Quando è cominciato il 2020 pensavo di essere un giornalista scientifico. Quando l’anno è finito non ne ero più tanto sicuro.
Alla fine del 2019, mentre nel mondo comparivano le prime scintille della pandemia di covid-19, io me ne andavo in giro per le colline in cerca di serpenti a sonagli radiolocalizzati, prendevo la scossa da un pesce gatto elettrico e cullavo nel palmo della mano i piccoli di una tartaruga marina. Con l’arrivo del 2020, mentre il nuovo coronavirus cominciava a diffondersi in tutto il mondo, ammiravo le falene migratrici e mi facevo prendere a pugni sul mignolo da una mantide di mare piccolissima ma incredibilmente forzuta. È vero, condividiamo la realtà con queste creature, ma le nostre esperienze sono profondamente diverse. Il serpente a sonagli avverte – e forse vede – la temperatura del corpo dei mammiferi di cui si ciba. Il pesce gatto è in grado di rilevare i campi magnetici che altri animali producono involontariamente. Sia le falene sia le tartarughe riescono a percepire il campo magnetico della Terra e lo usano per orientarsi durante le loro lunghe migrazioni. La mantide di mare vede forme di luce che noi non siamo in grado di vedere ed elabora i colori in un modo che nessuno riesce ancora a capire bene. Ogni specie ha una dotazione unica di sensi. Ognuna conosce una piccola porzione di vedute, odori, suoni e altri stimoli che pervadono il pianeta. Il mio obiettivo era scrivere un libro su queste esperienze sensoriali, una sorta di diario di viaggio che avrebbe portato il lettore nella mente di un pipistrello, di un uccello o di un ragno. “Il solo vero viaggio”, come ha detto una volta Marcel Proust, “non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi”.
Dì lì a poco sarebbe diventato l’unico viaggio che avrei potuto fare. Con il diffondersi della pandemia, la possibilità di viaggiare all’estero è finita. Un’abitudine quotidiana come spostarsi per andare al lavoro è diventata un ricordo sbiadito. Ristoranti, bar e spazi pubblici hanno chiuso. Le forme di aggregazione sociale sono diventate più rare, limitate da una serie di barriere di distanza e tessuti. Il mio mondo si è ristretto nel raggio di pochi isolati, ma i mondi sensoriali di altri animali sono rimasti aperti, magici, accessibili attraverso l’atto della scrittura.
Poi, quando ho dovuto interrompere la stesura del libro per scrivere a tempo pieno della pandemia, anche quei mondi si sono chiusi.
In teoria il 2020 avrebbe dovuto essere un anno di grazia per i giornalisti scientifici. Un virus ha sconvolto il mondo catturandone l’attenzione. L’arcana terminologia degli epidemiologi e degli immunologi – superdiffusione, immunità di gregge, tempeste di citochine, vaccini a mRna – è diventata parte del lessico quotidiano. Gli esperti (e pseudoesperti) di sanità pubblica hanno raccolto un enorme seguito sui social network. L’immunologo statunitense Anthony Fauci è diventato una celebrità. La notizia più importante dell’anno – forse del decennio – era di scienza, e i giornalisti scientifici sembravano nella posizione ideale per raccontarla.
Scrivere di scienza – quando si fa con criterio – spinge l’autore a cercare la chiarezza nella complessità, ad accettare le sfumature, a capire che qualsiasi cosa nuova nasce su vecchie fondamenta e a esplorare l’ignoto delimitando allo stesso tempo i confini della propria ignoranza. I bravi giornalisti scientifici imparano che la scienza non è una processione ordinata di fatti e scoperte, ma un inciampo casuale verso un’incertezza via via sempre minore; che le pubblicazioni sottoposte a peer review (revisione paritaria) non sono il vangelo e che anche le riviste più prestigiose sono inquinate dalle sciocchezze; e soprattutto, che lo sforzo scientifico è compromesso da debolezze umanissime come l’arroganza. Queste qualità avrebbero dovuto essere inestimabili durante una calamità in cui c’era un grande bisogno di spiegazioni chiare, regnava la disinformazione e tutti cercavano risposte senza trovarle.
Ma la pandemia non è stata solo un fatto scientifico. È stata una crisi di tutto che ha deformato e sconvolto ogni aspetto della nostra vita. Mentre il virus aggrediva le nostre cellule, assediava anche le nostre società, penetrando in ogni loro crepa e sfruttando ogni debolezza che riusciva a trovare. E ne ha trovate tante. Per capire come mai gli Stati Uniti hanno risposto così male all’emergenza del covid-19 nonostante una ricchezza enorme e una straordinaria competenza biomedica, dobbiamo parlare non solo di virologia ma anche della storia del razzismo e del genocidio in questo paese, dello stato delle sue carceri e delle sue case di riposo, di quello che è stato storicamente il suo atteggiamento verso la medicina e la salute, degli algoritmi che governano i social network e di quanto era inadeguato il suo penultimo presidente. Non ho toccato quasi nessuno di questi temi in un lungo articolo che ho scritto nel 2018 per l’Atlantic in cui mi chiedevo se gli Stati Uniti fossero pronti per la prossima pandemia. Quando la pandemia è scoppiata davvero, la mia esperienza di giornalista scientifico (che tra l’altro si era occupato specificamente di pandemie) non mi è stata molto utile: mi ha dato un piccolo vantaggio in una maratona ancora tutta da correre. Durante il 2020 molti miei colleghi si sono messi a cavillare sui giornalisti di altri campi che scrivevano di pandemia senza una competenza adeguata. Ma c’è qualcuno che ha davvero la competenza per parlare di una crisi di tutto che, per estensione, è anche una storia di tutto?
La natura onnicomprensiva delle epidemie era già chiara al patologo tedesco Rudolf Virchow, che nel 1848 indagò sulle cause di un focolaio di tifo. Virchow non sapeva nulla del patogeno responsabile del tifo, ma concluse correttamente che l’epidemia fosse da attribuire alla povertà, alla malnutrizione, alla scarsa igiene, alle condizioni di lavoro poco sicure e alle disuguaglianze perpetrate da politici incompetenti e aristocratici negligenti. “La medicina è una scienza sociale e la politica non è altro che medicina su larga scala”, scrisse Virchow.
Questo punto di vista fu condiviso da molti dei suoi contemporanei, ma tramontò con il diffondersi della teoria dei germi. Per cercare di essere obiettivi e politicamente neutrali, gli scienziati hanno concentrato l’attenzione sui patogeni che provocano le malattie ignorando i fattori sociali che le rendono possibili. La scienza sociale e quella biomedica sono state scisse e segregate in discipline, dipartimenti e gruppi di studio diversi. La medicina e la sanità pubblica trattavano la malattia come una battaglia tra l’individuo e i germi, mentre i sociologi e gli antropologi si occupavano del contesto più ampio evidenziato da Virchow. Questa spaccatura ha cominciato a ricomporsi negli anni 0ttanta del novecento, ma resta ancora ampia. Il covid-19 ci è atterrato in mezzo. Per buona parte del 2020 gli Stati Uniti hanno cercato la risposta nei farmaci e nei vaccini accapigliandosi furiosamente su mascherine e distanziamento sociale. Queste ultime misure sono state le uniche che hanno permesso di arginare la pandemia per gran parte dell’anno. Classificate come “interventi non farmaceutici”, sono state messe in contrapposizione con i ben più apprezzati rimedi biomedici. Interventi a livello sociale come il congedo retribuito per malattia e l’assistenza sanitaria universale, che avrebbero potuto aiutare molti lavoratori essenziali a proteggere i propri mezzi di sussistenza senza rischiare la salute, sono stati a malapena considerati.
Durante la pandemia, la mia esperienza di giornalista scientifico non mi è stata molto utile: mi ha dato un piccolo vantaggio in una maratona ancora da correre
La pandemia è stata una storia scientifica, ma anche una storia dei limiti della scienza di oggi. Gli incentivi accademici perversi che premiano i ricercatori per la pubblicazione di studi su riviste di alto profilo stanno spingendo da tempo interi campi di ricerca verso risultati sciatti e irriproducibili; durante la pandemia gli scienziati ci hanno inondato di ricerche raffazzonate e fuorvianti. Gli esperti invitavano i cittadini ad “ascoltare la scienza” come se la scienza fosse un librone di fatti e non un’entità amorfa e dinamica, nata dalla mente collettiva di migliaia di individui che litigano e discutono su dati che possono essere interpretati in una varietà di modi. La sottovalutazione di malattie come la sindrome da fatica cronica ha fatto sì che quando migliaia di pazienti con il covid-19 hanno continuato ad accusare i sintomi della malattia per mesi la scienza non ha avuto nulla da offrirgli. L’ingenua illusione che la scienza sia al di sopra della politica ha fatto sì che molti ricercatori fossero impreparati ad affrontare una crisi globale che nella sua sostanza era sia scientifica sia politica. “C’è un dibattito in corso su cosa dovremmo fare, se sensibilizzare l’opinione pubblica o ‘attenerci alla scienza’”, dice Whitney Robinson, un’epidemiologa sociale. “Parliamo sempre di queste persone dai poteri magici che prendono le nostre conclusioni e le applicano. Pubblichiamo le conclusioni e la conoscenza aumenta! Con il covid-19, però, abbiamo visto che non è vero!”.
L’esperienza con le epidemie portò Virchow a radicalizzare le sue posizioni, spingendo l’uomo che sarebbe passato alla storia come il “padre della patologia” a invocare riforme sociali e politiche. Il covid-19 ha avuto lo stesso effetto per molti scienziati. Molti dei temi che ha sollevato erano già tristemente noti agli scienziati del clima, che hanno accolto tra le loro file diversi epidemiologi traumatizzati. Alla luce della pandemia, dibattiti come quello se la scienza (e la letteratura scientifica) sia o meno politicizzata sembrano piccoli e antiquati. La scienza è politica, che gli scienziati lo vogliano o no, perché è un’impresa inestricabilmente umana. Appartiene alla società. È intrecciata con la società. È della società.
Questo vale anche per quei settori della scienza che sembrano vivere in una specie di angolo protetto dello spazio intellettuale. Il mio primo libro parlava del microbioma, un ambito di ricerca oggi in grande fermento che per secoli è passato sotto traccia perché ha avuto la sfortuna di emergere durante l’ascesa del darwinismo e della teoria dei germi. In una natura feroce e spietata, in cui i germi erano alla radice delle malattie, l’idea che gli animali beneficiassero della cooperazione dei microbi era un anatema. Il mio prossimo libro mostrerà che la nostra visione dei sensi animali è stata influenzata dalla sociologia della scienza, cioè dalla capacità degli scienziati di fidarsi l’uno dell’altro, di riuscire a comunicare le loro idee, di pubblicare su riviste prestigiose in inglese oppure su oscure pubblicazioni in lingua straniera. Questa visione è stata anche ripetutamente condizionata dalla sovrastruttura dei nostri sensi. La scienza è spesso raccontata in modo caricaturale come una ricerca puramente empirica e oggettiva. In realtà, l’interpretazione che uno scienziato dà del mondo è influenzata dai dati che raccoglie, che sono influenzati dagli esperimenti che progetta, che sono influenzati dalle domande che pensa di porsi, che sono influenzate dalla sua identità, dai suoi valori, dai suoi predecessori e dalla sua immaginazione.
Quando nel 2020 ho cominciato a occuparmi di covid-19 ho capito che il nostro solito modo di scrivere di scienza sarebbe stato clamorosamente inadeguato. Il giornalismo è spesso frammentario: le questioni importanti sono scomposte in piccoli pezzi che possono essere trasformati velocemente in contenuti. Per il giornalismo scientifico, questo significa considerare i singoli studi come entità monolitiche e trattarli uno alla volta. Ma di fronte a una crisi totale, questo approccio equivale ad accumulare tessere di un mosaico in modo caotico. Quello che ho provato a fare è stato mettere insieme queste tessere. Ho scritto una serie di lunghi articoli su grandi questioni, tentando di sintetizzare una vasta mole di dati e di dare ai lettori una base solida da cui osservare il torrente d’informazioni che gli scorreva intorno senza affogarci. Ho trattato la pandemia non solo come una questione scientifica, intervistando sociologi, antropologi, storici, linguisti, pazienti e molti altri. E ho scoperto che il giornalismo intorno al quale gravitavo faceva lo stesso. La pandemia ha chiarito che la scienza è inseparabile dal resto della società, e questo collegamento funziona in entrambe le direzioni. La scienza tocca tutto, e tutto tocca la scienza. Le barriere tra differenti ambiti giornalistici stanno crollando. Alla fine mi sono ritrovato a farmi una domanda: cos’è oggi il giornalismo scientifico?
Per molto tempo il giornalismo scientifico ha immaginato che il suo compito fosse quello di aprire la torre d’avorio e rendere i suoi oscuri contenuti accessibili alle masse. Questo però è uno strano modello, pieno di corollari problematici. Parte implicitamente dall’assunto che la scienza sia sotto assedio e poco apprezzata, e che un pubblico riluttante debba essere convinto della sua importanza e del suo valore. Equipara la scienza alle riviste, alle università e ad altre grandi istituzioni che sono effettivamente opache e chiuse. Con atteggiamento un po’ paternalistico tratta la scienza come qualcosa di speciale a cui le persone comuni sono finalmente invitate a partecipare.
Estendere questo invito non spetta a nessuno in particolare. La scienza è molto più di una biblioteca di pubblicazioni o della somma delle opinioni di chi ha un dottorato o una cattedra. Il giornalismo scientifico dovrebbe essere altrettanto estensivo. Alla fine, “cos’è il giornalismo scientifico?” è una domanda che non dovremmo nemmeno porci. Una donna che racconta la sua malattia. La storia culturale di un colore. Un’inchiesta su dei barili tossici sommersi. Il ritratto di una città che è vicina a un’azienda aerospaziale. Per me, questi articoli e gli altri che ho selezionato per l’edizione del 2021 di The best american science and nature writing sono la dimostrazione che la scienza è legata a doppio filo con il tessuto della nostra vita, talmente legata che il giornalismo scientifico non può che essere difficile da categorizzare.
Ovviamente in tutto questo c’è un rischio. Tra tutti i settori del giornalismo, quello scientifico probabilmente è l’unico che ci libera delle sovrastrutture e delle costruzioni umane. Cultura, politica, affari, sport e alimentazione riguardano sempre una specie sola. La scienza si occupa di tutte le altre e della totalità dell’universo. Questa sua natura estensiva per me è importante. Ho dedicato gran parte della mia carriera a scrivere di microbi e licheni, lamprede e giraffe, peni di anatra e cacca di ippopotamo. Oggi però lo faccio con una nuova consapevolezza: per quanto prendiamo le distanze, non possiamo mai completamente fuggire da noi stessi. La nostra visione della natura è profondamente influenzata dalla nostra cultura, dalle nostre norme sociali e dalla nostra capacità collettiva di decidere chi può essere considerato uno scienziato. Anche il nostro rapporto con la natura – se le soccomberemo, se impareremo da lei, se riusciremo a salvarla – dipenderà dalle nostre decisioni collettive. ◆ fas
Ed Yong è un giornalista scientifico britannico di origine malese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Contengo moltitudini (La nave di Teseo 2019). Questo articolo è uscito sull’Atlantic con il titolo What even counts as science writing anymore? È un estratto della sua prefazione a The best american science and nature writing 2021.
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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati