Editoriali

Rinunciare al gas russo è possibile

I leader europei si vantano delle dure sanzioni che hanno imposto alla Russia, ma non hanno ancora adottato quella più efficace: boicottare i combustibili fossili russi. Quasi il 40 per cento delle entrate dello stato russo proviene dalle esportazioni di idrocarburi, per cui l’Europa paga mezzo miliardo di euro al giorno. Il governo ucraino ha chiesto più volte di fermare le importazioni, ma molti paesi, a cominciare dalla Germania, esitano. Il piano della Commissione europea prevede di eliminare la dipendenza dalla Russia “entro il 2030”.

Secondo un rapporto dell’ong RePlanet, per rinunciare subito al gas e al petrolio russo l’Europa dovrebbe ridurre drasticamente il consumo di energia e aumentare la produzione da altre fonti. Gli autori elencano alcune proposte per riuscirci: limitare il riscaldamento negli edifici, riducendo la temperatura da 22 a 18 gradi, vietare i voli all’interno dell’Europa e il transito dei veicoli a motore nelle principali città, fermare lo smantellamento delle centrali nucleari in Germania, Svezia e Belgio e aumentare la produzione di energia atomica in Francia. È un piano radicale, che comporterebbe scelte molto difficili. Gli europei hanno già pagato caro l’aumento dei prezzi dell’energia e l’inflazione. Gli effetti di un boicottaggio sarebbero ancora più pesanti. Ma i costi possono essere ripartiti in modo più equo, con aiuti per i redditi più bassi, razionamento dell’energia e tasse più alte per le aziende che hanno realizzato enormi profitti grazie all’aumento dei prezzi.

Il sondaggio di RePlanet mostra che quasi il 70 per cento degli europei è favorevole a boicottare il gas e il petrolio russo. Ovviamente è più facile esprimere il proprio sostegno a parole che accettarne le conseguenze quando ci si trova di fronte alla pompa di benzina. Ma è la prova che per la maggior parte degli europei è ipotizzabile fare grandi sacrifici per fermare la brutale aggressione russa. La scusa secondo cui il boicottaggio è impossibile perché richiede un cambiamento rapido e radicale nella società non regge più. Questo, se non altro, è ciò che abbiamo imparato dalla pandemia.

La Cina prigioniera del covid

Da più di due settimane Shanghai, la capitale finanziaria della Cina, è in lockdown. Il governo ha difficoltà a rifornire i suoi 26 milioni di abitanti di beni di prima necessità, anche perché le forniture sono paralizzate dalle rigide norme secondo cui tutti i casi di covid-19, compresi quelli asintomatici, devono essere isolati nelle strutture per la quarantena. Molti riferiscono di aver finito le medicine, mentre i bambini contagiati sono stati separati dai genitori. La crisi ha innescato un dibattito interno: la strategia che ha permesso alla Cina di evitare una seconda ondata della pandemia è ancora valida ora che gran parte del mondo è tornata alla normalità grazie ai vaccini? La Cina è l’unico paese ancora isolato dal resto del pianeta.

Pechino non sembra avere intenzione di cambiare rotta. L’agenzia di stampa statale Xinhua sottolinea che “la strategia ‘zero covid’ resta cruciale” e che “abbassare la guardia avrebbe conseguenze disastrose”. I funzionari cinesi citano l’esempio di Hong Kong, dove un focolaio della variante omicron ha provocato ottomila morti, in gran parte anziani non vaccinati. Oggi Pechino è di fronte a un dilemma: un’apertura potrebbe provocare molte morti, ma gli esperti sottolineano che uno dei principali motivi dell’esitazione vaccinale è proprio la sicurezza offerta dalla strategia “zero covid”.

In un certo senso la Cina è vittima del proprio successo, anche a livello politico. Per due anni il governo ha contrapposto il proprio modello a quello attuato in occidente, dove i tassi di mortalità sono stati molto alti. Cambiare linea significherebbe smentire questa retorica, tanto più che il presidente Xi Jinping presenta la vittoria sul virus come uno dei suoi grandi successi. Proseguire lungo questa strada però significa moltiplicare i costi economici e sociali della pandemia. Forse la Cina dovrebbe studiare l’esempio dei paesi che hanno revocato le restrizioni seguendo le indicazioni della scienza, come Singapore, che ha spinto i suoi cittadini a vaccinarsi fissando un calendario per la riapertura. Altrimenti la cura potrebbe rivelarsi peggiore del male. ◆ as

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1456 - 15 aprile 2022
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