Ricordo la prima volta che vidi cadere le granate: era una sera d’inizio aprile, nel 1992. Sentii uno scoppio sordo e guardai fuori dalla finestra. Il sole era appena tramontato, e vidi la familiare foschia grigio-purpurea che risaliva verso le montagne a ovest di Sarajevo.
All’improvviso un colpo d’artiglieria volò in aria e colpì il palazzo della televisione. Un attimo dopo un’altra granata cadde sulla strada davanti all’edificio, e poi un’altra e un’altra ancora. A ogni colpo si vedeva prima uno sbuffo di fumo, il rumore dell’esplosione impiegava un secondo per arrivare fino a noi, che osservavamo la scena dal nostro appartamento a più di un chilometro di distanza. Continuavamo a guardare dalla finestra, cercando di capire cosa stesse succedendo. È molto danneggiato? Riesci a vedere qualcosa? La struttura brutalista restava in silenzio, senza dare risposte.
La guerra di Bosnia era in Europa, ma non è parte della sua storia. Quasi tutte le narrazioni del novecento europeo sono una serie di catastrofi fino a un presente rassicurante
Non penso al bombardamento come a una sorta di distruzione della mia innocenza. Stavo per compiere quindici anni e sapevo che la guerra in Bosnia era possibile, anche se quasi tutti, compresa la mia famiglia, si erano convinti che fosse estremamente improbabile. Avevo già visto riprese televisive di Vukovar, una cittadina della vicina Croazia, rasa al suolo dai paramilitari serbi che ora si stavano avvicinando alla mia città. Appena un mese prima di quella sera di aprile, alcuni uomini armati e con il volto coperto avevano fermato la mia famiglia a un posto di blocco allestito durante la notte. Come tutti gli adolescenti di Sarajevo, prima dello scoppio della guerra non ero sfuggito alle intense discussioni politiche. “Perché loro ci fanno questo?”, era il ritornello generale: loro i politici, loro i generali, loro gli uomini con il volto coperto.
Dopo aver visto cadere le prime granate quella sera, fui attraversato da un pensiero diverso, infantile: loro sanno che siamo qui? Doveva esserci una ragione, volevo credere, una tattica razionale in azione: stanno bombardando la stazione tv per interrompere il segnale; non vogliono ucciderci.
Quella notte ci furono altri bombardamenti, che misero in discussione i miei pensieri. Nel buio sentimmo esplosioni provenire da diverse direzioni. Al mattino ci rendemmo conto che le granate cadevano alla cieca, colpendo gli edifici e le strade poco lontano, senza un obiettivo strategico preciso. Tornò un po’ di calma, a parte qualche sparo che echeggiava in lontananza nelle colline intorno a Sarajevo. Uscii e incontrai altri ragazzini del quartiere che avevano raccolto pezzi di schegge e li scambiavano come fossero biglie.
Trent’anni dopo, sono ancora sorpreso da quanto ci sforzassimo d’ignorare una cosa evidente di quei primi giorni di guerra. Non ci riguarda, diceva con sicurezza un vicino, è un gioco territoriale tra Belgrado e Zagabria, e per di più durerà poco, perché noi bosniaci non combatteremo mai gli uni contro gli altri! Qualcun altro interveniva per dire che no, la chiave è a Washington, ma la conclusione era la stessa: ora che gli Stati Uniti hanno ufficialmente riconosciuto la Bosnia come stato indipendente, dovranno farlo anche tutti gli altri. Di qualunque cosa si tratti, aggiungeva un altro vicino, Sarajevo non sarà come Vukovar, questo è sicuro. Ci sarà solo qualche altra settimana di questo caos: possiamo comunque sopportarlo, per quanto terribile.
Non sarebbe stata solo qualche settimana, ma 1.425 giorni. All’inizio della guerra sembrava più facile e sensato immaginare scenari ottimistici che guardare in faccia l’alternativa: che i bombardamenti potevano andare avanti per un tempo indefinito, continuando a terrorizzarci, a ferirci, a ucciderci. Era un’idea spaventosa, lo spalancarsi di un abisso, un’idea troppo terribile per ignorarla a lungo, per quanto ci provassi. Noi ci abbiamo provato e riprovato.
Perfino mentre scrivo queste parole dubito di me stesso, mi chiedo se abbiamo davvero capito fino in fondo uno qualsiasi di quei giorni. So solo cosa successe: il bombardamento, il caos, la paura, l’incertezza. Loro sanno che siamo qui? Non ho nessuna grande risposta sul significato della mia esperienza. Con gli anni sono arrivato a pensare che forse queste domande non sono ingenue, ma pre-politiche, in senso etico. Noi siamo qui. Noi esistiamo con e per gli altri, non per ubbidire a un qualche limitato obiettivo politico. Le nostre vite quotidiane sono il fondamento senza cui non può esistere alcuna forma di politica, strategia o ideologia, neanche le ideologie che cercano di negare o cancellare la nostra esperienza.
Non so esattamente quando la frase “prima della guerra” entrò nelle nostre vite, ma lo fece con tanta sicurezza che non ci lasciò quasi mettere in discussione questo nuovo tempo, e da allora viviamo nella sua scia.
Io ho vissuto in prima persona solo le prime settimane dell’assedio di Sarajevo. A fine aprile mia madre mise me e il mio fratellino su uno degli ultimi treni che lasciarono la città, decisa a raggiungere un piccolo paese della Dalmazia in cui mia zia aveva una casa, “per stare al sicuro finché le cose si calmano”. Mio padre rimase in città, dicendoci con tono poco convincente – ma io volevo crederci tanto che mi persuase comunque – che sarebbe finita presto: non preoccupatevi, l’estate prossima sarete di nuovo qui.
Prima della guerra credevo che bura (in italiano “bora”) fosse semplicemente la parola dalmata per tempesta, ma in realtà è un vento freddo del nord che può mettere tutto sottosopra. D’inverno spazza la Dalmazia, schiaffeggia la schiuma del mare sull’Adriatico e la scaglia in aria con raffiche furibonde, lasciando tutto coperto da una sottile patina di sale. Nei giorni in cui la bura scuoteva furiosamente porte e finestre, avevamo molto tempo per tornare con il pensiero alla Sarajevo assediata. Stanno di nuovo bombardando? Cosa sta facendo mio padre? Ha abbastanza da mangiare e da bere? E i nostri amici, la nostra famiglia, i nostri compagni di scuola? Sono vivi? Quando lo sapremo?
Le forze serbe che condussero l’assedio per tutti quegli anni sono responsabili, si calcola, di diecimila morti a Sarajevo. Mio padre riuscì a salvarsi: alla fine abbandonò la città assediata, così ci riunimmo dopo tre anni. Mia madre, mio fratello e io ormai eravamo negli Stati Uniti. Tra le tante cose sconvolgenti, fui disorientato nell’incontrare molti statunitensi che parlavano del nostro arrivo come del preannunciato lieto fine della nostra storia di guerra.
Oggi guardare l’invasione russa dell’Ucraina – i primi bombardamenti; i saluti caotici quando le famiglie si separano, le mani premute contro i finestrini del treno; la devastazione di Mariupol, Charkiv, Kiev – ha fatto riapparire la marea dei ricordi.
La guerra di Bosnia era in Europa, ma non fa parte della sua storia. Quasi tutte le narrazioni del novecento europeo si snodano attraverso una serie di catastrofi per arrivare a un presente rassicurante, un finale soddisfacente in cui l’Unione europea, malgrado i suoi problemi, significa pace, prosperità, rispetto dei diritti umani e altri nobili valori. Visto in questa prospettiva, lo smembramento della Jugoslavia negli anni novanta sembra una deviazione triste ma in definitiva irrilevante dai sentieri ben battuti della storia.
L’attacco all’Ucraina ci ha costretto a una resa dei conti con questa rosea prospettiva. Le discussioni sulla riconciliazione dell’Europa con Vladimir Putin – e con Viktor Orbán nell’Unione europea – continuano a occupare le prime pagine. Infuriano i dibattiti su cosa significa l’impegno per la pace di fronte alle guerre imperiali della Russia in Cecenia, Siria e Ucraina.
Ma la guerra in Bosnia rimane un punto cieco. Ci sono molte ragioni per questa rimozione. Una è la percezione occidentale dei Balcani come una periferia, una regione ambigua tra il continente europeo e il Medio Oriente che non fa parte di nessuno dei due luoghi. Un’altra è la più lunga storia dell’islamofobia che lega i Balcani alla concezione dell’Europa come una terra cristiana e bianca a cui i musulmani sono sostanzialmente estranei. Proprio perché volevano affermarsi come europei, nel secolo scorso molti politici dei Balcani hanno cercato di occidentalizzare i loro paesi cancellando le eredità ottomane e i popoli musulmani che vivevano nella regione.
Radovan Karadžić era uno di questi politici. Un imbroglione da quattro soldi diventato poeta-profeta alla fine degli anni ottanta, Karadžić si attribuì il ruolo di difensore serbo dell’Europa contro i musulmani bosniaci, o bosgnacchi, che definì collettivamente come “fondamentalisti” e “terroristi”. Alcuni mesi prima dell’aprile 1992 predisse “la scomparsa del popolo musulmano” in Bosnia. Furono in pochi a prenderlo sul serio, finché non entrò in guerra per conquistare territori e tentare di mettere in atto la sua minaccia. Le autorità occidentali risposero pubblicamente con appelli a tutte le parti ad abbracciare la pace, ma di fatto dietro le quinte accettarono tacitamente la logica islamofobica della visione di Karadžić. In linea con le opinioni dei leader francesi e statunitensi sulla questione bosniaca, “anche funzionari britannici parlarono di una dolorosa ma realistica restaurazione dell’Europa cristiana”.
Come storico credo che la mia professione sia in grado di affrontare questi temi, però resta un problema più profondo, fondamentalmente narrativo: il desiderio che la storia ci consegni un lieto fine, un rassicurante superamento dell’intolleranza del passato o un presagio che il futuro sarà migliore. È qui che avverto con la massima chiarezza i limiti del mio mestiere. Nei trent’anni trascorsi dallo scoppio della guerra in Bosnia, molto di quanto è successo nel paese si è distillato in poche grandi parole: nazionalismo, fascismo, genocidio. Tutte descrivono in modo appropriato diversi aspetti di quel che successe, e anch’io le scrivo spesso. Ma so anche che queste parole sono come una rete capace di portare in superficie alcuni grossi oggetti, lasciando che il mare torni a chiudersi su se stesso.
Qualche anno dopo la guerra rientrai nel nostro vecchio appartamento di Sarajevo. Dopo la partenza di mio padre ci avevano vissuto molte famiglie; conoscevamo la prima, ma non le successive. A un certo punto avevamo fatto richiesta perché ci fosse restituito e, dopo anni di carte che viaggiavano avanti e indietro, ricevemmo una notifica del tribunale secondo cui l’appartamento era nostro. Quando ci rimisi piede per la prima volta dal 1992, era completamente vuoto, perfino i lavandini della cucina e del bagno erano stati portati via, le pareti spostate e ridipinte.
Comprai una sedia di plastica in un mercato e tornai di nuovo a casa. Era sera e rimasi seduto per un po’, ricordando cose di prima della guerra, osservando quanto era cambiato il quartiere, ascoltando suoni strani e familiari. E subito dopo il tramonto del sole vidi la foschia grigio-purpurea, il palazzo della televisione, il monte Igman e pensai: che bella città è Sarajevo. ◆ gc
Edin Hajdarpašić
è nato in Bosnia. Insegna storia alla Loyola university di Chicago. Questo articolo è uscito sulla Boston Review con il titolo Do they know we’re here?
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Questo articolo è uscito sul numero 1457 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati