Sotto i regimi autoritari di stampo fascista, quando si ha bisogno di parlare ma si ha anche paura di farlo, due cose si dimostrano utili: l’ironia e un linguaggio pieno di codici nascosti. Ridere senza sosta a volte è una reazione per non piangere senza sosta. E il modo in cui parliamo si riempie talmente tanto di rimandi e di metafore che alla fine diventa impossibile tradurre le nostre parole in un’altra lingua. Così si crea uno strano mondo in cui ogni termine è costretto a esprimere più significati e a volte è usato per indicare il suo esatto contrario. Un inferno di significato. E questo non è di certo l’unico inferno che i regimi di stampo fascista fanno vivere alle persone.
Per squarciare l’inferno bisognerebbe avere il coraggio di chiamare ogni cosa con il suo nome. Parole e significati tornerebbero al loro posto e ricominceremmo a formare frasi adeguate alla dignità umana. È proprio quello che ha fatto il video in cui il principale candidato delle opposizioni alle elezioni presidenziali Kemal Kılıçdaroğlu si rivolgeva ai giovani rivendicando la sua identità alevita, cioè il fatto di appartenere a una corrente minoritaria dell’islam. Come hanno detto i mezzi d’informazione dopo che in Brasile Luiz Inácio Lula da Silva ha sconfitto Bolsonaro, “forse non si apriranno le porte del paradiso, ma almeno si chiudono quelle dell’inferno.”
Se il 14 maggio sceglieremo la democrazia, il futuro, il coraggio, la dignità e la vita umana, usciremo da quel posto soffocante in cui ci troviamo da dieci anni
Negli ultimi vent’anni la Turchia è stata governata da segreti che molti di noi non conoscono. Il potere si fonda su questi giochi sporchi. Così cerchiamo video su Youtube: la domenica mattina ci mettiamo davanti al computer per sentire il boss mafioso Sedat Peker che fa rivelazioni sul presidente Erdoğan. Vogliamo verificare i nostri sospetti. Li guardiamo, li valutiamo e alla fine ne discutiamo, per esempio sui social network, usando un linguaggio da dissidenti. Quando questo sistema di codici confuso e sempre più inestricabile non basta, facciamo satira, in modo indiretto.
È una sofferenza sapere chi sono i colpevoli ed essere costretti a denunciarli per vie traverse. L’ultima volta che abbiamo parlato in modo esplicito è stato nel 2013, durante le proteste nel parco Gezi. Quella volta esponemmo le nostre richieste e i nostri problemi. Anche il potere parlò apertamente, spiegando senza ambiguità che nessuno aveva il diritto di fiatare, tranne chi obbedisce. Per la prima volta dopo il 2013 in questo clima pre-elettorale i due schieramenti hanno ricominciato a parlare apertamente. L’opposizione usa la lingua dell’amore radicale. E il potere, a differenza del passato, non sente il bisogno di nascondere che si sta preparando alla guerra.
Questi sono gli ultimi giorni dell’inferno che tutti conosciamo e che abbiamo deciso di sopportare fino al giorno del voto: la leader nazionalista all’opposizione Meral Akşener alle riunioni getta a terra le cartucce vuote raccolte durante gli attacchi alla sede del suo partito; politici, artisti e giornalisti curdi sono arrestati senza motivazioni chiare; Kılıçdaroğlu subisce aggressioni verbali e fisiche; in tutto il paese gli oppositori si attivano per prevenire i brogli elettorali. Tutti sappiamo di cosa avremo paura il giorno delle elezioni, e non vogliamo nemmeno parlarne. È il nostro inferno del non dire.
Il video di Kılıçdaroğlu – che rivendica le sue origini alevite in un paese in cui nel 1993 a Sıvas 35 persone furono bruciate vive solo perché appartenevano a quella minoranza e chi appiccò quel rogo oggi fa parte del governo – è storico. Ma la cosa più importante è la scelta di affrontare di petto la diceria secondo cui “la gente non vota gli aleviti”. Le parole di Kılıçdaroğlu indicano fiducia nella coscienza dell’umanità e nell’intelligenza dei giovani turchi. Sono un gesto politico perfino più importante di una vittoria elettorale. È come se il candidato dell’opposizione avesse detto: “Parliamo ad alta voce e sconfiggiamo l’oscuro sussurro”. Credere che la dignità possa battere il doppiogiochismo, che il bene possa superare il male, il coraggio la paura, significa combattere su questa strada: è così che si fa.
Se il 14 maggio la Turchia sceglierà la democrazia, il futuro, il coraggio, la dignità e la vita umana, le porte dell’inferno si chiuderanno.
Sappiamo tutti che non entreremo in paradiso. Ma usciremo da quel posto soffocante in cui ci troviamo da dieci anni, in cui le paure sono dissipate da battute sulle intercettazioni telefoniche, dette a bassa voce e condivise di nascosto. Avvieremo un dialogo aperto in cui potremo chiamare ogni cosa con il suo nome, in cui ognuno potrà dire chi è in modo trasparente.
Abbandoneremo un inferno in cui siamo stati sviliti, ma ci vergogneremo quando saranno svelati i crimini commessi negli ultimi vent’anni. Se la Turchia troverà il coraggio di mostrare che non è fatta solo di quei crimini, forse lentamente potremo cominciare a camminare verso il paradiso. ◆ ga
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Questo articolo è uscito sul numero 1510 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati