi attivamente alla Russia. In un sondaggio simile condotto nel febbraio 2021 queste percentuali erano decisamente più basse.
Considerato il flusso d’informazioni sulla presenza di una “minaccia russa”, potrebbe esserci anche un ulteriore deterioramento dei rapporti tra la Russia e i paesi occidentali. In uno studio condotto a gennaio dal Pew research center negli Stati Uniti, il 49 per cento degli intervistati considera la Russia un rivale, il 41 per cento un nemico e solo il 7 per cento un partner. E secondo un sondaggio realizzato questo mese in sette paesi dell’Unione europea, il 73 per cento dei polacchi e il 64 per cento dei romeni ritiene “molto probabile” un’invasione russa dell’Ucraina entro il 2022.
Altre conseguenze negative dell’iniziativa di Mosca includono il compattamento della Nato di fronte a una minaccia esterna, il suo riavvicinamento all’Unione europea e l’aumento dei cittadini finlandesi e svedesi favorevoli all’ingresso dei loro paesi nell’Alleanza atlantica. Infine, l’allarmismo su un’imminente invasione russa e le minacce di sanzioni hanno avuto un impatto negativo sulle quotazioni delle aziende russe e sul tasso di cambio del rublo.
Si può quindi affermare che negli ultimi tre mesi la pressione diplomatica e militare esercitata sull’occidente ha portato alla Russia, oltre ad alcuni risultati positivi, anche una serie di conseguenze fortemente indesiderate. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati